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23/09/2021

L’Unione Europea smette di essere soft

L’Unione Europea con il documento 2021 Strategic Foresight Report, ha imboccato con decisione la strada di quella che viene definita “autonomia strategica”.

Un progetto pieno di ambizioni con l’obiettivo di costruire un polo capace di competere con Stati Uniti e Cina nel XXI Secolo.

Ma occorre fare i conti con la realtà: le proiezioni indicano che fra trenta anni il Pil della Ue sarà pari solo all’11,3% di quello mondiale (era il 18,3 nel 2019). Insomma non abbastanza per avanzare pretese di grandeur, ma niente affatto distante da quello – in declino – degli Stati Uniti.

Le direttrici di questo progetto riguardano le conseguenze dei mutamenti climatici, la transizione digitale, la riduzione della dipendenza da fattori esterni, la politica militare.

Tutti i paesi aderenti alla Ue vengono dunque sottoposti ad una fortissima ed inedita sollecitazione per adeguare le loro strutture produttive, legislative e decisionali a questa ambizione.

Il primo passo è stato quello di mettere a disposizione una certa quantità di finanziamenti per ristrutturare e adeguare i vari sistemi paese (Recovery Fund etc.).

Il secondo sarà la riforma dei Trattati per superare l’ipoteca immobilizzante dell’unanimità nel prendere le decisioni e sostituirla con le cooperazioni rafforzate (i paesi che convergono su una decisione la adottano senza più subire veti di chi è contrario). Una svolta “decisionista” che riduce ancor più lo spazio di manovra “sovrana” dei singoli paesi, a prescindere dal consenso popolare o meno.

In parallelo andranno avanti con tempi decisamente più rapidi una serie di “modernizzazioni” di sistema e la centralizzazione produttiva e tecnologica intorno ad un numero più ridotto di grandi gruppi industriali e finanziari (i cosiddetti “campioni europei”) in grado di competere con i giganti statunitensi e cinesi.

Entro il 2025 la Ue punta ad avere operativi otto supercomputer per l’utilizzo delle tecnologie quantiche, sviluppare le biotecnologie, ridurre la dipendenza energetica dall’estero portandola dal 60 al 15% entro il 2050, intensificare l’Alleanza Europea per le batterie, rafforzare le catene del valore “interne” alla Ue.

Infine, ma non per importanza, disporre di un proprio apparato militare completo e indipendente, integrabile ma non subordinato alla Nato, o almeno alla “vecchia” Nato a dominanza Usa che abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa.

Dovrebbe essere superfluo sottolineare come questo ambizioso progetto avrà conseguenze sia interne ai paesi della Ue sia all’esterno.

Le centralizzazione tecnologica, produttiva e finanziaria intorno a grandi gruppi “europei” non può che ridisegnare e subordinare la mappa produttiva fin qui esistente nei singoli paesi. Ce lo dimostra l’Alitalia, ma le orecchie stanno fischiando anche a “gioielli di famiglia” come Leonardo, Fincantieri, Eni ed Enel.

Chiusure, ristrutturazioni, licenziamenti e concentrazioni a livello europeo saranno all’ordine del giorno anche in settori che fino ad oggi si sono ritenuti al riparo perché “competitivi” o “remunerativi”.

Se è vero che l’obiettivo della Commissione è di raggiungere l’80% di consumi interni di energia da fonti a basse emissioni carboniche (prevalentemente fonti rinnovabili), riducendo l’utilizzo di combustibili fossili a meno del 10% del totale, anche l’uso delle fonti rinnovabili richiede materie prime diverse da quelle tradizionali (carbone, petrolio, gas) e queste dovranno essere assicurate – con le buone o con le cattive – in nome ovviamente di una transizione ecologica che, se lasciata in mano alla logica capitalistica, non potrà che essere agita dal punto di vista della “remunerazione” e non certo dell’equilibrio ambientale o degli interessi collettivi.

Dunque ci sarà da “andare a prendersi” le materie prime o i semilavorati necessari, e persuadere chi ne dispone che fare affari con la Ue è una proposta che non si può rifiutare a cuor leggero.

Per i semilavorati (dai seminconduttori ai chip) o per i prodotti medicinali si possono internalizzare e/o accorciare le filiere produttive (magari destinando i paesi europei più deboli al ruolo avuto dalla Corea o dalla Cina), ma le materie prime vanno “rapinate” lì dove esistono in natura.

Ed è qui che il soft power europeo cambierà volto – assumendone uno assai più arcigno e neocoloniale – qualora, com’è prevedibile in modo quasi scontato, la competizione sulle materie prime dovesse incarognirsi sui vari teatri di crisi.

A questo serve l’esercito europeo “capace di proiezione internazionale” che è punto centrale e dirimente dell’autonomia strategica.

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