Da tempo un vasto fronte politico-culturale chiede a gran voce l’istituzione del 4 novembre come festa nazionale legata ad un giorno festivo. E’ una richiesta interessata: attraverso la celebrazione del 4 novembre come “festa degli italiani” si vorrebbe concretamente derubricare il 25 aprile quale festa “divisiva”, non più adeguata a rappresentare quello spirito di riconciliazione incarnato invece nel ricordo del 4 novembre. Ma cosa si vorrebbe ricordare in questa data? In primo luogo, va ricordato che la «giornata dell’unità nazionale e delle forze armate», ancora oggi festa nazionale, fino al 1976 era connessa al giorno festivo. Una reintroduzione, insomma, legata alla fine della Prima guerra mondiale. Una data che i più, ormai anche a sinistra, definiscono come «Vittoria». Proprio così, con la V maiuscola e il petto infuori. Ma siamo impazziti?
Nel novembre del 1918 si concluse l’evento più traumatico del Novecento, che addirittura inaugurò – per tramite della sua forza materiale ed evocativa – quel Secolo breve segnato dall’irruzione delle masse nella vita politica degli Stati nazionali. Un evento che va ricordato, costantemente interpretato, addirittura valorizzato nella sua unicità, ma mai “celebrato”. Tre anni fa, nel ricordare l’entrata in guerra dell’Italia, provammo a riflettere su quel giorno sottraendoci tanto alla celebrazione quanto all’ignavia. E invece quel fronte di cui sopra vorrebbe celebrare, nel senso dell’esaltazione nazionalista fuori tempo massimo, una data che sarebbe opportuno sottrarre ad ogni retorica. Purtroppo oggi ci troviamo stretti tra due visioni politiche incapaci di cogliere l’essenziale di quella storia. A destra, sia essa liberale, nazionalista, reazionaria o apertamente neofascista, c’è la glorificazione dell’«inevitabile» pegno di vite umane portate in dote alla costruzione dell’identità nazionale italiana; a sinistra, per reazione, si è andata imponendo la rimozione del valore politico di quell’evento, nonché del rispetto che dobbiamo a quei 600.000 italiani – proletari – che morirono per la guerra altrui. Si è lasciato il ricordo di quei caduti alla destra, ritagliandoci la parte dei nostalgici della diserzione.
Riguardo alla diserzione ci viene in soccorso Victor Serge, di cui pochi giorni fa abbiamo “riletto” la sua autobiografia. Nelle pagine iniziali del libro, nel ricordo degli anni della Grande guerra, riflette sul suo privilegio di non combattente, con queste parole, anche queste, come abbiamo già detto nell’occasione della recensione, che colano oro:
«Non provavo nessuna gioia di rivivere, libero, privilegiato nella mia generazione mobilitata, in quella città felice; ne provavo un confuso rimorso. Perché mai ero là, in quei caffè, su quelle spiagge dorate, mentre tanti altri sanguinavano nelle trincee di tutto un continente? In che cosa valevo più di loro? Perché ero escluso dalla sorte comune? Incontravo disertori, contenti di aver attraversato la frontiera, salvi. Riconoscevo loro questo diritto, ma dentro di me mi sentivo indignato all’idea che si potesse, con tanto accanimento, disputare la propria vita quando si tratta di quella di tutti, di una sofferenza senza limiti da portare insieme, da bere sino alla feccia. […] Questo bisogno di partecipare alla sorte comune, vedo oggi che l’ho sempre sentito e che fu uno dei miei moventi più profondi».Victor Serge è senza dubbio persona oltre ogni sospetto di esaltazione militarista, di malcelata passione per armi e battaglie, amore per eserciti e divise. Peraltro, negli anni tra il 1914 e il 1916 non ha ancora incontrato il comunismo sovietico, non si è ancora convertito al bolscevismo: appartiene solidamente al movimento anarchico, peraltro nella sua versione più “pacifica”, meno attratta dalla violenza. Eppure sente dentro di sé l’errore di fondo connesso all’elogio della diserzione. Che lui giustamente divide dalla sorte del disertore, di cui ha rispetto o quantomeno comprensione, ma che non può farsi “teoria”. Ecco, la sinistra ha fatto della diserzione una teoria, giustificando la fuga, l’esodo, e non la «partecipazione alla sorte comune», per dirla con Serge.
Ma se ricordare la sorte del proletariato italiano (ed europeo) impone di ricordare la guerra, di valorizzare questo ricordo, come dicevamo, riconoscendo nel proletario forzatamente “militarizzato” il proprio simile, per nessuna ragione al mondo si può celebrare la guerra, soprattutto quella guerra. Men che meno celebrare addirittura la “Vittoria”. Vittoria di chi? Per chi e che cosa? Il comunismo del Novecento nasce nella e dalla lotta a quella guerra, alla carneficina determinata da nazionalismi politici riflesso di imperialismi economici non più capaci di risolvere pacificamente i conflitti legati alla produzione e alla divisione del mondo in sfere di influenza coloniale. La Prima guerra mondiale è un fatto tutto interno all’imperialismo europeo, non una “guerra di classe” combattuta in forma asimmetrica. Il comunismo come movimento rivoluzionario rinascerà dal fango della socialdemocrazia primo-novecentesca grazie alla rottura in seno ai partiti socialisti della Seconda internazionale proprio in merito alla resa di questa alle ragioni della borghesia nazionale dei diversi paesi europei; in Russia la rivoluzione si affermerà soprattutto grazie alle parole d’ordine contro la guerra; il primo provvedimento della Russia comunista sarà l’uscita del paese dalla guerra, pagato come noto a caro prezzo con la pace di Brest-Litovsk.
Se la Prima guerra mondiale servì alla nazionalizzazione della popolazione italiana, una nazionalizzazione inceppata e che produsse la stagione di fortissime lotte di classe del “biennio rosso” e, per reazione, il fascismo, perché oggi questa corsa alle celebrazioni? L’attuale forma politico-culturale del potere liberale non ha alcuna necessità di “nazionalizzare” masse che, al contrario, vanno opportunamente de-nazionalizzate, disancorate dallo Stato o da qualsiasi altra organizzazione collettiva di interessi sociali. Le masse vanno individualizzate e gli individui atomizzati: questo il senso profondo del sistema ordo-liberale europeista. Nonostante ciò, il 4 novembre serve come grimaldello politico attraverso cui fare i conti con l’antifascismo costituzionale, rappresentato dalle residualità formali del 25 aprile e di alcuni (ormai) inutili articoli della Costituzione. Crediamo che questo sia il senso politico di questo improvviso patriottismo delle classi dirigenti italiane, un patriottismo che – come tutti i patriottismi imperialisti – va combattuto e non accarezzato.
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