Per i fascisti di governo non c’è due senza tre. Prima il “defenestrato” presidente della società pubblica “3 i spa” Claudio Anastasio che ha citato un discorso di Mussolini come indicazione aziendale, poi il Presidente del Senato Ignazio La Russa che ha banalizzato con un falso storico l’azione partigiana in via Rasella, adesso è arrivato il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli che vuole cassare le parole inglesi dalle comunicazioni delle amministrazioni pubbliche e imporre sanzioni fino a 100.000 a chi sgarra.
I fascisti di governo stanno cercando in ogni modo di rimettere nell’agenda politica e culturale del paese il fascismo.
“Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi o di Londra o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento... basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote”. Era il 10 luglio 1938 e questo era scritto sul giornale fascista “Il Popolo d’Italia”.
A farne le spese, cinque anni prima, nel 1923, erano stati i termini inglesi e francesi (vedi la lista) ma fu soprattutto la minoranza slovena che fu costretta all’italianizzazione forzata di nomi, cognomi, parole e istruzione scolastica.
Nel 2023, un secolo dopo, è il vice presidente della Camera Rampelli, insieme ad altri venti deputati, ad aver presentato – a dicembre per la verità – una proposta di legge per “la tutela della lingua italiana”.
I punti principali della proposta di legge Rampelli prevedono la lingua italiana obbligatoria per la fruizione di beni e servizi. L'imposizione di trasmettere qualsiasi comunicazione pubblica in italiano. Obbligo di utilizzare strumenti di traduzione o interpreti per ogni manifestazione o conferenza che si svolga sul territorio del Paese. Divieto di usare sigle o denominazioni straniere per ruoli in azienda, a meno che non possano essere tradotte. Utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro. A scuola e nelle università, corsi in lingua straniera tollerati solo se giustificati dalla presenza di studenti stranieri.
Il testo contiene le “disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana”. Oltre a vari obblighi specifici “in un’ottica di salvaguardia nazionale e di difesa identitaria”.
Rampelli fa notare come secondo le ultime stime dal 2000 ad oggi il numero di parole inglesi confluite nella lingua italiana scritta è aumentato del 773 per cento. Quasi 9.000 “anglicismi” sono attualmente presenti nel dizionario della Treccani su circa 800.000 parole in lingua italiana. E che reputa «non più ammissibile che si utilizzino termini stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente esaustiva».
Ma per i fascisti di governo anche una materia come questa – e le sue mancate attuazioni – deve essere disciplinata da pesanti sanzioni: “La violazione degli obblighi”, si legge nella proposta di legge Rampelli, “comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 a 100.000 euro”.
Dobbiamo ammettere che anche a noi l’assimilazione nel linguaggio corrente dei termini imposti ed ereditati dall’ondata neoliberista dagli anni Ottanta non ha mai garbato moltissimo. Soprattutto quando grandi fregature per i lavoratori sono state denominate “Jobs Act” o “flexsecurity” per sembrare meno inquietanti. E in qualche modo ha fatto bene l’Accademia della Crusca a denunciare che il “Piano Scuola 4.0” del precedente governo era infarcito oltre ogni necessità e misura di termini inglesi da linguaggio aziendale più che da istruzione pubblica.
Ma possiamo dire, rischiando le sanzioni chieste da Rampelli, che siamo davanti quantomeno ad un inquietante “Déjà-vù”? O, se preferite, un “già visto” che non ci piace per niente?
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento