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05/04/2023

USA - Trump formalmente incriminato

Occuparsi del caso Donald Trump ha senso soltanto se lo si guarda come una delle manifestazioni più evidenti della crisi statunitense.

Sarebbe inutile e anche noioso ripetere tutti i dettagli di cui sono pieni i media mainstream, anche italiani. Specialmente per chi è vissuto da adulto in questo paese negli ultimi 30 anni è impossibile non vedere le somiglianze tra il “caso Trump” e il “caso Berlusconi”. Il deja vu non lascia scampo…

E non stiamo parlando degli aspetti boccacceschi o degli interventi chiaramente incostituzionali (dal rifiuto di riconoscere l’autorità della legge, e quindi della magistratura, all’uso del potere politico per scopi anche personali, ecc.), ma proprio dell’irruzione nella “dialettica politica parlamentare” di una variabile imprevista, estranea alla sua logica ed eversiva del sistema di potere stesso.

Ricordiamo che “eversivo” è il termine che qualifica l’azione distruttrice svolta da chi è dentro il sistema di potere, mentre quando l’azione arriva da interessi posti fuori del sistema la giusta definizione è “sovversivo”. O rivoluzionario, insomma.

Non a caso sia nel caso di Trump che in quello di Berlusconi si è parlato molto di “pericolo fascista”, anche perché entrambi hanno sdoganato sia pratiche politiche, sia l’ideologia più reazionaria dei rispettivi paesi, che però hanno referenti sociali e storie istituzionali diverse.

Ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano decisamente più centrali nell’”ordine mondiale”. E quindi le convulsioni degli States assumono una rilevanza assoluta che è impossibile ignorare.

Com’è noto ieri Trump è apparso davanti al Tribunale di Manhattan, a New York, dove ha ascoltato l’elenco dei 34 capi di imputazione a suo carico (tutti di categoria “felony”, con pena massima a 4 anni di carcere), consegnato le proprie impronte digitali e poi è tornato in Florida dove ha tenuto il suo inevitabile comizio travestito da conferenza stampa senza domande.

Ha ovviamente denunciato i suoi accusatori: il procuratore distrettuale di Manhattan Alvin Bragg (“un magistrato sostenuto da Soros”), il giudice Juan Merchan che ha presieduto all’udienza di incriminazione (un “odiatore professionale di Trump”), lo Special Counsel Jack Smith (che guida l’inchiesta sui documenti top secret portati dalla Casa Bianca nella sua residenza privata di Mar-a-Lago), Letitia James (l’attorney general democratica e afro-americana dello Stato di New York che ha guidato l’inchiesta sui beni della Trump Organization che sarebbero stati sovrastimati per ottenere prestiti bancari). E via maledicendo...

Tutto già visto anche in Italia, certo, ma pesa anche la differenza tra i sistemi giudiziari. Negli Usa “l’accusa” (il Procuratore, ai vari livelli) non è rappresentata da un magistrato, ma da un “civile” che viene nominato alla carica dopo una campagna elettorale uguale a quella per le cariche politiche.

Quella di procuratore, del resto, è quasi sempre il primo gradino della carriera politica per gli aspiranti a cariche più importanti.

È quindi facilmente dimostrabile – o comunque molto convincente – che nel caso di personaggi politici, e massimamente in quello di presidenti o ex degli States, i procuratori si muovano sulla base di finalità politiche, utilizzando il codice come un’arma.

Era accaduto anche per Bill Clinton, addirittura mentre era ancora in carica, sottoporsi agli imbarazzanti interrogatori sui suoi “rapporti inappropriati” con una stagista...

E qui si arriva rapidamente alla battaglia già aperta per le prossime elezioni presidenziali (il 5 novembre del prossimo anno), con Trump che prova a rappresentare ancora una volta la parte “invisibile” del paese contro i rappresentanti dell’establishment, sbrigativamente classificati tutti come “democratici”.

Il passaggio preliminare è però eliminare i concorrenti all’interno del partito repubblicano. E in effetti ha costretto il governatore della Florida, De Santis, nonché i “moderati” storici come Mitt Romney a schierarsi seppur tiepidamente dalla sua parte. Poi ci sarà eventualmente lo scontro bis con Joe Biden, già accusato di volere la terza guerra mondiale (in un certo senso è perfino vero...).

A questo scopo il processo per aver comprato il silenzio di una pornostar – che dovrebbe svolgersi praticamente in contemporanea con la campagna elettorale per le presidenziali – può essere per Trump sia una possibilità che un problema.

Lo ha capito bene il procuratore di Manhattan che, contrariamente alle consuetudini, non gli ha fatto scattare le foto segnaletiche, privandolo di un’immagine forte da “perseguitato” da utilizzare sui manifesti e negli spot.

Ma il problema, ripetiamo, non è se Trump può di nuovo correre per la Casa Bianca e magari vincere nuovamente. Il problema è che la “democrazia statunitense”, quella narrata al mondo come l’esempio migliore di un sistema politico che maschera il potere di pochi sotto forme “liberali”, è da tempo scossa dalle fondamenta.

Perché un pagliaccio furbastro come “The Donald” non avrebbe alcuna possibilità di far politica o sfuggire al carcere se non ci fosse una metà del paese che lo vede – da ciechi, certo – come una possibilità di riscatto o tutela contro poteri oscuri, ma certamente fortissimi.

È questa capacità di rappresentare strumentalmente interessi sociali calpestati a costituire la forza dei reazionari come Trump nella loro resistibile ascesa alla testa di un paese.

È un sistema di potere fondato sul massimo arricchimento di pochi che infoltisce le schiere degli impoveriti, e al tempo stesso reprime o ostacola con ogni mezzo (dalla polizia all’esclusione dai media) ogni loro possibile rappresentanza autentica (dal sindacato ai partiti politici), a produrre la fine della “dialettica politica” restringendola ad un’alternanza tra uguali.

Inevitabile che da questa tenaglia possa uscir fuori solo qualche “joker” ben inserito nella classe dominante ma pronto a sfruttare ogni opportunità per scopi non proprio “sistemici”. Un “eversore”. Insomma, un reazionario...

Ma che la finta “democrazia parlamentare” non sa bene come contenere, incartandosi tra richiami alle regole o a princìpi morali mai peraltro rispettati. Che Trump vinca o perda, insomma, il gioco politico è ormai cambiato. E la tentazione di preservare la “stabilità” con l’accentramento del potere in poche mani, intoccabili, non può che peggiorare la crisi (anche di rappresentanza).

Avviene lo stesso in Finlandia, in Italia, in Francia, in Spagna ecc..

Che avvenga negli Stati Uniti, però, è tutt’altro che un dettaglio...

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