La diminuzione dell’orario di lavoro dovrebbe essere naturale data l’elevata produttività raggiunta con la nuova tecnologia robotica-informatica. Keynes affermò che il tempo di lavoro degli operai si sarebbe ridotto automaticamente con il progredire della scienza, portando l’umanità ad un solo passo dalla soluzione dei “propri problemi economici, le forze economiche e tecnologiche faranno entrare l’umanità nell’era del tempo libero e dell’abbondanza“, rimarrà un solo problema dividere in parti accurate il poco lavoro residuo distribuendolo attraverso una drastica riduzione dell’orario lavorativo.
“Turni di tre ore, a settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore al giorno” (Keynes, Esortazioni e profezie); il calcolo veniva fatto con i macchinari disponibili allora, oggi si potrebbe pensare, date le nuove tecnologie, ad una settimana lavorativa di sole quattro ore.
Ma le tendenze del sistema economico mondiale è ad aumentare gli orari di lavoro e a cambiare l’organizzazione del lavoro, smentendo l’analisi economica keynesiana. Nel ventesimo e nel ventunesimo secolo si è vista una grande crescita degli investimenti orientati ad incrementare la produttività; più i macchinari industriali sono stati modernizzati, raggiungendo in alcune lavorazioni la completa sostituzione della manualità umana, più è stato impossibile, teoricamente, per i lavoratori, acquisire nuove riduzioni del proprio orario di lavoro.
Si è così creata una contraddizione tra alto livello di produzione, che vede immessi sul mercato mondiale una quantità di merce mai raggiunta in precedenza, e tempi di lavoro aumentati con salari che non riescono a coprire i fabbisogni dei diretti produttori.
L’economia di mercato capitalista non ha nessuna intenzione di liberare i lavoratori salariati dai carichi di lavoro che subiscono da secoli di sfruttamento. Anzi, lungi dal diminuire, l’orario di lavoro, sta continuamente aumentando “grazie” a nuove forme di spremitura della forza lavoro umana con organizzazioni produttive sempre più sofisticate e coercitive rispetto a quelle adottate in passato.
Nel ventunesimo secolo il tempo di lavoro, con i suoi aumentati ritmi, con la sua organizzazione dilazionata in tutta la settimana lavorativa, rimane il tiranno del tempo di vita dei lavoratori, condizionando tutta la loro esistenza.
Nel pieno aumento del processo di modernizzazione della produzione l’orario di lavoro tende ad aumentare; il capitale non intende mollare il proprio profitto: soprattutto in periodi di crisi economica tende ad incrementare lo sfruttamento della forza lavoro, come è stato nella crisi del 1974, del 2008 e con l’odierna crisi pandemica.
Il capitalismo ha le sue leggi, la principale delle quali è la legge del profitto, la sua finalità non è quella di generare beni per l’umanità ma è quella di realizzare una produzione finalizzata al semplice guadagno che ricava dal massimo possibile di durata e dal massimo possibile della intensità produttiva della prestazione lavorativa.
Il primo palese incremento del tempo di lavoro e delle diminuite condizioni di vita nei posti di lavoro, lo si può vedere nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, in particolar modo in Cina, dove in pochi decenni si è visto un notevole incremento della produzione oraria e in ugual modo ha visto aumentato l’orario lavorativo di ogni singolo lavoratore.
Costretti a vivere in condizioni che richiamano alle restrizioni di vita dei salariati irlandesi dei primi dell’800, descritti da Friedrich Engels, nel suo trattato sulla condizione degli operai in Inghilterra, condizione lavorativa che per effetto della globalizzazione, e della conseguente concorrenza tra imprese, viene esportato in tutto il mondo e vede diminuire i benefici ottenuti in Occidente da anni di lotte dei lavoratori.
Nell’industria, in Occidente, la giornata lavorativa è tuttora quella di otto ore, in Europa lo è dal 1919. La conquista delle otto ore diventò definitiva, in tutto il vecchio continente, tra il 1917 e il 1919, grazie alla spinta rivoluzionaria di Russia e Germania.
Le conquiste delle lotte operaie, bisogna affermare, nel capitalismo, non sono mai definitive, già nella crisi del 1929 e nella successiva seconda guerra mondiale gli imprenditori e i vari governi democratici e totalitari aumentarono l’orario di lavoro. In America si arrivò a lavorare anche 70 ore settimanali nell’industria meccanica.
Finita la guerra il ritorno alla giornata lavorativa di otto ore non fu affatto automatica. Nonostante la ristrutturazione degli impianti di produzione, l’orario di lavorò non diminuì, anzi in alcuni settori con la pretesa da parte padronale della ricostruzione, tempi e ritmi di lavoro rimasero quelli imposti durante il periodo bellico.
Nel dopoguerra l’unica significativa riduzione del tempo di lavoro la conquistò la classe operaia con le lotte degli anni ‘60 e ‘70 imponendo la giornata lavorativa di otto ore per cinque giorni a settimana.
A distanza di anni, nonostante l’aumento della capacità produttiva resa dalle nuove tecnologie, gli addetti all’industria delle potenze europee son tenuti ancora a sfacchinare otto ore al giorno per 40 e più ore settimanali, rapportate ai primi del novecento, le ore lavorate, contengono più produttività e più intensità facendo di fatto aumentare il profitto.
Il rendimento del lavoro in base all’accresciuto aumento delle nuove tecnologie robotiche-informatiche, rapportata ai processi produttivi dei primi del novecento si è incrementata a dismisura. L’orario di lavoro, dei lavoratori dell’industria, è si diminuito in maniera marcata tra il 1870 e il 1950, periodo in cui la produttività non ha avuto un forte incremento, è rimasto quasi uguale tra il 1950 e il 2008 rispetto al periodo precedente, nonostante la produttività del lavoro si sia notevolmente innalzata grazie ad una diversa organizzazione del lavoro: Taylorismo, Toyotismo e il massiccio intervento della robotica nella produzione sono riuscite ad eliminare i tempi morti del lavoro dell’operaio.
Dagli anni ’80 in poi il massiccio investimento nelle nuove tecnologie ha visto un aumento della disoccupazione, un incremento della produttività ed un corrispondente aumento della intensità lavorativa.
Stati Uniti
Negli Stati Uniti, dopo la grande depressione, non c’è stata una ulteriore diminuzione dell’orario di lavoro, nonostante l’accresciuto livello tecnologico produttivo, anzi, dopo la reaganomics degli anni ’80, le attività sindacali furono duramente osteggiate, con conseguente diminuzione dell’opposizione dei lavoratori ed imposizione effettiva di un orario lavorativo pi esteso.
Nell’industria manifatturiera fu portato a 41 ore e a queste bisogna aggiungere il notevole incremento dello straordinario portando l’orario lavorativo al di sopra dei livelli raggiunti negli anni ’50 e ’60: è divenuta prassi comune lavorare il sabato, 20% degli occupati, e la domenica, 12%. Tra il 1957 e il 1978 l’orario di 49 ore settimanali è salito dal 14,3% al 20,6% della forza lavoro.
Dal 1985 sono intervenuti due fenomeni che hanno ulteriormente incrementato l’orario di lavoro; il doppio lavoro, la contrazione dell’assenteismo, diretta conseguenza di salari bassi, di continue minacce da parte imprenditoriale di chiusura dell’azienda per la agguerrita concorrenza globale che ha portato a produrre merce a basso costo e le intimidazioni a delocalizzare l’azienda in paesi dove la manodopera viene pagata al disotto della sussistenza.
Giappone
La realtà della sua industria ad alta tecnologia contrasta ancor di più con un’automatica e rapida diminuzione dell’orario di lavoro. L’orario di lavoro settimanale abitualmente va oltre le 40 ore settimanali, sia per effetto dell’allungamento dell’orario giornaliero sia perché, nella piccola e media impresa giapponese, costituita dai 2/3 dell’intera forza lavoro, il sabato lavorativo è ormai diventato parte dell’orario normale di lavoro.
Anche nella grande industria il 72% dei lavoratori lavora almeno un sabato al mese mentre l’orario giornaliero è superiore del 15-30% a quello nord americano e le ferie degli operai sono di 7,5 giorni all’anno. La nazione che ha saputo prima delle altre usufruire di un’alta tecnologia industriale è quella che più di tutte spreme la forza lavoro ed ha un orario di lavoro assai più pesante rispetto a quello Occidentale.
La peculiare forma di organizzazione dell’industria giapponese viene identificata con il toyotismo che si è insinuato in tutti i livelli produttivi grazie alla sconfitta subita dal sindacalismo giapponese negli anni ’50 e da una conseguente mancanza organizzativa di un sindacalismo militante.
Proprio sulla dura repressione del movimento sindacale giapponese le direzioni aziendali hanno potuto far emergere il toyotismo, pratica che parte dai principi organizzativi del fordismo portata a condizioni manageriali illimitate.
Risparmiare tempo, spazio e lavoro per minimizzare i costi di produzione e massimizzare la produttività lavorativa, arrivando a pianificare l’immissione della forza lavoro nei processi produttivi in modo da aumentare ulteriormente i tempi di lavoro richiedendo maggiori ore di straordinario, il principio di zero scorte ha eliminato le spese di magazzino.
Lo scopo principale è quello di appesantire e prolungare l’orario di lavoro giornaliero, raggiungendo carichi di lavoro del 15% più pesanti di quelli degli Stati Uniti. Il tempo di lavoro pagato e non lavorato è del 5% e il ricorso allo straordinario è del 20%.
I dati non si riferiscono solo alla piccola e media industria ma vanno ad analizzare anche quelli della grande industria dove il ricorso allo straordinario è di norma di un’ora al giorno. Il toyotismo con l’orario di lavoro prolungato, oltre a far scendere i costi di produzione, svolge la funzione di creare un senso di appartenenza aziendale da parte dei lavoratori.
Gli operai vengono coinvolti a partecipare alle decisioni, fittizie, prese nei circoli di qualità o vengono chiamati a partecipare alle decisioni aziendali aziendali e ad aderire a corsi di formazione professionale al di fuori dell’orario di lavoro.
In questo modo, li hanno portati a rinunciare volontariamente a parte delle loro ferie, riuscendo a strappare una completa collaborazione-sottomissione alla volontà aziendale. Oltre a ghermire le energie muscolari e mentali, il taylorismo riesce in questo modo a strappare anche l’anima dei lavoratori.
Europa
In Gran Bretagna gli operai hanno ottenuto una piccola riduzione dell’orario di lavoro tra il 1979 e il 1981, ma nel periodo delle crisi economiche l’orario è aumentato con l’aumento delle ore di straordinario; 10 ore a settimana per i salariati di sesso maschile e di 6 ore per le operaie. L’orario contrattuale degli operai inglesi è di 45 ore con lo straordinario arriva a 50 ore settimanali mentre per le donne si superano le 45 ore.
Nel periodo thatcheriano, con un insignificante aumento degli investimenti nei macchinari si ebbe un incremento della produttività e una diminuzione del 30% dell’occupazione industriale. L’accumulazione capitalista si avvalse della “maggiore efficienza del fattore lavoro” prestato dagli operai.
In Germania, nonostante negli anni ’80 fu attuato un massiccio investimento, ristrutturando i macchinari industriali, l’orario di lavoro non diminuì neanche di un minuto. L’aumentata produttività ha determinato un aumento massiccio dei tempi di lavorazione, aumentando, di conseguenza, il grado di affaticamento dei lavoratori e causando, in molti casi, disturbi psichici e fisici.
Questo fu causa di una dura protesta operaia, 5 milioni di ore di sciopero 537.000 operai partecipanti, per conquistare le 35 ore settimanali lavorative. Anche dopo l’ottenimento della riduzione dell’orario di lavoro, l’orario medio dell’industria tedesca rimaneva a 40 ore per l’incremento delle solite ore di straordinario.
In sostanza, dal primo ottenimento da parte della classe operaia tedesca delle 40 ore settimanali lavorative, non è cambiato nulla in termini di miglioramento lavorativo, anzi, la legislazione democratica tedesca ha continuato a basarsi, in materia di orario di lavoro, su l’ordinanza di Göring del 1938, nonostante l’aumentata produttività industriale.
Negli ultimi accordi, il lavoratore che ha particolari esigenze familiari, può richiedere un orario di 28 ore a settimana per un periodo di tempo che va dai 6 mesi ai 2 anni, con relativa riduzione stipendiale dopo il quale si tornerà al regime delle 35 ore nominali 40 effettive. Chi ridurrà l’orario, poi, non avrà un conguaglio nello stipendio, tradotto in un bonus in tempo, di 8 giorni di ferie.
Dal 2009 è stato introdotto il minijob con paga di 450€ mensili, dove le imprese che assumono con questo sistema ricevono un incentivo dallo Stato e il lavoratore oltre che essere stato chiamato a fare da sostituto all’operaio assente, viene costretto, data la miserevole paga, ad un ulteriore spremitura da parte del datore di lavoro con il ricorso alle ore eccedenti al suo normale orario lavorativo.
La Francia è il paese europeo dove l’orario di lavoro è diminuito in misura maggiore. Ridotto nominalmente a 35 ore settimanali già alla fine degli anni '80.
Le successive leggi emanate nel 1990, danno la possibilità alle aziende di far funzionare al massimo i loro impianti, richiedendo al salariato una maggiore flessibilità aumentando l’orario lavorativo attraverso una incentivazione allo straordinario; oltre le 35 ore si paga almeno il 10% in più, dopo le prime 8 ore di straordinario si paga il 25% in più, per le successive si arriva al 50%.
In Italia, dopo la seconda guerra mondiale non c’è stata una riduzione sostanziale in media dell’orario di lavoro, 7,95 ore giornaliere nel 1948 e 7,77 ore nel 1984. Le lotte operaie degli anni '60 e '70, portarono allo statuto dei lavoratori, riuscendo a conquistare diritti prima inimmaginabili; non si concretizzarono però in una riduzione oraria giornaliera ma ad una riduzione settimanale dell’orario di lavoro.
Accettando, di fatto, la posizione aziendale che vedeva il sabato come giornata meno produttiva, lasciava il fine settimana di riposo all’operaio per poi spremerlo di nuovo durante i cinque giorni lavorativi con aumenti dei tempi lavoro, con lo straordinario e con il cottimo.
Tra il 1976 e il 1989 le ore di straordinario nella grande industria aumentarono del 4,7% arrivando ad aumentare l’orario settimanale dalle 42 alle 44 ore alla Fiat Mirafiori e di 47-48 ore all’Alfa-Lancia di Pomigliano.
Nell’indotto le ore di lavoro straordinario superavano di gran lunga quelle della grande industria. Il sabato diventò la giornata dedicata al tempo libero, al momento dedicato ai consumi di massa, elemento essenziale per lo sviluppo del terziario e del profitto della piccola, media e grande industria.
In Spagna fino alla fine del franchismo le ore di lavoro eccedevano le 40 settimanali. Dal 1978 al 1991, grazie alla ripresa delle proteste operaie l’orario si è ridotto del 10% avvicinandosi alla media europea, ma immediatamente il padronato è tornato ad imporre tutte le forme possibili di precarietà sperimentate in tutti i settori produttivi del mondo industrializzato, si contano più di 18 tipi di contratti a termine, riuscendo anche ad introdurre un sostanziale aumento dell’orario di lavoro con gli straordinari, aumentando la produzione e il profitto alle spalle di migliaia di lavoratori che rischiano la loro vita nell’industria spagnola, le morti sul lavoro sono aumentate del 3,5 per mille occupati.
In tutto il mondo industrializzato l’orario di lavoro nominale è diminuito ma quello effettivo è aumentato. Nel solo trentennio 1950 – 1980 l’orario nell’industria manifatturiera, nonostante i cospicui investimenti nei nuovi macchinari, è aumentato di circa il 30%.
Il considerevole aumento produttivo giornaliero è accompagnato da un cospicuo aumento dei tempi di lavoro e dall’aumento dell’età pensionabile incrementata, a partire dagli anni '90, dai 4 ai 7 anni. Dal 1990 non passa giorno senza che il Fmi, la Banca mondiale, la BCE, le istituzioni di Bruxelles, i vari governi nazionali, la Confindustria, gli esperti di economia con sontuose rendite e pensioni, esprimono la loro completa avversità sui tempi e i modi di erogazione delle pensioni da elargire ai lavoratori salariati, invocando immediati provvedimenti contro i “pensionamenti anticipati”, plaudendo all’innalzamento dell’età pensionabile.
Per assurdo, con l’aumento della produttività determinato dall’immissione nei processi lavorativi della robotica e dell’informatica aumenta il tempo di lavoro sia nella singola giornata lavorativa, sia nell’aumento dei giorni lavorati con l’estensione dell’età pensionabile.
La crisi del 1974 è stata il punto di partenza dell’offensiva padronale nei confronti del lavoro salariato rivolta ad aumentare il profitto e la produttività ritenute all’epoca declinanti.
Dal 1975 a oggi sono stati messi in discussione tutti i risultati ottenuti dalla lotta della classe operaia del mondo occidentale e questa offensiva, grazie a sindacati accomodanti, è passata attraverso il ri allungamento degli orari di lavoro ed anche tramite altri processi come la flessibilità, sanzioni disciplinari contro l’assenteismo, incentivi salariali alla presenza, intensificazione dei controlli medici, l’aumento dello straordinario, la subordinazione alla volontà padronale delle organizzazioni sindacali, l’incremento dell’intensità con la diminuzione delle pause, la sospensione delle festività, l’estensione del lavoro nero, contratti di lavoro a tempo indeterminato, precariato, contratti a sei, otto, dieci mesi all’anno, il ricorso ad una forza lavoro immigrata facilmente ricattabile, aumento dell’età pensionabile.
L’immissione nel sistema produttivo di nuovi impianti automatizzati non ha avuto l’effetto, come preconizzava Keynes, della riduzione dell’orario di lavoro, ma l’aumento dei tempi di lavoro, l’estensione dell’utilizzo degli impianti con una profonda ristrutturazione del modo di lavorare.
Tutto ciò ha portato alla estensione del lavoro a turni, portando l’operaio a vivere in maniera difforme rispetto al suo naturale orario. Nella estensione del lavoro al sabato, estensione del lavoro alla domenica, introduzione di turni che eccedono le 8 ore, la regolazione del tempo di lavoro, ha preso il sopravvento su quello della riduzione.
L’incremento della produttività e dell’intensità di lavoro è determinato dall’incremento delle nuove tecnologie immesse nella produzione. Soprattutto, dopo la già citata crisi del 1974 e in particolar modo negli anni ’80 quando le teorie economiche reaganiane e thatcheriane hanno imposto il neo liberismo.
Mentre, a livello organizzativo il taylorismo ha imposto la sua organizzazione lavorativa in tutto il mondo industrializzato, creando un’aberrante contraddizione, che vede da una parte aumentare la produzione, grazie alle nuove tecnologie e dall’altra vede un parallelo intensificarsi dei tempi lavoro.
Agli inizi degli anni ’80 il ritmo di lavoro negli stabilimenti americani della Ford era pari a 40-50 secondi al minuto, i restanti 20-10 secondi erano tempo di attesa o di pausa considerato tempo “morto” per il capitale. Alla Mazda, nello stabilimento di Hofu, in Giappone, il tempo di lavoro effettivo è di 57 secondi per ogni minuto pagato.
La diffusione degli orari atipici è una conseguenza della spinta delle imprese a un maggiore utilizzo di nuovi e costosi macchinari da ammortizzare e logorare produttivamente, quanto prima possibile, ai danni dei lavoratori. La tendenza da parte del capitale ad ammodernare i macchinari e, conseguentemente, aumentare i tempi di lavoro, è stata frenata soltanto con la lotta dei lavoratori.
Non appena questa lotta si è affievolita, come da qualche tempo succede, l’offensiva capitalista ha ripreso la sua tendenza a far ricoprire alla forza lavoro tutte le 24 ore del giorno e si è fatta sempre più aggressiva durante i periodi di crisi dove le imprese cercano una maggiore redditività causata dall’aspra concorrenza imposta dai paesi capitalistici emergenti.
Le lancette dell’orologio, per l’operaio, incominciano a girare in maniera opposta alle sue naturali esigenze, la notte diviene giorno, il giorno diventa notte, i giorni festivi diventano lavorativi, estraniandolo da tutti i suoi affetti ed allontanandolo da tutti i suoi interessi, prendendogli la sua forza e strappandogli la sua vita.
È la concorrenza tra le imprese nel mercato globalizzato che impone orari innaturali che vengono chiamati flessibili, variabili, atipici. Al capitale globalizzato dobbiamo imporre l’internazionalismo, l’unità di richiesta di tutti gli operai mondiali della diminuzione dell’orario lavorativo senza decurtazione del salario.
Senza reazione da parte dei lavoratori il capitale in ogni paese impone il neo liberismo tendente ad eliminare ogni tipo di diritto finora conquistato dai salariati.
Oltre all’imposizione di alti ritmi di lavoro il capitalismo, con l’introduzione della tecnologia informatica e robotica, riduce il personale creando alti livelli di disoccupazione. Fin dall’inizio della sua evoluzione il capitale si è servito delle macchine per produrre nel minor tempo possibile la merce immessa sul mercato sostituendo i salariati con la forza motrice, prolungando i tempi di lavoro e l’orario lavorativo agli operai rimasti occupati.
Negli ultimi tempi è diventato lampante che l’alto livello di capacità produttiva non diminuisce l’orario di lavoro, crea nuovi disoccupati portando oltre che pesanti condizioni lavorative anche la diminuzione del salario, condizione necessaria al capitale per imporre il lavoro straordinario.
Il neoliberismo, falsamente, afferma che le libertà dell’azienda e le libertà dei lavoratori sono la stessa cosa. Il miglioramento, secondo la teorizzazione neoliberale, delle condizioni lavorative, si ottiene soltanto dalla completa subordinazione del lavoratore alle leggi del mercato capitalista e alla volontà aziendale.
Sottomissione che può anche realizzarsi con la violenza; non a caso la concezione neo liberista è nata nel Cile di Pinochet, con l'eliminazione di tutte le ingerenze statali nelle attività produttive sostituite da aziende private, ottenendo precarietà e instabilità dei posti di lavoro, aumenti sproporzionati dei ritmi di lavoro, dell’orario, delle turnazioni e della insicurezza lavorativa. Milton Friedman, il teorizzatore di tale mostruosità economica, chiama la imposizione liberista naturalizzazione del mercato, arrivando ad affermare di ottenere un tasso naturale della disoccupazione, non facendolo scendere al di sotto di un certo livello, calcolato nel doppio della disoccupazione presente negli anni ’60, per scoraggiare in modo “naturale” la crescita dei salari e obbligare, per necessità, gli operai a lavorare in orari sempre più lunghi.
Dagli anni '90 all’odierna crisi pandemica, il tempo di lavoro e il salario sono diventati i bersagli principali del neo-liberalismo, con il risultato che il ristagno salariale e l’aumento delle ore di lavoro continuano a crescere.
Più è alto il livello di produzione, determinato da forti investimenti nell’industria, più diminuisce il miglioramento delle condizioni di vita di tutta l’umanità, il progresso tecnico non viene utilizzato per accelerare e intensificare gli orari di lavoro, ma per frammentare il ciclo di produzione, diminuire i salari a parità di tempo di lavoro impiegato e disciplinare e assoggettare la classe lavoratrice alle esigenze aziendali.
Da possibile leva di riduzione dell’orario di lavoro e riduzione della fame nel mondo, data la sua enorme accelerazione ad immettere sul mercato una quantità crescente di merce, si trasforma in arma di distruzione del tempo libero e di impoverimento di massa.
Aumenta la produttività e diminuiscono i salari. Il profitto capitalista raggiunge il suo scopo principale, crea disoccupazione, lavoro precario e povertà; la contraddizione del capitale ha raggiunto il suo apice. Il suo scopo non è il soddisfacimento dei bisogni umani, il capitale è orientato soltanto verso la valorizzazione del proprio profitto.
Il capitale tanto più investe nelle nuove tecnologie tanto più deve recuperare e valorizzare il suo investimento, ed ha una sola maniera per riuscire ad aumentare il proprio profitto: comprimere l’occupazione e aumentare i tempi di lavoro.
Solo la forza della classe operaia internazionale può capovolgere le contraddizione create dallo sviluppo tecnologico capitalistico, rivendicando la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e senza aumento dell’intensificazione lavorativa; è la richiesta che a viva forza deve lanciare il proletariato mondiale riappropriandosi del tempo rubato dal profitto capitalista.
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