Una sentenza del 4 settembre del TAR della Lombardia, conferma come la contrattazione collettiva nazionale non metta affatto al riparo i salari dalla bassa retribuzione “regolare”. Ed è il motivo per il quale il salario minimo va indicato per legge e non lasciato alla contrattazione tra imprese e sindacati.
Il quotidiano Italia Oggi, riferisce che il TAR della Lombardia è intervenuto sulla questione relativa alla corretta applicazione del contratto collettivo da parte dell’azienda, confermando che il contratto di lavoro collettivo applicato dall’imprenditore ai propri dipendenti “rientra nella propria scelta discrezionale”, salvo (ovviamente) il caso di contratti collettivi contenenti previsioni contrarie alla legge oppure riferibili a categorie del tutto disomogenee da quelle in cui opera l’impresa. Secondo il Tar al di fuori di tali casi la scelta dell’azienda non è sindacabile nel merito in sede giurisdizionale, né può intervenire l’Ispettorato del Lavoro.
Il caso in questione riguardava quale fosse il contratto collettivo applicabile da parte di una cooperativa che fornisce servizi fiduciari, cioè nella vigilanza, uno dei peggiori contratti firmati negli ultimi decenni in un settore diventato un vero e proprio verminaio.
A seguito dell’intervento dell’Ispettorato del Lavoro, la cooperativa era stata diffidata al pagamento a tutti i soci-lavoratori dipendenti delle differenze retributive calcolate sulla base del contratto Multiservizi al posto di quello applicato dall’azienda, ovvero quello della Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari. Il motivo dell’intervento e della diffida dell’Ispettorato del Lavoro all’azienda era dovuto al riconoscimento di una retribuzione migliore del contratto Multiservizi rispetto a quella della Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari.
Ma il TAR della Lombardia ha bocciato questo provvedimento, riconoscendo al datore di lavoro – nell’ambito di una più ampia libertà negoziale e all’interno dei confini del proprio settore merceologico – che non è obbligato ad applicare il contratto di lavoro con la retribuzione più alta e può liberamente scegliere quale contratto applicare. I giudici del TAR hanno ricordato che, secondo la legge, il trattamento complessivo minimo da garantire al socio-lavoratore è quello previsto dal contratto collettivo comparativamente più rappresentativo del settore.
Nella vicenda arrivata al TAR della Lombardia, il lavoratore svolgeva servizi di “guardia non armata, portierato, custodia, reception, revisione e manutenzione delle relative attrezzature” e gli era stato applicato il contratto della Vigilanza Privata che, secondo il Tar, risulta essere “appropriato rispetto all’attività svolta da parte della cooperativa” in ragione del settore in cui la stessa cooperativa opera.
Il contratto Multiserivizi, con una retribuzione migliore (ma anch’essa scandalosamente bassa, ndr), si riferisce, invece, ad imprese che svolgono anche altre attività, tra cui pulizia, logistica e servizi integrati.
In entrambi i casi si tratta di contratti sottoscritti da sindacati di settore maggiormente rappresentativi, e ritenuti quindi incontestabili circa la validità nel settore.
Questa vicenda porta clamorosamente alla luce due aspetti decisivi:
il primo è la totale discrezione lasciata alle imprese nell’adottare i contratti peggiori sulle retribuzioni dei lavoratori, soprattutto in quella immensa “area grigia” dei servizi. Il secondo è che i bassi salari sono anche conseguenza dei pessimi contratti firmati dai “sindacati maggiormente rappresentativi” in molti settori.
Ne deriva che se si vuole prendere di petto i bassi salari e il lavoro sottopagato che costringe milioni di lavoratori alla povertà, serve il salario minimo, per legge e chi sgarra va sanzionato. Ragione per cui firmate la Legge di Iniziativa Popolare per il salario minimo a 10 euro. È una scelta di civiltà per tutto il paese.
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05/03/2023
La corsa dell’inflazione, il ritardo dei contratti
Il ritorno dell’inflazione ha evidenziato uno dei problemi principali che caratterizzano l’economia italiana, quello dei bassi salari. L’anno scorso, a fronte di un aumento dell’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (IPCA) del 8,7 per cento, gli aumenti salariali negoziati tramite contrattazione collettiva sono stati in media del 1,1 per cento (dati ISTAT).
Questo ha comportato un divario fra retribuzioni contrattuali e inflazione del 7,6 per cento, il dato più alto dal 2001, primo anno di diffusione dell’indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo.
La situazione è ancora più grave se si considera che il calo dei salari reali dell’anno passato va ad aggiungersi ad un quadro già deprimente. Secondo il Global Wage Report recentemente pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i lavoratori e le lavoratrici in Italia hanno subito un taglio del salario reale del 12 per cento fra 2008 e 2022, in controtendenza rispetto ad altre economie europee come Germania e Francia, che hanno registrato, rispettivamente, una crescita del 12 e 6 per cento nello stesso periodo.
L’Italia presenta anche una percentuale di lavoratori e lavoratrici a rischio di povertà dell’11,8 per cento, quasi tre punti in più della media UE (dati Eurostat del 2019). Un risultato figlio non solo della stagnazione ormai trentennale dell’economia italiana, ma anche di politiche messe in atto dai vari governi succedutisi durante la crisi dell’eurozona, che hanno seguito una strategia di svalutazione interna volta a ridurre il costo del lavoro per aumentare la competitività nazionale.
Dopo lo smantellamento dei meccanismi di indicizzazione salariale (la cosiddetta ‘scala mobile’) negli anni ’80 e ’90, gli accordi più recenti fra le parti sociali, da ultimo il Patto della Fabbrica siglato da Confindustria e CGIL-CISL-UIL nel 2018, prevedono un meccanismo di compensazione dell’inflazione per i minimi salariali basato sull’inflazione calcolata al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (IPCA-NEI).
Ma dato che in Europa l’attuale ondata inflativa è largamente legata all’andamento dei prezzi dell’energia, che a sua volta ha un impatto maggiore in Italia a causa della sua dipendenza energetica, l’indice da usare per la compensazione nei contratti collettivi è ben al di sotto della crescita generale dei prezzi: a fronte di un’inflazione per il 2022 all’8,7 per cento, l’ISTAT ha stimato l’IPCA-NEI al 4,7.
Non sorprende quindi che già a febbraio 2022, a fronte di un’inflazione generale al ‘solo’ 5 per cento, il leader della UIL Bombardieri sia arrivato a dichiarare che il Patto della Fabbrica ‘non esiste più’.
La crescita dei salari negoziati nel 2022 si è attestata ad un livello ben più basso dell’inflazione, anche se depurata dall’andamento dei prezzi energetici. In parte, questo dipende dal fatto che il meccanismo di compensazione dell’IPCA-NEI in alcuni settori si attiva ex post (su questo, il Patto della Fabbrica lascia libertà a ciascun settore). Nel caso del contratto nazionale del settore metalmeccanico, ad esempio, la compensazione rispetto al 2022 sarà decisa a giugno 2023 (ossia dopo la pubblicazione delle stime aggiornate dell’ISTAT).
C’è poi il problema dei contratti scaduti: l’ISTAT stima che circa la metà dei lavoratori dipendenti a fine 2022 sia in attesa di rinnovo. I contratti nazionali firmati nel settore pubblico nel 2022, che hanno registrato aumenti mediamente più alti, a fronte però di un periodo di blocco totale della contrattazione durante la crisi dell’Eurozona, sono entrati in vigore già scaduti, riferendosi in gran parte al triennio 2019-2021.
Difficile poi pensare, come suggerisce Confindustria, che la soluzione sia la contrattazione a livello aziendale, vista la preponderanza delle piccole e medie imprese in Italia dove questa è assente.
In questo scenario, è stato evocato da più parti – ad esempio dalla ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia – ‘lo spirito del 1993’, ossia gli accordi tripartiti firmati sotto l’egida del governo tecnico a guida Ciampi volti ad assicurare l’ingresso dell’Italia nell’euro, che hanno plasmato la forma delle relazioni industriali attuali. Ma è esattamente quell’architettura istituzionale che ha governato tre decenni di stagnazione salariale.
Come ricordato dall’economista Servaas Storm in un articolo sulla disastrosa situazione economica italiana, fra 1992 e 1999 la crescita annuale media dei salari reali è stata dello 0,1 per cento, e dello 0,6 per cento fra 1999 e 2008, per poi andare largamente in territorio negativo, come evidenziato dal Wage Report dell’OIL.
A fronte del crollo continuato dei salari reali, il sindacato dovrebbe riscoprire la conflittualità. In effetti l’inflazione è una forma di conflitto distributivo.
In un recente intervento al Centre for European Reform a Londra, Fabio Panetta, membro del Comitato Esecutivo della Banca Centrale Europea, ha osservato che finora a pagare gli effetti dell’inflazione sono stati i lavoratori e le lavoratrici più che le imprese, che hanno mantenuto i propri margini o in alcuni settori li hanno addirittura aumentati.
Infine i dati sui salari reali e sul lavoro povero evidenziano quanto i lavoratori e le lavoratrici in Italia potrebbero beneficiare dell’introduzione di un salario minimo in aggiunta alla contrattazione collettiva.
In vari paesi europei in cui il salario minimo è già stato introdotto, nel corso dell’ultimo anno il suo livello è stato aumentato in maniera significativa per far fronte all’aumento del costo della vita, che colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a più basso reddito.
Fra gennaio 2022 e 2023, in Germania, il salario minimo è stato aumentato del 22,2 per cento (dati Eurofound), sia per garantirne l’adeguatezza rispetto ai salari medi e mediani, sia per far fronte all’inflazione. Nei Paesi Bassi, il governo ha deciso di aumentare il salario minimo in maniera superiore agli andamenti previsti dalla contrattazione collettiva, per far fronte all’effetto dell’inflazione.
Peraltro la direttiva europea sui salari minimi adeguati, approvata nell’autunno del 2022, suggerisce a quei paesi che hanno già in vigore un salario minimo legale una serie di indicatori di adeguatezza, fra cui l’indicizzazione del salario all’inflazione.
Se a determinare chi paga l’effetto dell’inflazione fra capitale e lavoro è la forza contrattuale delle parti, l’introduzione di un salario minimo adeguato potrebbe giocare un ruolo importante nel rafforzare quella dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia.
Fonte
Questo ha comportato un divario fra retribuzioni contrattuali e inflazione del 7,6 per cento, il dato più alto dal 2001, primo anno di diffusione dell’indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo.
La situazione è ancora più grave se si considera che il calo dei salari reali dell’anno passato va ad aggiungersi ad un quadro già deprimente. Secondo il Global Wage Report recentemente pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i lavoratori e le lavoratrici in Italia hanno subito un taglio del salario reale del 12 per cento fra 2008 e 2022, in controtendenza rispetto ad altre economie europee come Germania e Francia, che hanno registrato, rispettivamente, una crescita del 12 e 6 per cento nello stesso periodo.
L’Italia presenta anche una percentuale di lavoratori e lavoratrici a rischio di povertà dell’11,8 per cento, quasi tre punti in più della media UE (dati Eurostat del 2019). Un risultato figlio non solo della stagnazione ormai trentennale dell’economia italiana, ma anche di politiche messe in atto dai vari governi succedutisi durante la crisi dell’eurozona, che hanno seguito una strategia di svalutazione interna volta a ridurre il costo del lavoro per aumentare la competitività nazionale.
Dopo lo smantellamento dei meccanismi di indicizzazione salariale (la cosiddetta ‘scala mobile’) negli anni ’80 e ’90, gli accordi più recenti fra le parti sociali, da ultimo il Patto della Fabbrica siglato da Confindustria e CGIL-CISL-UIL nel 2018, prevedono un meccanismo di compensazione dell’inflazione per i minimi salariali basato sull’inflazione calcolata al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (IPCA-NEI).
Ma dato che in Europa l’attuale ondata inflativa è largamente legata all’andamento dei prezzi dell’energia, che a sua volta ha un impatto maggiore in Italia a causa della sua dipendenza energetica, l’indice da usare per la compensazione nei contratti collettivi è ben al di sotto della crescita generale dei prezzi: a fronte di un’inflazione per il 2022 all’8,7 per cento, l’ISTAT ha stimato l’IPCA-NEI al 4,7.
Non sorprende quindi che già a febbraio 2022, a fronte di un’inflazione generale al ‘solo’ 5 per cento, il leader della UIL Bombardieri sia arrivato a dichiarare che il Patto della Fabbrica ‘non esiste più’.
La crescita dei salari negoziati nel 2022 si è attestata ad un livello ben più basso dell’inflazione, anche se depurata dall’andamento dei prezzi energetici. In parte, questo dipende dal fatto che il meccanismo di compensazione dell’IPCA-NEI in alcuni settori si attiva ex post (su questo, il Patto della Fabbrica lascia libertà a ciascun settore). Nel caso del contratto nazionale del settore metalmeccanico, ad esempio, la compensazione rispetto al 2022 sarà decisa a giugno 2023 (ossia dopo la pubblicazione delle stime aggiornate dell’ISTAT).
C’è poi il problema dei contratti scaduti: l’ISTAT stima che circa la metà dei lavoratori dipendenti a fine 2022 sia in attesa di rinnovo. I contratti nazionali firmati nel settore pubblico nel 2022, che hanno registrato aumenti mediamente più alti, a fronte però di un periodo di blocco totale della contrattazione durante la crisi dell’Eurozona, sono entrati in vigore già scaduti, riferendosi in gran parte al triennio 2019-2021.
Difficile poi pensare, come suggerisce Confindustria, che la soluzione sia la contrattazione a livello aziendale, vista la preponderanza delle piccole e medie imprese in Italia dove questa è assente.
In questo scenario, è stato evocato da più parti – ad esempio dalla ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia – ‘lo spirito del 1993’, ossia gli accordi tripartiti firmati sotto l’egida del governo tecnico a guida Ciampi volti ad assicurare l’ingresso dell’Italia nell’euro, che hanno plasmato la forma delle relazioni industriali attuali. Ma è esattamente quell’architettura istituzionale che ha governato tre decenni di stagnazione salariale.
Come ricordato dall’economista Servaas Storm in un articolo sulla disastrosa situazione economica italiana, fra 1992 e 1999 la crescita annuale media dei salari reali è stata dello 0,1 per cento, e dello 0,6 per cento fra 1999 e 2008, per poi andare largamente in territorio negativo, come evidenziato dal Wage Report dell’OIL.
A fronte del crollo continuato dei salari reali, il sindacato dovrebbe riscoprire la conflittualità. In effetti l’inflazione è una forma di conflitto distributivo.
In un recente intervento al Centre for European Reform a Londra, Fabio Panetta, membro del Comitato Esecutivo della Banca Centrale Europea, ha osservato che finora a pagare gli effetti dell’inflazione sono stati i lavoratori e le lavoratrici più che le imprese, che hanno mantenuto i propri margini o in alcuni settori li hanno addirittura aumentati.
Infine i dati sui salari reali e sul lavoro povero evidenziano quanto i lavoratori e le lavoratrici in Italia potrebbero beneficiare dell’introduzione di un salario minimo in aggiunta alla contrattazione collettiva.
In vari paesi europei in cui il salario minimo è già stato introdotto, nel corso dell’ultimo anno il suo livello è stato aumentato in maniera significativa per far fronte all’aumento del costo della vita, che colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a più basso reddito.
Fra gennaio 2022 e 2023, in Germania, il salario minimo è stato aumentato del 22,2 per cento (dati Eurofound), sia per garantirne l’adeguatezza rispetto ai salari medi e mediani, sia per far fronte all’inflazione. Nei Paesi Bassi, il governo ha deciso di aumentare il salario minimo in maniera superiore agli andamenti previsti dalla contrattazione collettiva, per far fronte all’effetto dell’inflazione.
Peraltro la direttiva europea sui salari minimi adeguati, approvata nell’autunno del 2022, suggerisce a quei paesi che hanno già in vigore un salario minimo legale una serie di indicatori di adeguatezza, fra cui l’indicizzazione del salario all’inflazione.
Se a determinare chi paga l’effetto dell’inflazione fra capitale e lavoro è la forza contrattuale delle parti, l’introduzione di un salario minimo adeguato potrebbe giocare un ruolo importante nel rafforzare quella dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia.
Fonte
20/11/2020
Salario minimo: l’ennesimo nulla di fatto
Il 28 ottobre la Commissione Europea ha pubblicato una proposta di direttiva (qui il testo integrale)
riguardante il miglioramento delle condizioni lavorative ed in
particolare dei livelli salariali dei lavoratori appartenenti agli Stati
Membri. Che però si tratti di una reale e concreta occasione per
invertire la tendenza decennale delle politiche economiche è tutto da
vedere.
Lo scopo della proposta, come affermato all’articolo 1, è quello di favorire l’adozione nei Paesi membri di un salario minimo ‘adeguato’ e di una diffusa contrattazione collettiva. Tuttavia, a ben vedere, quand’anche essa fosse recepita, non comporterebbe la fissazione di alcun salario minimo né una decisa diffusione della contrattazione collettiva.
L’articolo 5, infatti, oltre a fissare i criteri di adeguatezza per la determinazione del salario minimo, sottolinea come essi si riferiscano soltanto ai paesi dove un salario minimo per legge esiste già. Nessuna legislazione ex-novo, dunque. Inoltre, vi è solo un vago riferimento alle misure utili a valutare l’adeguatezza del salario minimo, che dovrebbe essere commisurato, nei singoli Paesi, al potere di acquisto, al livello e al tasso di crescita generale dei salari e all’andamento della produttività. Senza che sia prevista alcuna chiara e definita relazione tra queste variabili e la dinamica del salario minimo, non resta che la cristallizzazione dell’esistente. È infatti importante notare che queste variabili rappresentano di per sé dei criteri che concorrono alla fissazione dei salari, con o senza previsione legislativa: dunque, sembra proprio che, da questo punto vista, questa direttiva non cambi nulla.
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, invece, nella vaga promozione che se ne fa, l’obiettivo che viene consigliato è quello di una copertura di almeno il 70% della forza lavoro. Tuttavia, se consideriamo i paesi europei, tra cui l’Italia, in cui non esiste alcuna previsione di legge sulla fissazione di un salario minimo e che dunque rappresentano il gruppo dei paesi in cui più si dovrebbero osservare gli effetti di questa direttiva in materia di contrattazione collettiva, i dati OCSE ci confermano che la copertura della contrattazione collettiva compre ben oltre il 70% dei lavoratori dipendenti. Essa è sempre sopra l’80%, Italia compresa, e nel caso dell’Austria arriva al 98%.
Oltre alle belle e vacue intenzioni, dunque, buone per qualche titolone di giornale, di efficace in questa prospettiva non resta nulla: né la fissazione per legge di un salario minimo realmente dignitoso, né la promozione diffusa della contrattazione collettiva tra lavoratori e padroni.
Questa proposta di direttiva dunque, non fa che aggiungersi alle misure propagandistiche che tentano, di volta in volta, di propinarci l’idea di Unione che cambia. Nonostante ciò, il direttore generale della Business Europe, la Confindustria Europea, si è affrettato a definirla “una ricetta per il disastro”. L’intervento è significativo perché sottolinea come, indipendentemente dal contesto nel quasi ci si muove, ai padroni semplicemente non piace che qualcuno si permetta di parlare di politiche salariali. Che nemmeno salti in mente di interferire con la loro arbitrarietà, dunque.
Certo, ci sarebbe stato da sobbalzare se l’Unione Europea avesse davvero deciso di sposare la causa dei lavoratori. Essa, infatti, come abbiamo avuto più volte modo di sottolineare, rappresenta la più efficace architettura istituzionale atta a sterilizzare qualsiasi forma di rivendicazione salariale.
Infatti, l’introduzione di un salario minimo orario significativamente superiore a quello stabilito dai contratti collettivi nazionali, non quello fantoccio proposto dalla Commissione Europea, porterebbe ad una redistribuzione del reddito a favore della classe lavoratrice attraverso un aumento della quota salari a discapito dei profitti senza intaccare in alcun modo i livelli occupazionali. Essi, infatti, dipendono dal livello della produzione, che a sua volta è legato al livello della domanda aggregata. Anzi, l’aumento dei salari, specie quelli più bassi, provocherebbe un aumento dell’occupazione grazie all’aumento dei consumi (e quindi della domanda aggregata) che ne conseguirebbe.
L’Unione Europea, tuttavia, per le sue caratteristiche endemiche ben note sin dalla sua costituzione, rappresenta uno dei principali responsabili della situazione disastrosa in cui si trovano oggi i lavoratori. Già a partire dagli anni ’90, l’Unione Europea ha perseguito con tutte le sue forze l’abbattimento delle protezioni sociali dei lavoratori, attraverso continue richieste agli Stati Membri di attuare riforme del mercato del lavoro seguendo quell’idea di “flessibilità” che ha portato alla precarietà occupazionale nonché alla stagnazione dei salari.
L’ipocrisia, dietro la quale l’Unione Europea nasconde i suoi intenti più diabolici, si manifesta attraverso una serie di scatole vuote, a cominciare dal famoso Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, ormai approvato tre anni fa (17 novembre 2017) di cui è figlia la direttiva oggetto di questo articolo. Nel suddetto Pilastro vengono elencati una serie di principi guida (venti, per l’esattezza) che fanno riferimento, tra le altre cose, al mondo del lavoro in termini di parità di genere, retribuzioni e protezione dei lavoratori. Tuttavia, in termini concreti, l’Unione Europea è ferma a quelle parole, dato che le proposte avanzate sono ancora “in fase di negoziazione” con gli Stati Membri. L’assurdo è che l’assetto economico su cui si fonda l’Unione è fortemente orientato ad una politica liberista che fa della compressione del costo del lavoro un elemento imprescindibile e immodificabile. Infatti, il mantra di Bruxelles è che la crescita economica di un Paese debba avvenire tramite la competitività sui mercati e dunque sulle esportazioni. Ciò significa che, anziché sostenere la domanda interna attraverso l’aumento della capacità di acquisto della classe lavoratrice, diventa imprescindibile contenere i salari in modo tale da calmierare i prezzi delle merci. Qualsiasi tentativo di aumentare il livello dei salari da parte di un governo benintenzionato verrebbe stigmatizzato e ostacolato paventando conseguenze disastrose sull’occupazione attraverso il feticcio dell’inflazione.
L’assetto economico dell’Unione Europea è studiato in modo tale da disinnescare qualsiasi eventuale incremento della dinamica salariale. Abbiamo visto in diverse occasioni come le grandi imprese sfruttino i veri pilastri dell’Unione, ossia le libertà di circolazione di merci e capitali, per mettere alla frusta i lavoratori e gli stessi governi quando timidamente provano a difenderli. Casi come quelli della Whirlpool a Napoli, o dell’ex-Ilva a Taranto, testimoniamo come la classe capitalista possa fare la voce grossa senza che nessuno possa minimamente contrastarla. Questo perché la possibilità di spostare la produzione al di fuori dei confini nazionali priva i lavoratori di qualsiasi strumento, non solo di rivendicazione, ma sempre più spesso della semplice difesa del salario e delle condizioni lavorative. E, a dirla tutta, anche su questo punto, la direttiva di cui stiamo discutendo non agisce minimamente. Essa, non solo non fissa un livello minimo del salario tale da scoraggiare il dumping salariale tra paesi ma, anche tra i criteri di adeguatezza, non cita alcun meccanismo che possa potenzialmente disincentivare la competizione salariale interna all’Unione quale potrebbe essere, ad esempio, la previsione di aumenti del salario più accentuati nei paesi con più grandi avanzi commerciali. Ciò per altro sarebbe in aperto contrasto con le libertà sancite dal Trattato di Maastricht, prima tra tutte la libertà di movimento dei capitali.
La battaglia per miglioramenti nella retribuzione salariale e per migliori condizioni di lavoro è un tassello fondamentale per modificare i rapporti di forza a vantaggio della classe lavoratrice ma, la proposta di direttiva di cui abbiamo trattato, non agevola affatto il compito e anzi si inserisce perfettamente nel quadro di compatibilità sancito dai Trattati.
Fonte
Lo scopo della proposta, come affermato all’articolo 1, è quello di favorire l’adozione nei Paesi membri di un salario minimo ‘adeguato’ e di una diffusa contrattazione collettiva. Tuttavia, a ben vedere, quand’anche essa fosse recepita, non comporterebbe la fissazione di alcun salario minimo né una decisa diffusione della contrattazione collettiva.
L’articolo 5, infatti, oltre a fissare i criteri di adeguatezza per la determinazione del salario minimo, sottolinea come essi si riferiscano soltanto ai paesi dove un salario minimo per legge esiste già. Nessuna legislazione ex-novo, dunque. Inoltre, vi è solo un vago riferimento alle misure utili a valutare l’adeguatezza del salario minimo, che dovrebbe essere commisurato, nei singoli Paesi, al potere di acquisto, al livello e al tasso di crescita generale dei salari e all’andamento della produttività. Senza che sia prevista alcuna chiara e definita relazione tra queste variabili e la dinamica del salario minimo, non resta che la cristallizzazione dell’esistente. È infatti importante notare che queste variabili rappresentano di per sé dei criteri che concorrono alla fissazione dei salari, con o senza previsione legislativa: dunque, sembra proprio che, da questo punto vista, questa direttiva non cambi nulla.
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, invece, nella vaga promozione che se ne fa, l’obiettivo che viene consigliato è quello di una copertura di almeno il 70% della forza lavoro. Tuttavia, se consideriamo i paesi europei, tra cui l’Italia, in cui non esiste alcuna previsione di legge sulla fissazione di un salario minimo e che dunque rappresentano il gruppo dei paesi in cui più si dovrebbero osservare gli effetti di questa direttiva in materia di contrattazione collettiva, i dati OCSE ci confermano che la copertura della contrattazione collettiva compre ben oltre il 70% dei lavoratori dipendenti. Essa è sempre sopra l’80%, Italia compresa, e nel caso dell’Austria arriva al 98%.
Oltre alle belle e vacue intenzioni, dunque, buone per qualche titolone di giornale, di efficace in questa prospettiva non resta nulla: né la fissazione per legge di un salario minimo realmente dignitoso, né la promozione diffusa della contrattazione collettiva tra lavoratori e padroni.
Questa proposta di direttiva dunque, non fa che aggiungersi alle misure propagandistiche che tentano, di volta in volta, di propinarci l’idea di Unione che cambia. Nonostante ciò, il direttore generale della Business Europe, la Confindustria Europea, si è affrettato a definirla “una ricetta per il disastro”. L’intervento è significativo perché sottolinea come, indipendentemente dal contesto nel quasi ci si muove, ai padroni semplicemente non piace che qualcuno si permetta di parlare di politiche salariali. Che nemmeno salti in mente di interferire con la loro arbitrarietà, dunque.
Certo, ci sarebbe stato da sobbalzare se l’Unione Europea avesse davvero deciso di sposare la causa dei lavoratori. Essa, infatti, come abbiamo avuto più volte modo di sottolineare, rappresenta la più efficace architettura istituzionale atta a sterilizzare qualsiasi forma di rivendicazione salariale.
Infatti, l’introduzione di un salario minimo orario significativamente superiore a quello stabilito dai contratti collettivi nazionali, non quello fantoccio proposto dalla Commissione Europea, porterebbe ad una redistribuzione del reddito a favore della classe lavoratrice attraverso un aumento della quota salari a discapito dei profitti senza intaccare in alcun modo i livelli occupazionali. Essi, infatti, dipendono dal livello della produzione, che a sua volta è legato al livello della domanda aggregata. Anzi, l’aumento dei salari, specie quelli più bassi, provocherebbe un aumento dell’occupazione grazie all’aumento dei consumi (e quindi della domanda aggregata) che ne conseguirebbe.
L’Unione Europea, tuttavia, per le sue caratteristiche endemiche ben note sin dalla sua costituzione, rappresenta uno dei principali responsabili della situazione disastrosa in cui si trovano oggi i lavoratori. Già a partire dagli anni ’90, l’Unione Europea ha perseguito con tutte le sue forze l’abbattimento delle protezioni sociali dei lavoratori, attraverso continue richieste agli Stati Membri di attuare riforme del mercato del lavoro seguendo quell’idea di “flessibilità” che ha portato alla precarietà occupazionale nonché alla stagnazione dei salari.
L’ipocrisia, dietro la quale l’Unione Europea nasconde i suoi intenti più diabolici, si manifesta attraverso una serie di scatole vuote, a cominciare dal famoso Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, ormai approvato tre anni fa (17 novembre 2017) di cui è figlia la direttiva oggetto di questo articolo. Nel suddetto Pilastro vengono elencati una serie di principi guida (venti, per l’esattezza) che fanno riferimento, tra le altre cose, al mondo del lavoro in termini di parità di genere, retribuzioni e protezione dei lavoratori. Tuttavia, in termini concreti, l’Unione Europea è ferma a quelle parole, dato che le proposte avanzate sono ancora “in fase di negoziazione” con gli Stati Membri. L’assurdo è che l’assetto economico su cui si fonda l’Unione è fortemente orientato ad una politica liberista che fa della compressione del costo del lavoro un elemento imprescindibile e immodificabile. Infatti, il mantra di Bruxelles è che la crescita economica di un Paese debba avvenire tramite la competitività sui mercati e dunque sulle esportazioni. Ciò significa che, anziché sostenere la domanda interna attraverso l’aumento della capacità di acquisto della classe lavoratrice, diventa imprescindibile contenere i salari in modo tale da calmierare i prezzi delle merci. Qualsiasi tentativo di aumentare il livello dei salari da parte di un governo benintenzionato verrebbe stigmatizzato e ostacolato paventando conseguenze disastrose sull’occupazione attraverso il feticcio dell’inflazione.
L’assetto economico dell’Unione Europea è studiato in modo tale da disinnescare qualsiasi eventuale incremento della dinamica salariale. Abbiamo visto in diverse occasioni come le grandi imprese sfruttino i veri pilastri dell’Unione, ossia le libertà di circolazione di merci e capitali, per mettere alla frusta i lavoratori e gli stessi governi quando timidamente provano a difenderli. Casi come quelli della Whirlpool a Napoli, o dell’ex-Ilva a Taranto, testimoniamo come la classe capitalista possa fare la voce grossa senza che nessuno possa minimamente contrastarla. Questo perché la possibilità di spostare la produzione al di fuori dei confini nazionali priva i lavoratori di qualsiasi strumento, non solo di rivendicazione, ma sempre più spesso della semplice difesa del salario e delle condizioni lavorative. E, a dirla tutta, anche su questo punto, la direttiva di cui stiamo discutendo non agisce minimamente. Essa, non solo non fissa un livello minimo del salario tale da scoraggiare il dumping salariale tra paesi ma, anche tra i criteri di adeguatezza, non cita alcun meccanismo che possa potenzialmente disincentivare la competizione salariale interna all’Unione quale potrebbe essere, ad esempio, la previsione di aumenti del salario più accentuati nei paesi con più grandi avanzi commerciali. Ciò per altro sarebbe in aperto contrasto con le libertà sancite dal Trattato di Maastricht, prima tra tutte la libertà di movimento dei capitali.
La battaglia per miglioramenti nella retribuzione salariale e per migliori condizioni di lavoro è un tassello fondamentale per modificare i rapporti di forza a vantaggio della classe lavoratrice ma, la proposta di direttiva di cui abbiamo trattato, non agevola affatto il compito e anzi si inserisce perfettamente nel quadro di compatibilità sancito dai Trattati.
Fonte
18/05/2020
Lavorare meno lavorare tutti: il perenne conflitto sull’orario di lavoro
Alcuni giorni or sono, il quotidiano della Cei, “L’Avvenire”, titolava in apertura “Lavorare meno, tutti”. Un titolo certo non consueto per il giornale dei vescovi italiani. E difatti, non poca meraviglia – com’è facile immaginare – ha destato quella prima pagina, a tutti i livelli, ma in particolar modo tra i compagni.
Tanto che qualcuno si è spinto a commentare sardonicamente, sui social, “abbiamo conquistato la conferenza episcopale”, a sottintendere come quello slogan, risalente agli anni ’70, in auge nell’allora sinistra rivoluzionaria e in ampi strati della sinistra sindacale, venga ora rilanciato dal giornale della conferenza episcopale, ma abbia perso attrattiva all’interno di ambienti ed organizzazioni “di sinistra”; persino sedicenti comuniste.
Vale la pena ricordare, dunque, che in Italia, l’ultima volta che il tema della riduzione dell’orario di lavoro è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico, risale alla fine degli anni ’90, quando l’allora segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, duellò, su questa materia, con l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi. Senza risultati, naturalmente.
Da quel momento, “la sinistra” di casa nostra, sempre più liberal e compatibile con le logiche del Capitale, e sempre meno radicale, si è piegata ai voleri padronali; mentre i lavoratori, conseguentemente, non solo hanno continuato a sostenere gli stessi tempi massacranti ma hanno, a poco a poco, perso anche quei diritti conquistati durante anni di lotte dure: dall’art.18 alla tempistica per le pause, dalle rivendicazioni salariali fino al diritto di sciopero e manifestazione, messi a rischio dai decreti sicurezza di Salvini e Minniti.
Tutto ciò, sembra quasi superfluo ribadirlo, grazie soprattutto ai sindacati confederali – compresa la Cgil – che, in linea con il principio della “concertazione”, dagli anni ’90 in poi, hanno barattato l’abbandono del conflitto anti-padronale per i diritti dei lavoratori, con rendite di posizione all’interno delle aziende, o con il carrierismo politico di tanti quadri dirigenti.
È noto, ad esempio, l’accordo del Luglio 1992, che la Cgil, nella persona dell’allora suo Segretario Generale, Bruno Trentin, firmò col Governo per il superamento della scala mobile e per il blocco della contrattazione aziendale. Con Trentin che, in quell’occasione, si dimetteva subito dopo la firma.
Da pochissimi mesi, non per caso, il governo Andreotti – a Camere sciolte – aveva firmato gli accordi di Maastricht e le politiche di austerità per sempre, a partire dalla deflazione salariale. La contrattazione sindacale doveva adeguarsi al nuovo quadro, e lo fece con quell’accordo.
Dunque, all’interno del movimento comunista, almeno in Italia, solo alcune organizzazioni di classe hanno continuato ad insistere sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Triste segno dei tempi, in cui il conflitto sociale – che pure rappresentava, fino a qualche decennio fa, il sale della democrazia borghese – sembra essere diventato una bestemmia lanciata contro le nuove divinità contemporanee: Mercato, Aziende, Multinazionali, Banche e Unione Europea.
Eppure, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario rappresenta una battaglia che, rammentiamolo, fu bandiera del movimento comunista fin dalle sue origini. Soprattutto in Europa.
Nel 1848 le Trade Unions ottennero per la prima volta in Inghilterra le 10 ore di lavoro come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai ne lavoravano anche 14-15 al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei, il movimento dei lavoratori ottenne le famose 8 ore come “normalità” contrattuale.
Bisognerà aspettare, invece, la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprenda quota. Con scarsi risultati, purtroppo. E a causa proprio di Pci e Cgil che, nella seconda metà di quegli anni, sperando nella follia del “compromesso storico”, arrivarono a sostenere addirittura il rigore della “politica dei sacrifici”, varata dalle élite politico-economiche per contrastare gli effetti della crisi petrolifera.
Solo in Francia, nel 1998, durante il governo Jospin, fu approvata una Legge per la riduzione del lavoro settimanale, da 40 a 35 ore. Normativa che suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto alle 40 ore settimanali.
Anche in Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la “settimana breve”, in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto, però, eccezione separata dal resto dell’apparato produttivo.
In breve, per quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto anche Keynes, hanno ridotto drasticamente la fatica umana impiegata per unità di prodotto.
In realtà però, nel nostro Paese e negli ultimi tempi, non è la prima volta che settori della borghesia rilanciano questa parola d’ordine, cara ai movimenti comunisti e marxisti. Un anno fa, fu il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, a proporre la riduzione dell’orario di lavoro. Ora, la mozione trova spazio sul quotidiano della Cei e addirittura la rilancia la Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo.
Quando però “Lavorare tutti lavorare meno a parità di salario” diventa uno slogan sbandierato dal giornale della Conferenza Episcopale Italiana e dal Ministro del Lavoro di un governo non certo orientato “al socialismo” ma neanche alla bassa socialdemocrazia, bisogna drizzare orecchie e antenne, perché la fregatura è dietro l’angolo. In questo caso, per esempio, si chiama contrattazione di secondo livello.
Fanno sapere infatti fonti ministeriali: «poiché si dovrà aprire la partita dei rinnovi contrattuali per oltre dieci milioni di lavoratori, il tema della riduzione dell’orario insieme a quello della rimodulazione dell’organizzazione del lavoro potranno essere affrontati in quella sede, in modo più strutturato. Ovviamente, la loro concreta attuazione – precisano – dovrà essere demandata alla contrattazione di secondo livello».
Ma cos’è la contrattazione di secondo livello? È una contrattazione siglata tra singolo datore di lavoro e organizzazioni sindacali, a livello aziendale, che permette di derogare ai CCNL. Consente, tra le altre cose, di gestire più flessibilmente gli orari di lavoro, derogare al limite legale sui contratti a tempo determinato, ampliare la stagionalità, detassare i premi di produzione. Era in realtà nata per “derogare in meglio” rispetto ai contratti nazionali, ma si sa come va con le “deroghe”...
La contrattazione di secondo livello, inoltre, è alla base del welfare aziendale che permette ulteriori risparmi fiscali e previdenziali per le aziende. In pratica, questa tipologia di contratti, definiti appunto contratti aziendali, permette di modificare, a tutto vantaggio delle aziende, con la collaborazione dei sindacati confederali complici, alcuni istituti economici e normativi disciplinati dai Contratti Collettivi Nazionali, quali: Retribuzione, Inquadramento, Tempo determinato, Orario di lavoro, Welfare Integrativo, Formazione Professionale, Ambiente di Lavoro, Salute e Sicurezza, Organizzazione del lavoro, Pari Opportunità, Bilateralità.
Si capisce, allora, come la stipula di questi accordi, sotto la guida del Consulente del Lavoro, permetta all’azienda di potersi “cucire addosso” il proprio contratto secondo le proprie peculiarità. Una contrattazione che assume persino, in taluni casi, carattere territoriale.
In parole povere, la contrattazione di secondo livello potrebbe sancire – in linea con quanto richiesto oggi da Bonomi e Confindustria – la fine del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, approfittando del Coronavirus. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria nominato ma non ancora insediato, ha infatti chiesto, nei giorni scorsi, che: «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero di giorni di lavoro settimanale e di settimane lavorative in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali». Sollecitando, di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.
La Confindustria, dunque, ha alzato subito toni e barricate contro l’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. E si è messa di traverso anche rispetto ad un maggiore ruolo dello Stato nell’economia.
Bonomi, in una intervista rilasciata il 4 maggio al Corriere della Sera, ha affermato che: «Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti, rilanci con più risorse il piano Industria 4.0. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti». Ma non fa per niente schifo l’intervento dello Stato a sostegno delle imprese.
La verità è che, in seguito al disastro economico e alla drammatica flessione del Pil, provocati dalla pandemia, sarà inevitabile un intervento dello Stato in economia, un po’ in tutti i settori produttivi, devastati da delocalizzazioni, “spezzatini” e svendite. Soprattutto considerando che le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno smantellato quel Welfare il quale, specialmente a livello sanitario, oggi sarebbe tornato utile, almeno in termini di vite da salvare.
E considerando, ancora, che lo stesso Stato avrebbe il compito, quasi imprescindibile, di incentivare la domanda aggregata facendo, all’occorrenza, spesa in deficit. Cosa però complicatissima, non solo a causa della strenua opposizione confindustriale ma, soprattutto, qualora l’Italia dovesse aprire nuove linee di debito attraverso il Mes. Quel cosiddetto Fondo Salva Stati che, malgrado quanto si affermi circa l’assenza di condizionalità, sottoporrà l’Italia ad un futuro regime di controllo strettissimo da parte dell’Unione Europea e della Bce.
Insomma, la tagliola giuridica del Fiscal Compact in Costituzione è sempre lì; ma si aggiunge l’ombra fatale della Trojka sul piano operativo.
Appare dunque evidente, stando così le cose, che i padroni si preparino a “concertare”, dopo la pandemia da Covid, senza troppi rischi per i propri interessi, una nuova fase di quella che lorsignori considerano, a tutti gli effetti, un’ingerenza pubblica in affari privati. Un new New Deal, da intendersi come una sorta di keynesismo post bellico, dove l’intervento dello Stato nell’economia, seppur indispensabile, sia a forte trazione aziendalista e neoliberale.
In pratica, un ordoliberismo mitigato e leggermente più spinto sul versante di quella protezione sociale che è da considerarsi improcrastinabile, almeno se si vogliono evitare, nell’immediato, insurrezioni popolari, vista la situazione – alquanto funesta per le tasche di ceti medi e subalterni – che si prospetta quando si andranno a fare i conti effettivi del lockdown e delle sue conseguenze sull’economia reale.
Insomma, è fuori discussione che lo Stato, per far ripartire l’azienda Italia dovrà intervenire. Il problema è come lo farà.
I comunisti e la riduzione dell’orario di lavoro
Una domanda, a questo punto, s’impone però con tutta la sua drastica impellenza. Come rispondono a tutto ciò i comunisti? Quali sono le prospettive di lotta e le strategie che la sinistra, quella che ancora si percepisce radicale, malgrado le tante deviazioni di percorso, e quella sinceramente rivoluzionaria, mettono in campo?
Riteniamo che, facendo tesoro delle esperienze passate, e anche guardando alle disastrose condizioni in cui versa l’ecosistema planetario, il movimento comunista debba necessariamente tornare a mettere al centro del suo programma il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
La riduzione dell’orario, in funzione di controllo sul comando dell’organizzazione del lavoro, potrebbe ricomporre, infatti, la classe lavoratrice e, perfino, riuscire ad interrompere a monte i meccanismi di esternalizzazione e la formazione fuori controllo delle filiere produttive precarizzate.
Insomma, il Capitalismo va aggredito, oggi più che mai, fin dentro la sua radice malata. Il suo Modello Produttivo va completamente sovvertito. Bisogna mettere dunque fine, innanzitutto, alla schiavitù del lavoro salariato, a ritmi di produzione sempre più “flessibili” ed alla diseguale divisione del lavoro. Non è più possibile, inoltre, affidarsi ad una crescita sconsiderata e illimitata. Al Pil e ad altri parametri neoliberisti.
Lo sviluppo incessante delle forze produttive è in stallo, perché oggi, come non mai, bloccato in rapporti di produzione paralizzanti e fluidi ad un tempo, in quanto volatili, mobili e delocalizzabili, come la merce e lo stesso capitale.
Scrive Gianfranco Pala, in “Lo Zibaldone del tempo di lavoro”, che gli strumenti della controffensiva padronale degli ultimi due decenni sono il cottimo (nella forma di salario di partecipazione et similia), l’ esternalizzazione e la dislocazione progressiva di fasi della lavorazione, attraverso gli anelli della catena collegati tramite i subfornitori in appalto, e il lavoro autonomo “etero diretto”, fino al lavoro a domicilio.
In questo modo l’erogazione della forza-lavoro viene sganciata dal tempo e legata alla quantità di merce prodotta. Così viene tolto addirittura l’oggetto del contendere e il tema intorno al quale discutere: il “tempo” stesso.
Tutto ciò ha provocato, come logica conseguenza, una polverizzazione dei vecchi assetti di classe con una frattura evidente all’interno degli stessi ceti subalterni, e una composizione sociale completamente sovvertita rispetto al passato, anche nelle relazioni. Per questo motivo, c’è bisogno di una totale inversione di tendenza. Anche organizzativa e nella forma di Governo.
La produzione dovrebbe rispondere, ad esempio, ad esigenze territoriali, culturali e antropologiche. Esigenze che rispondano ad effettive necessità, non a meri criteri produttivistici. Questo presupporrebbe, pertanto, anche un’autogestione degli stessi paradigmi produttivi, dei tempi di produzione e una riconsiderazione delle forme di organizzazione sociale, secondo le logiche, quanto più possibile, dell’autogoverno popolare.
Ci sono esperienze, in tal senso, che andrebbero studiate e valutate attentamente. Come, ad esempio, l’esperienza delle fabbriche recuperate in Argentina (e non solo) nella crisi del 2001. Aldo Marchetti, in Fabbriche aperte, elenca alcuni punti essenziali:
1) una risposta creativa all’assenza di proprietà e del sapere manageriale, amministrativo e tecnico;
2) collaborazione e non concorrenza tra imprese;
3) democrazia di base nella conduzione aziendale e nella redistribuzione equa dei guadagni;
4) destrutturazione dell’organizzazione scientifica del lavoro e demistificazione dell’impresa come organizzazione dominata dagli ordini;
5) minimizzazione dell’accumulazione del plusvalore: è il lavoro che impiega il capitale e non il contrario;
6) aperture delle imprese al territorio: ospitalità a centri culturali, ambulatori comunitari, luoghi di formazione;
7) solidarismo e reciproco aiuto tra imprese e tra imprese, territorio e movimenti.
In sintesi, dice Marchetti, i numerosi aspetti critici e le difficoltà delle diverse esperienze di autogestione non smentiscono la loro importanza nella storia del movimento operaio.
La classe lavoratrice internazionale deve dunque rompere l’ingranaggio che ne determina l’essenza di anello fondamentale nella valorizzazione del Capitale, diventando soggetto rivoluzionario, quanto più possibile autogovernato.
I concetti di fabbrica e di azienda sono, qui ed ora, il terreno di scontro a livello globale. Uno scontro che dev’essere principalmente culturale. Dall’Azienda-Mondo, dal Sistema-Mondo bisogna necessariamente collocarsi fuori, come sostengono Hosea Jaffe, Samir Amin, Immanuel Wallerstein. Pena, l’eterna iniquità dello sfruttamento di classe. Per questo, è necessario gettare, al più presto, un cacciavite nel sistema. Per incepparne gli ingranaggi. Un gesto rivoluzionario, la cui essenza sovversiva risiede nella riappropriazione dell’umano Tempo vitale!
Fonte
Tanto che qualcuno si è spinto a commentare sardonicamente, sui social, “abbiamo conquistato la conferenza episcopale”, a sottintendere come quello slogan, risalente agli anni ’70, in auge nell’allora sinistra rivoluzionaria e in ampi strati della sinistra sindacale, venga ora rilanciato dal giornale della conferenza episcopale, ma abbia perso attrattiva all’interno di ambienti ed organizzazioni “di sinistra”; persino sedicenti comuniste.
Vale la pena ricordare, dunque, che in Italia, l’ultima volta che il tema della riduzione dell’orario di lavoro è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico, risale alla fine degli anni ’90, quando l’allora segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, duellò, su questa materia, con l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi. Senza risultati, naturalmente.
Da quel momento, “la sinistra” di casa nostra, sempre più liberal e compatibile con le logiche del Capitale, e sempre meno radicale, si è piegata ai voleri padronali; mentre i lavoratori, conseguentemente, non solo hanno continuato a sostenere gli stessi tempi massacranti ma hanno, a poco a poco, perso anche quei diritti conquistati durante anni di lotte dure: dall’art.18 alla tempistica per le pause, dalle rivendicazioni salariali fino al diritto di sciopero e manifestazione, messi a rischio dai decreti sicurezza di Salvini e Minniti.
Tutto ciò, sembra quasi superfluo ribadirlo, grazie soprattutto ai sindacati confederali – compresa la Cgil – che, in linea con il principio della “concertazione”, dagli anni ’90 in poi, hanno barattato l’abbandono del conflitto anti-padronale per i diritti dei lavoratori, con rendite di posizione all’interno delle aziende, o con il carrierismo politico di tanti quadri dirigenti.
È noto, ad esempio, l’accordo del Luglio 1992, che la Cgil, nella persona dell’allora suo Segretario Generale, Bruno Trentin, firmò col Governo per il superamento della scala mobile e per il blocco della contrattazione aziendale. Con Trentin che, in quell’occasione, si dimetteva subito dopo la firma.
Da pochissimi mesi, non per caso, il governo Andreotti – a Camere sciolte – aveva firmato gli accordi di Maastricht e le politiche di austerità per sempre, a partire dalla deflazione salariale. La contrattazione sindacale doveva adeguarsi al nuovo quadro, e lo fece con quell’accordo.
Dunque, all’interno del movimento comunista, almeno in Italia, solo alcune organizzazioni di classe hanno continuato ad insistere sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Triste segno dei tempi, in cui il conflitto sociale – che pure rappresentava, fino a qualche decennio fa, il sale della democrazia borghese – sembra essere diventato una bestemmia lanciata contro le nuove divinità contemporanee: Mercato, Aziende, Multinazionali, Banche e Unione Europea.
Eppure, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario rappresenta una battaglia che, rammentiamolo, fu bandiera del movimento comunista fin dalle sue origini. Soprattutto in Europa.
Nel 1848 le Trade Unions ottennero per la prima volta in Inghilterra le 10 ore di lavoro come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai ne lavoravano anche 14-15 al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei, il movimento dei lavoratori ottenne le famose 8 ore come “normalità” contrattuale.
Bisognerà aspettare, invece, la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprenda quota. Con scarsi risultati, purtroppo. E a causa proprio di Pci e Cgil che, nella seconda metà di quegli anni, sperando nella follia del “compromesso storico”, arrivarono a sostenere addirittura il rigore della “politica dei sacrifici”, varata dalle élite politico-economiche per contrastare gli effetti della crisi petrolifera.
Solo in Francia, nel 1998, durante il governo Jospin, fu approvata una Legge per la riduzione del lavoro settimanale, da 40 a 35 ore. Normativa che suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto alle 40 ore settimanali.
Anche in Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la “settimana breve”, in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto, però, eccezione separata dal resto dell’apparato produttivo.
In breve, per quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto anche Keynes, hanno ridotto drasticamente la fatica umana impiegata per unità di prodotto.
In realtà però, nel nostro Paese e negli ultimi tempi, non è la prima volta che settori della borghesia rilanciano questa parola d’ordine, cara ai movimenti comunisti e marxisti. Un anno fa, fu il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, a proporre la riduzione dell’orario di lavoro. Ora, la mozione trova spazio sul quotidiano della Cei e addirittura la rilancia la Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo.
Quando però “Lavorare tutti lavorare meno a parità di salario” diventa uno slogan sbandierato dal giornale della Conferenza Episcopale Italiana e dal Ministro del Lavoro di un governo non certo orientato “al socialismo” ma neanche alla bassa socialdemocrazia, bisogna drizzare orecchie e antenne, perché la fregatura è dietro l’angolo. In questo caso, per esempio, si chiama contrattazione di secondo livello.
Fanno sapere infatti fonti ministeriali: «poiché si dovrà aprire la partita dei rinnovi contrattuali per oltre dieci milioni di lavoratori, il tema della riduzione dell’orario insieme a quello della rimodulazione dell’organizzazione del lavoro potranno essere affrontati in quella sede, in modo più strutturato. Ovviamente, la loro concreta attuazione – precisano – dovrà essere demandata alla contrattazione di secondo livello».
Ma cos’è la contrattazione di secondo livello? È una contrattazione siglata tra singolo datore di lavoro e organizzazioni sindacali, a livello aziendale, che permette di derogare ai CCNL. Consente, tra le altre cose, di gestire più flessibilmente gli orari di lavoro, derogare al limite legale sui contratti a tempo determinato, ampliare la stagionalità, detassare i premi di produzione. Era in realtà nata per “derogare in meglio” rispetto ai contratti nazionali, ma si sa come va con le “deroghe”...
La contrattazione di secondo livello, inoltre, è alla base del welfare aziendale che permette ulteriori risparmi fiscali e previdenziali per le aziende. In pratica, questa tipologia di contratti, definiti appunto contratti aziendali, permette di modificare, a tutto vantaggio delle aziende, con la collaborazione dei sindacati confederali complici, alcuni istituti economici e normativi disciplinati dai Contratti Collettivi Nazionali, quali: Retribuzione, Inquadramento, Tempo determinato, Orario di lavoro, Welfare Integrativo, Formazione Professionale, Ambiente di Lavoro, Salute e Sicurezza, Organizzazione del lavoro, Pari Opportunità, Bilateralità.
Si capisce, allora, come la stipula di questi accordi, sotto la guida del Consulente del Lavoro, permetta all’azienda di potersi “cucire addosso” il proprio contratto secondo le proprie peculiarità. Una contrattazione che assume persino, in taluni casi, carattere territoriale.
In parole povere, la contrattazione di secondo livello potrebbe sancire – in linea con quanto richiesto oggi da Bonomi e Confindustria – la fine del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, approfittando del Coronavirus. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria nominato ma non ancora insediato, ha infatti chiesto, nei giorni scorsi, che: «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero di giorni di lavoro settimanale e di settimane lavorative in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali». Sollecitando, di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.
La Confindustria, dunque, ha alzato subito toni e barricate contro l’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. E si è messa di traverso anche rispetto ad un maggiore ruolo dello Stato nell’economia.
Bonomi, in una intervista rilasciata il 4 maggio al Corriere della Sera, ha affermato che: «Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti, rilanci con più risorse il piano Industria 4.0. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti». Ma non fa per niente schifo l’intervento dello Stato a sostegno delle imprese.
La verità è che, in seguito al disastro economico e alla drammatica flessione del Pil, provocati dalla pandemia, sarà inevitabile un intervento dello Stato in economia, un po’ in tutti i settori produttivi, devastati da delocalizzazioni, “spezzatini” e svendite. Soprattutto considerando che le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno smantellato quel Welfare il quale, specialmente a livello sanitario, oggi sarebbe tornato utile, almeno in termini di vite da salvare.
E considerando, ancora, che lo stesso Stato avrebbe il compito, quasi imprescindibile, di incentivare la domanda aggregata facendo, all’occorrenza, spesa in deficit. Cosa però complicatissima, non solo a causa della strenua opposizione confindustriale ma, soprattutto, qualora l’Italia dovesse aprire nuove linee di debito attraverso il Mes. Quel cosiddetto Fondo Salva Stati che, malgrado quanto si affermi circa l’assenza di condizionalità, sottoporrà l’Italia ad un futuro regime di controllo strettissimo da parte dell’Unione Europea e della Bce.
Insomma, la tagliola giuridica del Fiscal Compact in Costituzione è sempre lì; ma si aggiunge l’ombra fatale della Trojka sul piano operativo.
Appare dunque evidente, stando così le cose, che i padroni si preparino a “concertare”, dopo la pandemia da Covid, senza troppi rischi per i propri interessi, una nuova fase di quella che lorsignori considerano, a tutti gli effetti, un’ingerenza pubblica in affari privati. Un new New Deal, da intendersi come una sorta di keynesismo post bellico, dove l’intervento dello Stato nell’economia, seppur indispensabile, sia a forte trazione aziendalista e neoliberale.
In pratica, un ordoliberismo mitigato e leggermente più spinto sul versante di quella protezione sociale che è da considerarsi improcrastinabile, almeno se si vogliono evitare, nell’immediato, insurrezioni popolari, vista la situazione – alquanto funesta per le tasche di ceti medi e subalterni – che si prospetta quando si andranno a fare i conti effettivi del lockdown e delle sue conseguenze sull’economia reale.
Insomma, è fuori discussione che lo Stato, per far ripartire l’azienda Italia dovrà intervenire. Il problema è come lo farà.
I comunisti e la riduzione dell’orario di lavoro
Una domanda, a questo punto, s’impone però con tutta la sua drastica impellenza. Come rispondono a tutto ciò i comunisti? Quali sono le prospettive di lotta e le strategie che la sinistra, quella che ancora si percepisce radicale, malgrado le tante deviazioni di percorso, e quella sinceramente rivoluzionaria, mettono in campo?
Riteniamo che, facendo tesoro delle esperienze passate, e anche guardando alle disastrose condizioni in cui versa l’ecosistema planetario, il movimento comunista debba necessariamente tornare a mettere al centro del suo programma il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
La riduzione dell’orario, in funzione di controllo sul comando dell’organizzazione del lavoro, potrebbe ricomporre, infatti, la classe lavoratrice e, perfino, riuscire ad interrompere a monte i meccanismi di esternalizzazione e la formazione fuori controllo delle filiere produttive precarizzate.
Insomma, il Capitalismo va aggredito, oggi più che mai, fin dentro la sua radice malata. Il suo Modello Produttivo va completamente sovvertito. Bisogna mettere dunque fine, innanzitutto, alla schiavitù del lavoro salariato, a ritmi di produzione sempre più “flessibili” ed alla diseguale divisione del lavoro. Non è più possibile, inoltre, affidarsi ad una crescita sconsiderata e illimitata. Al Pil e ad altri parametri neoliberisti.
Lo sviluppo incessante delle forze produttive è in stallo, perché oggi, come non mai, bloccato in rapporti di produzione paralizzanti e fluidi ad un tempo, in quanto volatili, mobili e delocalizzabili, come la merce e lo stesso capitale.
Scrive Gianfranco Pala, in “Lo Zibaldone del tempo di lavoro”, che gli strumenti della controffensiva padronale degli ultimi due decenni sono il cottimo (nella forma di salario di partecipazione et similia), l’ esternalizzazione e la dislocazione progressiva di fasi della lavorazione, attraverso gli anelli della catena collegati tramite i subfornitori in appalto, e il lavoro autonomo “etero diretto”, fino al lavoro a domicilio.
In questo modo l’erogazione della forza-lavoro viene sganciata dal tempo e legata alla quantità di merce prodotta. Così viene tolto addirittura l’oggetto del contendere e il tema intorno al quale discutere: il “tempo” stesso.
Tutto ciò ha provocato, come logica conseguenza, una polverizzazione dei vecchi assetti di classe con una frattura evidente all’interno degli stessi ceti subalterni, e una composizione sociale completamente sovvertita rispetto al passato, anche nelle relazioni. Per questo motivo, c’è bisogno di una totale inversione di tendenza. Anche organizzativa e nella forma di Governo.
La produzione dovrebbe rispondere, ad esempio, ad esigenze territoriali, culturali e antropologiche. Esigenze che rispondano ad effettive necessità, non a meri criteri produttivistici. Questo presupporrebbe, pertanto, anche un’autogestione degli stessi paradigmi produttivi, dei tempi di produzione e una riconsiderazione delle forme di organizzazione sociale, secondo le logiche, quanto più possibile, dell’autogoverno popolare.
Ci sono esperienze, in tal senso, che andrebbero studiate e valutate attentamente. Come, ad esempio, l’esperienza delle fabbriche recuperate in Argentina (e non solo) nella crisi del 2001. Aldo Marchetti, in Fabbriche aperte, elenca alcuni punti essenziali:
1) una risposta creativa all’assenza di proprietà e del sapere manageriale, amministrativo e tecnico;
2) collaborazione e non concorrenza tra imprese;
3) democrazia di base nella conduzione aziendale e nella redistribuzione equa dei guadagni;
4) destrutturazione dell’organizzazione scientifica del lavoro e demistificazione dell’impresa come organizzazione dominata dagli ordini;
5) minimizzazione dell’accumulazione del plusvalore: è il lavoro che impiega il capitale e non il contrario;
6) aperture delle imprese al territorio: ospitalità a centri culturali, ambulatori comunitari, luoghi di formazione;
7) solidarismo e reciproco aiuto tra imprese e tra imprese, territorio e movimenti.
In sintesi, dice Marchetti, i numerosi aspetti critici e le difficoltà delle diverse esperienze di autogestione non smentiscono la loro importanza nella storia del movimento operaio.
La classe lavoratrice internazionale deve dunque rompere l’ingranaggio che ne determina l’essenza di anello fondamentale nella valorizzazione del Capitale, diventando soggetto rivoluzionario, quanto più possibile autogovernato.
I concetti di fabbrica e di azienda sono, qui ed ora, il terreno di scontro a livello globale. Uno scontro che dev’essere principalmente culturale. Dall’Azienda-Mondo, dal Sistema-Mondo bisogna necessariamente collocarsi fuori, come sostengono Hosea Jaffe, Samir Amin, Immanuel Wallerstein. Pena, l’eterna iniquità dello sfruttamento di classe. Per questo, è necessario gettare, al più presto, un cacciavite nel sistema. Per incepparne gli ingranaggi. Un gesto rivoluzionario, la cui essenza sovversiva risiede nella riappropriazione dell’umano Tempo vitale!
Fonte
16/07/2018
Contratto nazionale metalmeccanici: aumenti ridicoli e solo virtuali
Molte grandi aziende, anche con elevati volumi produttivi e grandi profitti, in questi giorni hanno assorbito gli incrementi ridicoli contrattati da Fim-Fiom-Uilm e Ugl con Federmeccanica.
Ciò è reso possibile dallo scandaloso contratto nazionale sottoscritto sempre da Fim-Fiom-Uilm che per la prima volta nella storia dei metalmeccanici concede alle aziende la possibilità di assorbire gli aumenti del contratto nazionale nei superminimi individuali.
Le enormi risorse tolte al CCNL e quindi alla disponibilità di tutti verranno utilizzate dalle aziende per premiare e punire secondo criteri insindacabili e discriminatori.
Le organizzazioni sindacali dei metalmeccanici di CGIL CISL UIL hanno regalato alle aziende il blocco salariale, concedendo loro una libertà assoluta sui salari e sui rapporti in azienda.
Bloccano i salari ma crescono i fondi per gli enti bilaterali e le trattenute sindacali.
Per ironia della sorte, l’incremento dei minimi tabellari avrà come riflesso l’aumento della trattenuta sindacale per gli iscritti di questi sindacati che non portano un centesimo ai lavoratori, mentre trovano conferma i fondi destinati agli enti bilaterali condivisi tra Federmeccanica, Fim, Fiom, Uilm e Ugl.
A due anni di distanza il salario in natura (Welfare) e la previdenza integrativa si sono dimostrati un affare solo per le aziende e per le piattaforme e-commerce. I lavoratori vogliono salari reali, che pesino su contributi e TFR ed un sistema sanitario e previdenziale pubblico che funzioni.
USB non ha sottoscritto questo vergognoso contratto nazionale dei metalmeccanici ed è impegnata in tutte le aziende in cui è presente per contrastare l’applicazione delle parti più negative a partire da:
- fine del riassorbimento degli aumenti;
- aumenti salariali reali e in busta paga;
- l’eliminazione del Jobs Act.
TORNARE A LOTTARE PER UN FUTURO DI DIGNITÀ
Il CCNL scadrà nel 2019, dobbiamo costruire sin da ora le condizioni per un rinnovo che riconquisti aumenti di salario reali e diritti contro la precarietà e lo sfruttamento.
Fonte
Ciò è reso possibile dallo scandaloso contratto nazionale sottoscritto sempre da Fim-Fiom-Uilm che per la prima volta nella storia dei metalmeccanici concede alle aziende la possibilità di assorbire gli aumenti del contratto nazionale nei superminimi individuali.
Le enormi risorse tolte al CCNL e quindi alla disponibilità di tutti verranno utilizzate dalle aziende per premiare e punire secondo criteri insindacabili e discriminatori.
Le organizzazioni sindacali dei metalmeccanici di CGIL CISL UIL hanno regalato alle aziende il blocco salariale, concedendo loro una libertà assoluta sui salari e sui rapporti in azienda.
Bloccano i salari ma crescono i fondi per gli enti bilaterali e le trattenute sindacali.
Per ironia della sorte, l’incremento dei minimi tabellari avrà come riflesso l’aumento della trattenuta sindacale per gli iscritti di questi sindacati che non portano un centesimo ai lavoratori, mentre trovano conferma i fondi destinati agli enti bilaterali condivisi tra Federmeccanica, Fim, Fiom, Uilm e Ugl.
A due anni di distanza il salario in natura (Welfare) e la previdenza integrativa si sono dimostrati un affare solo per le aziende e per le piattaforme e-commerce. I lavoratori vogliono salari reali, che pesino su contributi e TFR ed un sistema sanitario e previdenziale pubblico che funzioni.
USB non ha sottoscritto questo vergognoso contratto nazionale dei metalmeccanici ed è impegnata in tutte le aziende in cui è presente per contrastare l’applicazione delle parti più negative a partire da:
- fine del riassorbimento degli aumenti;
- aumenti salariali reali e in busta paga;
- l’eliminazione del Jobs Act.
TORNARE A LOTTARE PER UN FUTURO DI DIGNITÀ
Il CCNL scadrà nel 2019, dobbiamo costruire sin da ora le condizioni per un rinnovo che riconquisti aumenti di salario reali e diritti contro la precarietà e lo sfruttamento.
Fonte
10/04/2018
Le riforme del FMI sono l’ennesimo attacco al lavoro
Mentre continuano le consultazioni per la formazione del nuovo Governo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) fa sentire la sua voce con una serie di studi che disegnano l’Italia di domani. Per chi non lo sapesse, il FMI è uno degli attori che di fatto determinano gli indirizzi di governo delle economie mondiali. Recentemente è tornato a raccomandare per l’Italia dosi abbondanti di austerità, abbinate a provvedimenti fiscali iniqui e vergognosamente a favore delle classi dominanti. Purtroppo non finisce qui.
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.). La logica di questo approccio, previsto dalla nostra Costituzione, è piuttosto chiara e cerca di assicurare un livello minimo di tutela (e di equità nella retribuzione) a tutti i lavoratori. Inoltre, poiché la contrattazione non avviene isolatamente in ogni singola azienda, ma ad un livello più alto, tra organizzazioni collettive, si riduce l’ovvio margine di intimidazione di cui il datore di lavoro si potrebbe avvalere qualora dovesse contrattare direttamente con un suo dipendente, il quale sarebbe facilmente ricattabile e quindi poco incline a portare avanti rilevanti rivendicazioni salariali.
Tuttavia, questa situazione non piace agli insigni economisti del Fondo Monetario Internazionale, i quali si affrettano a raccomandare uno spostamento della contrattazione dall’attuale livello nazionale al livello di singola impresa. Questa misura viene ovviamente venduta enfatizzandone i presunti aspetti positivi: diventerebbe più facile adattare il contratto, le remunerazioni e le regolamentazioni alle esigenze specifiche (teniamo a mente questa parola, che racchiude in sé l’inganno) della singola impresa, evitando inefficienze e cattivi accoppiamenti tra salari e produttività dei lavoratori nell’impresa in questione (leggasi: essere costretti da leggi “inique” a dover pagare salari generosi anche a lavoratori considerati scarsamente produttivi), disparità regionali e compagnia cantante.
La verità, come spesso accade, rischia però di essere molto più prosaica. Più che le esigenze specifiche di ogni impresa, ciò che sta davvero a cuore a chi propone questo tipo di provvedimenti è un’esigenza generale e comune ad ogni datore di lavoro: approfittare dell’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori per cercare di pagare salari più bassi, ai quali corrispondono maggiori profitti. L’inganno è in realtà presto svelato. A pagina 18 del terzo studio del FMI (‘Competitività e riforma del sistema di contrattazione salariale in Italia’) si dice chiaramente che il vero problema è che le imprese sono scontente con l’attuale meccanismo di contrattazione; in particolare, le aziende con una dimensione internazionale esprimono “il bisogno di tenere i salari bassi” (testualmente, “the need to keep wages down”). Ciò non fa che confermare che la strategia adottata dalle nostre classi dominanti per uscire dalla crisi si poggia sui sacrifici della stragrande maggioranza dei lavoratori, per permettere ad una ristrettissima cerchia di capitalisti che operano nei settori maggiormente orientati all’export di prosperare.
Il dato politico di questo tipo di misure, volte a comprimere la quota salari, è piuttosto chiaro nella sua natura di classe e nella sua iniquità. Vale comunque la pena soffermarsi brevemente anche sulle contraddizioni economiche che tali misure sollevano. A tale scopo, partiamo definendo due grandezze utili alla discussione, ovvero il tasso di cambio nominale e il tasso di cambio reale. Il tasso di cambio nominale esprime il prezzo relativo della valuta nazionale in termini di una valuta estera. Se il tasso di cambio nominale tra euro e dollaro è 1,22, questo significa che per comprare un euro sono necessari 1,22 dollari. Il tasso di cambio reale di un Paese nei confronti di un altro Paese è, invece, il prezzo relativo dei beni e servizi prodotti all’interno dell’economia di un Paese in termini di beni e servizi prodotti nel Paese con il quale si effettua il confronto. Ad esempio, il tasso di cambio reale tra euro e dollaro è uguale al prodotto del tasso di cambio nominale (quanti dollari sono necessari per ottenere un euro) per l’indice dei prezzi del Paese dell’area euro che ci interessa, diviso per l’indice dei prezzi statunitensi. È importante infatti notare che i Paesi dell’area Euro hanno tutti lo stesso tasso di cambio nominale con gli Stati Uniti. Tuttavia il tasso di cambio reale è diverso, perché sono diverse le condizioni produttive di ciascun Paese e quindi è diverso l’indice dei prezzi interno. Semplificando in maniera estrema, si può affermare che il tasso di cambio reale di un Paese è un indice della competitività e dell’attrattività delle esportazioni di un Paese. Più basso è il tasso di cambio reale di un Paese, più le sue esportazioni saranno convenienti per i compratori esteri.
Facciamo l’esempio di un bene qualsiasi, una tazzina di caffè. Immaginiamo che il prezzo di un caffè in Italia sia pari a 1 euro. Un consumatore americano, per acquistare una tazzina italiana di caffè, dovrà procurarsi 1 euro. Per farlo, dovrà dunque spendere 1,22 dollari. Immaginiamo, inoltre, che la stessa tazzina di caffè, prodotta però negli Stati Uniti, costi 1,10 dollari. Nell’eroica ipotesi che le due tazzine di caffè siano identiche, il consumatore americano troverà più conveniente acquistare il caffè negli Stati Uniti. Immaginiamo, ora, che l’euro si deprezzi nei confronti del dollaro e che il tasso di cambio nominale passi da 1,22 dollari a 1,08 dollari per euro. Il consumatore americano troverà ora più conveniente acquistare il caffè italiano, in quanto, per procurarsi l’euro necessario ad acquistarlo, dovrà spendere soltanto 1,08 dollari. Dovrà spendere meno, cioè, di 1,10 dollari, il prezzo di un caffè negli Stati Uniti.
Negli studi citati dal FMI si nota come il tasso di cambio reale italiano sia sopravvalutato del 10% rispetto ai suoi partner commerciali. Questo significa che le nostre merci sono svantaggiate sui mercati internazionali, e che le condizioni generali della nostra economia richiederebbero prezzi più bassi: in altri termini, sarebbe necessario un minore tasso di cambio reale. Per ridurre il tasso di cambio reale, la strada più facile e più logica da seguire sarebbe svalutare la moneta, cioè ridurre il tasso di cambio nominale. Questa strada però non è più possibile da quando l’Italia ha adottato l’Euro, con la conseguenza che adesso la pressione competitiva dei mercati internazionali finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. E questo succede non per una qualche necessità immanente o per qualche legge di natura, ma semplicemente perché l’Italia ha assunto una decisione politica ed istituzionale – l’adozione della moneta unica – che strutturalmente ne danneggia gli interessi.
Riprendendo il filo del discorso, i salari sono una delle principali voci di costo di un’impresa. Il Fondo Monetario Internazionale, come dicevamo, raccomanda “moderazione” salariale allo scopo di contenere costi e di conseguenza prezzi della produzione italiana, per rendere le nostre esportazioni più appetibili sul mercato estero. Gli ultimi anni ci raccontano però una storia diversa: prendendo ad esempio i Paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), possiamo notare come ad una marcata moderazione salariale non sia seguito un altrettanto rilevante contenimento del livello generale dei prezzi. Qualche dato: in Italia dal 2009 al 2015 i salari nominali hanno fatto registrare una crescita del 6,44%, mentre l’indice dei prezzi al consumo, che misura i prezzi delle merci acquistate dai lavoratori, è aumentato del 9,14%; nello stesso periodo, in Grecia i salari nominali sono diminuiti del 22,33%, mentre i prezzi sono aumentati del 5,51% (nostre elaborazioni su dati OCSE). Detto in altre parole, i sacrifici imposti ai lavoratori, oltre a essere stati politicamente odiosi, non hanno neanche contribuito particolarmente a migliorare la competitività di prezzo delle esportazioni dei Paesi europei più colpiti dalla crisi.
Un altro paradosso emerge dall’analisi degli economisti del FMI. Questi ultimi infatti denunciano come le esportazioni italiane si stiano progressivamente allontanando dalla frontiera tecnologica, concentrandosi invece in segmenti produttivi caratterizzati da scarsa innovazione e bassa produttività, con processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Ciononostante, invece di notare la totale assenza di politica industriale da parte delle autorità pubbliche, raccomandano compressione salariale ed ulteriori riforme del mercato del lavoro, dove con questa espressione intendono un aumento strutturale della precarietà dei rapporti di lavoro e regole più semplici per poter licenziare liberamente. Le due cose sono però chiaramente in contraddizione, poiché rapporti di lavoro iper-flessibili e con paghe misere non forniscono all’ingordo capitalista alcun incentivo a ricercare ed investire in avanzamenti tecnologici, quando possono tranquillamente sopravvivere e restare a galla impiegando manodopera precaria, disciplinata ed a buon mercato.
È verosimile che nelle prossime settimane, se le trattative per formare un nuovo Governo non daranno un esito rapido, torneremo a sentire parlare nei telegiornali dei “mercati” che ci chiedono stabilità, responsabilità e rispettabilità, e che ci pregano, per il nostro bene, di “fare presto”. Quando quel giorno arriverà, sarà opportuno tenere a mente che la posta in gioco sarà quella che abbiamo appena descritto. Quando avremo la tentazione di farci spaventare dalla minaccia dello spread, sarà bene avere presente che il rimedio che ci verrà proposto è la solita e già vista polpetta avvelenata: più austerità, più precarietà, salari più bassi, un peggioramento per quasi tutti a vantaggio dei pochissimi. Se sentiremo di una coalizione di responsabili che si propone di salvare il Paese, vorrà dire che saremo un passo più vicini all’applicazione di una qualche variante del programma che il Fondo Monetario Internazionale ha in mente per "salvare" l’Italia.
Fonte
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.). La logica di questo approccio, previsto dalla nostra Costituzione, è piuttosto chiara e cerca di assicurare un livello minimo di tutela (e di equità nella retribuzione) a tutti i lavoratori. Inoltre, poiché la contrattazione non avviene isolatamente in ogni singola azienda, ma ad un livello più alto, tra organizzazioni collettive, si riduce l’ovvio margine di intimidazione di cui il datore di lavoro si potrebbe avvalere qualora dovesse contrattare direttamente con un suo dipendente, il quale sarebbe facilmente ricattabile e quindi poco incline a portare avanti rilevanti rivendicazioni salariali.
Tuttavia, questa situazione non piace agli insigni economisti del Fondo Monetario Internazionale, i quali si affrettano a raccomandare uno spostamento della contrattazione dall’attuale livello nazionale al livello di singola impresa. Questa misura viene ovviamente venduta enfatizzandone i presunti aspetti positivi: diventerebbe più facile adattare il contratto, le remunerazioni e le regolamentazioni alle esigenze specifiche (teniamo a mente questa parola, che racchiude in sé l’inganno) della singola impresa, evitando inefficienze e cattivi accoppiamenti tra salari e produttività dei lavoratori nell’impresa in questione (leggasi: essere costretti da leggi “inique” a dover pagare salari generosi anche a lavoratori considerati scarsamente produttivi), disparità regionali e compagnia cantante.
La verità, come spesso accade, rischia però di essere molto più prosaica. Più che le esigenze specifiche di ogni impresa, ciò che sta davvero a cuore a chi propone questo tipo di provvedimenti è un’esigenza generale e comune ad ogni datore di lavoro: approfittare dell’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori per cercare di pagare salari più bassi, ai quali corrispondono maggiori profitti. L’inganno è in realtà presto svelato. A pagina 18 del terzo studio del FMI (‘Competitività e riforma del sistema di contrattazione salariale in Italia’) si dice chiaramente che il vero problema è che le imprese sono scontente con l’attuale meccanismo di contrattazione; in particolare, le aziende con una dimensione internazionale esprimono “il bisogno di tenere i salari bassi” (testualmente, “the need to keep wages down”). Ciò non fa che confermare che la strategia adottata dalle nostre classi dominanti per uscire dalla crisi si poggia sui sacrifici della stragrande maggioranza dei lavoratori, per permettere ad una ristrettissima cerchia di capitalisti che operano nei settori maggiormente orientati all’export di prosperare.
Il dato politico di questo tipo di misure, volte a comprimere la quota salari, è piuttosto chiaro nella sua natura di classe e nella sua iniquità. Vale comunque la pena soffermarsi brevemente anche sulle contraddizioni economiche che tali misure sollevano. A tale scopo, partiamo definendo due grandezze utili alla discussione, ovvero il tasso di cambio nominale e il tasso di cambio reale. Il tasso di cambio nominale esprime il prezzo relativo della valuta nazionale in termini di una valuta estera. Se il tasso di cambio nominale tra euro e dollaro è 1,22, questo significa che per comprare un euro sono necessari 1,22 dollari. Il tasso di cambio reale di un Paese nei confronti di un altro Paese è, invece, il prezzo relativo dei beni e servizi prodotti all’interno dell’economia di un Paese in termini di beni e servizi prodotti nel Paese con il quale si effettua il confronto. Ad esempio, il tasso di cambio reale tra euro e dollaro è uguale al prodotto del tasso di cambio nominale (quanti dollari sono necessari per ottenere un euro) per l’indice dei prezzi del Paese dell’area euro che ci interessa, diviso per l’indice dei prezzi statunitensi. È importante infatti notare che i Paesi dell’area Euro hanno tutti lo stesso tasso di cambio nominale con gli Stati Uniti. Tuttavia il tasso di cambio reale è diverso, perché sono diverse le condizioni produttive di ciascun Paese e quindi è diverso l’indice dei prezzi interno. Semplificando in maniera estrema, si può affermare che il tasso di cambio reale di un Paese è un indice della competitività e dell’attrattività delle esportazioni di un Paese. Più basso è il tasso di cambio reale di un Paese, più le sue esportazioni saranno convenienti per i compratori esteri.
Facciamo l’esempio di un bene qualsiasi, una tazzina di caffè. Immaginiamo che il prezzo di un caffè in Italia sia pari a 1 euro. Un consumatore americano, per acquistare una tazzina italiana di caffè, dovrà procurarsi 1 euro. Per farlo, dovrà dunque spendere 1,22 dollari. Immaginiamo, inoltre, che la stessa tazzina di caffè, prodotta però negli Stati Uniti, costi 1,10 dollari. Nell’eroica ipotesi che le due tazzine di caffè siano identiche, il consumatore americano troverà più conveniente acquistare il caffè negli Stati Uniti. Immaginiamo, ora, che l’euro si deprezzi nei confronti del dollaro e che il tasso di cambio nominale passi da 1,22 dollari a 1,08 dollari per euro. Il consumatore americano troverà ora più conveniente acquistare il caffè italiano, in quanto, per procurarsi l’euro necessario ad acquistarlo, dovrà spendere soltanto 1,08 dollari. Dovrà spendere meno, cioè, di 1,10 dollari, il prezzo di un caffè negli Stati Uniti.
Negli studi citati dal FMI si nota come il tasso di cambio reale italiano sia sopravvalutato del 10% rispetto ai suoi partner commerciali. Questo significa che le nostre merci sono svantaggiate sui mercati internazionali, e che le condizioni generali della nostra economia richiederebbero prezzi più bassi: in altri termini, sarebbe necessario un minore tasso di cambio reale. Per ridurre il tasso di cambio reale, la strada più facile e più logica da seguire sarebbe svalutare la moneta, cioè ridurre il tasso di cambio nominale. Questa strada però non è più possibile da quando l’Italia ha adottato l’Euro, con la conseguenza che adesso la pressione competitiva dei mercati internazionali finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. E questo succede non per una qualche necessità immanente o per qualche legge di natura, ma semplicemente perché l’Italia ha assunto una decisione politica ed istituzionale – l’adozione della moneta unica – che strutturalmente ne danneggia gli interessi.
Riprendendo il filo del discorso, i salari sono una delle principali voci di costo di un’impresa. Il Fondo Monetario Internazionale, come dicevamo, raccomanda “moderazione” salariale allo scopo di contenere costi e di conseguenza prezzi della produzione italiana, per rendere le nostre esportazioni più appetibili sul mercato estero. Gli ultimi anni ci raccontano però una storia diversa: prendendo ad esempio i Paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), possiamo notare come ad una marcata moderazione salariale non sia seguito un altrettanto rilevante contenimento del livello generale dei prezzi. Qualche dato: in Italia dal 2009 al 2015 i salari nominali hanno fatto registrare una crescita del 6,44%, mentre l’indice dei prezzi al consumo, che misura i prezzi delle merci acquistate dai lavoratori, è aumentato del 9,14%; nello stesso periodo, in Grecia i salari nominali sono diminuiti del 22,33%, mentre i prezzi sono aumentati del 5,51% (nostre elaborazioni su dati OCSE). Detto in altre parole, i sacrifici imposti ai lavoratori, oltre a essere stati politicamente odiosi, non hanno neanche contribuito particolarmente a migliorare la competitività di prezzo delle esportazioni dei Paesi europei più colpiti dalla crisi.
Un altro paradosso emerge dall’analisi degli economisti del FMI. Questi ultimi infatti denunciano come le esportazioni italiane si stiano progressivamente allontanando dalla frontiera tecnologica, concentrandosi invece in segmenti produttivi caratterizzati da scarsa innovazione e bassa produttività, con processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Ciononostante, invece di notare la totale assenza di politica industriale da parte delle autorità pubbliche, raccomandano compressione salariale ed ulteriori riforme del mercato del lavoro, dove con questa espressione intendono un aumento strutturale della precarietà dei rapporti di lavoro e regole più semplici per poter licenziare liberamente. Le due cose sono però chiaramente in contraddizione, poiché rapporti di lavoro iper-flessibili e con paghe misere non forniscono all’ingordo capitalista alcun incentivo a ricercare ed investire in avanzamenti tecnologici, quando possono tranquillamente sopravvivere e restare a galla impiegando manodopera precaria, disciplinata ed a buon mercato.
È verosimile che nelle prossime settimane, se le trattative per formare un nuovo Governo non daranno un esito rapido, torneremo a sentire parlare nei telegiornali dei “mercati” che ci chiedono stabilità, responsabilità e rispettabilità, e che ci pregano, per il nostro bene, di “fare presto”. Quando quel giorno arriverà, sarà opportuno tenere a mente che la posta in gioco sarà quella che abbiamo appena descritto. Quando avremo la tentazione di farci spaventare dalla minaccia dello spread, sarà bene avere presente che il rimedio che ci verrà proposto è la solita e già vista polpetta avvelenata: più austerità, più precarietà, salari più bassi, un peggioramento per quasi tutti a vantaggio dei pochissimi. Se sentiremo di una coalizione di responsabili che si propone di salvare il Paese, vorrà dire che saremo un passo più vicini all’applicazione di una qualche variante del programma che il Fondo Monetario Internazionale ha in mente per "salvare" l’Italia.
Fonte
01/03/2018
Cgil Cisl Uil e Confindustria: un patto per salvarsi a spese dei lavoratori. Concordato il blocco salariale
Nel 2009 Cisl e Uil sottoscrissero un accordo sul modello contrattuale con Confidustria senza la firma della Cgil. Un accordo separato che sancì, per la prima volta nella storia del nostro paese, la derogabilità in peggio dei contratti nazionali e la cancellazione dell’autonomia rivendicativa del sindacato sul salario attraverso l’indicatore Ipca, inferiore al dato Istat, costruito a tavolino allo scopo di ridurre le retribuzioni. Lo sciopero di due categorie della Cgil, Fiom e funzione pubblica, impedì a Guglielmo Epifani, all’epoca segretario generale Cgil, di sottoscrivere un accordo che in realtà aveva condiviso nella trattativa. Dal 2009 in poi la Cgil anziché contrapporsi lo applicò in tutti i rinnovi del contratti nazionali, ad eccezione della Fiom che per queste ragioni subì due accordi separati. Con la firma di ieri la Cgil rientra anche formalmente nel nuovo modello, contribuendo così a renderlo ancora più corporativo e autoritario.
Lo scopo principale di Cgil Cisl Uil in una trattativa carbonara e slegata da qualsiasi rapporto con i lavoratori era essenzialmente difendere le proprie organizzazioni dalla loro crisi, incrociando così anche la Confindustria, non meno desiderosa di porre un argine alla continua emorragia di adesioni ed alla perdita di ruolo sul piano generale.
L’impianto del nuovo accordo, almeno per quanto riguarda il ruolo del contratto nazionale sul salario, è lo stesso del 2009. Si consolida così la cancellazione dell’autonomia del sindacato sul terreno salariale, destinando il contratto nazionale esclusivamente al mero recupero parziale del potere d’acquisto.
Tuttavia si introduce una distinzione sul salario. Nasce il Trattamento Economico Minimo (TEM, cioè i vecchi minimi tabellari e il Trattamento Economico Complessivo (TEC) che oltre ai vecchi minimi conterrà altri elementi della retribuzione e anche il welfare). In sostanza i CCNL definiranno il TEC di ogni singola categoria allo scopo di svuotare ulteriormente il senso della contrattazione. Il TEC potrebbe infatti contenere le indennità, le maggiorazioni di paga oraria ecc con l’effetto che ciò che potenzialmente restava libero da vincoli verrà assoggettato al mero recupero del dato Ipca. Anche il cosiddetto welfare introdotto nel TEC è destinato a snaturare ulteriormente il ruolo del contratto nazionale e della contrattazione in generale.
Lo stesso concetto di salario muta radicalmente con l’ingresso prepotente del welfare, cioè di risorse che ai lavoratori arriveranno solo come servizi direttamente dal contratto nazionale. Ovviamente in alternativa agli aumenti salariali, a tutto vantaggio delle imprese che beneficeranno della totale detassazione. Si conferma e si rafforza il divieto a rivendicare e contrattare salario strutturale ad ogni livello, demandando alla contrattazione aziendale la definizione di salario legato a obbiettivi, cioè variabile e a termine.
In altre parole il solo spazio di contrattazione consentito è quello del ricatto sulla prestazione in riferimento ai risultati d’impresa. Nello spirito del Testo Unico del 10 gennaio 2014 si parla di certificazione della rappresentatività, anche per le associazioni padronali. L’obbiettivo, peraltro esplicito, è quello di impedire che il fortino degli accordi Cgil Cisl Uil Confindustria sia messo in discussione da soggetti senza adeguata rappresentatività considerato il proliferare di contratti nazionali in continuo dumping su salari e normative.
Tuttavia dietro il nobile obbiettivo si cela la difesa del proprio ruolo e degli interessi d’impresa considerato che in linea teorica potrebbero esserci accordi migliorativi di quelli sottoscritti dai sindacati più rappresentativi. Il tema dell’esigibilità dei contratti e delle sanzioni, tenuto nel cassetto in questi anni, tornerà di forza sui tavoli sindacali. In questo senso il patto firmato mette insieme due esigenze corporative. Da una parte Cgil Cisl Uil, considerata la scelta di praticare il sindacalismo della miseria, agiscono per impedire la concorrenza del sindacalismo conflittuale nel rapporto con i lavoratori. Dall’altra parte le imprese pretendono che le buone condizioni che gli garantiscono Cgil Cisl Uil siano immodificabili e non possano essere cambiate con il conflitto. Un altro attacco violento al diritto di sciopero quindi che bisognerà vedere come verrà concretamente agito.
Così come si rafforza lo spirito derogatorio del CCNL in funzione dei cosiddetti bisogni d’impresa. L’accordo in sostanza consegna alle imprese mano libera su salari e condizioni di lavoro. Siamo davanti ad un vero e proprio blocco salariale senza nessuna contropartita, se non appunto per le organizzazioni firmatarie. Un patto neocorporativo quindi, svincolato da qualsivoglia riflessione sulla situazione materiale attuale del lavoro. Cgil Cisl Uil Confindustria esprimono un unico punto di vista: quello delle imprese, a cui tutto è concesso e consentito. E’ finita definitivamente la stagione delle piattaforme rivendicative costruite sui bisogni dei lavoratori. La contrattazione è svuotata di senso e valore, indifferente e contraria agli interessi dei lavoratori. Il rinnovo dei contratti nazionali diventa così un puro atto notarile, in cui il salario è predeterminato dall’Ipca. Tante ragioni in più per organizzarsi fuori dal sindacalismo complice, entro il cui perimetro per i lavoratori non c’è alcuna risposta.
Sergio Bellavita - USB
Fonte
Lo scopo principale di Cgil Cisl Uil in una trattativa carbonara e slegata da qualsiasi rapporto con i lavoratori era essenzialmente difendere le proprie organizzazioni dalla loro crisi, incrociando così anche la Confindustria, non meno desiderosa di porre un argine alla continua emorragia di adesioni ed alla perdita di ruolo sul piano generale.
L’impianto del nuovo accordo, almeno per quanto riguarda il ruolo del contratto nazionale sul salario, è lo stesso del 2009. Si consolida così la cancellazione dell’autonomia del sindacato sul terreno salariale, destinando il contratto nazionale esclusivamente al mero recupero parziale del potere d’acquisto.
Tuttavia si introduce una distinzione sul salario. Nasce il Trattamento Economico Minimo (TEM, cioè i vecchi minimi tabellari e il Trattamento Economico Complessivo (TEC) che oltre ai vecchi minimi conterrà altri elementi della retribuzione e anche il welfare). In sostanza i CCNL definiranno il TEC di ogni singola categoria allo scopo di svuotare ulteriormente il senso della contrattazione. Il TEC potrebbe infatti contenere le indennità, le maggiorazioni di paga oraria ecc con l’effetto che ciò che potenzialmente restava libero da vincoli verrà assoggettato al mero recupero del dato Ipca. Anche il cosiddetto welfare introdotto nel TEC è destinato a snaturare ulteriormente il ruolo del contratto nazionale e della contrattazione in generale.
Lo stesso concetto di salario muta radicalmente con l’ingresso prepotente del welfare, cioè di risorse che ai lavoratori arriveranno solo come servizi direttamente dal contratto nazionale. Ovviamente in alternativa agli aumenti salariali, a tutto vantaggio delle imprese che beneficeranno della totale detassazione. Si conferma e si rafforza il divieto a rivendicare e contrattare salario strutturale ad ogni livello, demandando alla contrattazione aziendale la definizione di salario legato a obbiettivi, cioè variabile e a termine.
In altre parole il solo spazio di contrattazione consentito è quello del ricatto sulla prestazione in riferimento ai risultati d’impresa. Nello spirito del Testo Unico del 10 gennaio 2014 si parla di certificazione della rappresentatività, anche per le associazioni padronali. L’obbiettivo, peraltro esplicito, è quello di impedire che il fortino degli accordi Cgil Cisl Uil Confindustria sia messo in discussione da soggetti senza adeguata rappresentatività considerato il proliferare di contratti nazionali in continuo dumping su salari e normative.
Tuttavia dietro il nobile obbiettivo si cela la difesa del proprio ruolo e degli interessi d’impresa considerato che in linea teorica potrebbero esserci accordi migliorativi di quelli sottoscritti dai sindacati più rappresentativi. Il tema dell’esigibilità dei contratti e delle sanzioni, tenuto nel cassetto in questi anni, tornerà di forza sui tavoli sindacali. In questo senso il patto firmato mette insieme due esigenze corporative. Da una parte Cgil Cisl Uil, considerata la scelta di praticare il sindacalismo della miseria, agiscono per impedire la concorrenza del sindacalismo conflittuale nel rapporto con i lavoratori. Dall’altra parte le imprese pretendono che le buone condizioni che gli garantiscono Cgil Cisl Uil siano immodificabili e non possano essere cambiate con il conflitto. Un altro attacco violento al diritto di sciopero quindi che bisognerà vedere come verrà concretamente agito.
Così come si rafforza lo spirito derogatorio del CCNL in funzione dei cosiddetti bisogni d’impresa. L’accordo in sostanza consegna alle imprese mano libera su salari e condizioni di lavoro. Siamo davanti ad un vero e proprio blocco salariale senza nessuna contropartita, se non appunto per le organizzazioni firmatarie. Un patto neocorporativo quindi, svincolato da qualsivoglia riflessione sulla situazione materiale attuale del lavoro. Cgil Cisl Uil Confindustria esprimono un unico punto di vista: quello delle imprese, a cui tutto è concesso e consentito. E’ finita definitivamente la stagione delle piattaforme rivendicative costruite sui bisogni dei lavoratori. La contrattazione è svuotata di senso e valore, indifferente e contraria agli interessi dei lavoratori. Il rinnovo dei contratti nazionali diventa così un puro atto notarile, in cui il salario è predeterminato dall’Ipca. Tante ragioni in più per organizzarsi fuori dal sindacalismo complice, entro il cui perimetro per i lavoratori non c’è alcuna risposta.
Sergio Bellavita - USB
Fonte
13/04/2017
Salari giù e “populismo” su. Ve ne accorgete solo ora?
Niente come la crisi costringe, in certi momenti, a mostrare la realtà dei fatti, persino al caduco giornalismo italico. O più semplicemente, nulla come gli interessi divergenti – tra “catene del valore” di sistemi diversi e difficilmente integrabili, a questo punto – obbliga persino gli opinionisti più ferocemente avvinghiati a un’idea di “Europa” poco corrispondente alle pratiche messe in atto dall’Unione Europea a spiegare come alcuni fenomeni “cattivi” siano da ricondurre ai comportamenti decisamente speculativi dei presunti “buoni”.
Davanti al montare dei “populismi di destra”, soprattutto nell’Est europeo, siamo stati sommersi per anni da analisi preconcette che, grosso modo, facevano risalire il tutto all’eredità del “socialismo reale”, oppure all'arretratezza culturale dei popoli slavi, o a fenomeni ancora più misteriosi per noi “fortunati” dell’Occidente. Nessun indizio di ordine economico o sociale, nessun dato sulla produzione e lo spostamento di ricchezza.
Poi, una mattina (quella di oggi), esce la rivelazione illustrata sotto un titolo giù esplosivo (Colletti blu sottopagati. I populismi dell’Est hanno origine a Ovest?): “le economie emerse dal socialismo presentano una differenza di fondo con quelle occidentali: in nessuna di esse esiste la contrattazione salariale – né in azienda, né per settore – salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è immancabilmente basso, anche rispetto al costo della vita dei territori centro-orientali. Non c’è un solo Paese passato dal Patto di Varsavia alla Ue nel quale il salario minimo si avvicini ai 3 euro l’ora o ai 500 euro al mese; è lo standard del settore manifatturiero”. Il problema, e la frustrazione “populistica”, è che i prezzi delle merci sui mercati anche dell’Est sono invece di “livello europeo”.
Colpisce il legame diretto tra impossibilità della contrattazione collettiva e basso livello del salario, che contraddice apertamente il comando unico impartito da oltre 25 anni in tutta Europa (“meno intermediazione sindacale, più contratti aziendali legati alla produttività”, ecc). Là dove non si fa contrattazione, i salari sono da fame e cresce l’odio verso l’Unione Europea...
Che strano, non trovate? Invece di essere contenti di stare finalmente da questa parte della barricata, di poter votare per chi gli dicono, di vedere un po’ di tv commerciale... si lamentano e attribuiscono all’Europa la causa della propria povertà.
Due numeri aiutano a dimensionare lo squilibrio economico: “dal 2008 al 2015 nell’elettrotecnica, nella meccanica e nell’auto la quota di import tedesco da Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania è salita dal 18 al 23,4% (a scapito dell’Italia). Da lì arrivano a prezzi stracciati i pezzi del made in Germany. Le linee produttive ormai sono così integrate che il Fondo monetario parla di «catena di fornitura German-Central European», un sistema produttivo unico dove la grandissima parte del valore è catturata dalle imprese di grande marchio in Germania. Così l’operaio tedesco, a 35 euro l’ora, guadagna al lordo oltre dieci volte quello polacco, ungherese o slovacco, ma la sua produttività effettiva è molto lontana dall’essere tanto superiore. Si spiega così perché dal 2011 quasi un milione di europei orientali, i più giovani e istruiti, sia affluito in Germania arricchendone le risorse umane”.
Così, effettivamente si capisce quasi tutto. Si capisce perché il Corriere della Sera abbia aperto questa finestra (l’import tedesco guarda di più all’Est europeo, riducendo la quota di semilavorati proveniente dall’Italia, con grave danno per le imprese locali); perché ci sia un così grande flusso migratorio slavo verso Berlino e dintorni (che va a sommarsi ai flussi provenienti da Africa e Medio Oriente); perché si diffonda la xenofobia anche in Germania (il lavoro dei migranti – a prescindere dal colore – è fisiologicamente a più basso costo rispetto agli standard considerati accettabili per un “tedesco doc”); perché, soprattutto, la classe dirigente teutonica sia così ferma nella difesa di un sistema di trattati europei che le concedono un diritto di prevalenza su qualsiasi terreno. Eccetera...
Sorprendente, a questo punto, anche la conclusione: “Non si spiega, invece, perché la Ue si ostini a non raccomandare ai Paesi dell’Est ciò che sarebbe ovvio: permettere ai lavoratori di contrattare collettivamente i salari. Quanto a Merkel, anche su questo tace”.
A ciascuno il suo, ci mancherebbe. Ma a questo punto, non si spiega perché il Corriere resti così ferocemente abbarbicato alla "ricetta tedesca" sul piano delle relazioni industriali in Italia, dove continua a predicare deflazione salariale, precarietà lavorativa e dunque esistenziale, flessibilità totale e riduzione del welfare pubblico, "disintermediazione" nei rapporti tra impresa e lavoratori (ossia meno contrattazione collettiva).
La riflessione, infatti avrebbe dovuto essere immediata: “non è che stiamo proprio noi, neoliberisti italici, a fomentare il populismo in casa nostra?”.
Come si diceva una volta, scherzando, l’autocritica degli altri è sempre più facile…
Fonte
Davanti al montare dei “populismi di destra”, soprattutto nell’Est europeo, siamo stati sommersi per anni da analisi preconcette che, grosso modo, facevano risalire il tutto all’eredità del “socialismo reale”, oppure all'arretratezza culturale dei popoli slavi, o a fenomeni ancora più misteriosi per noi “fortunati” dell’Occidente. Nessun indizio di ordine economico o sociale, nessun dato sulla produzione e lo spostamento di ricchezza.
Poi, una mattina (quella di oggi), esce la rivelazione illustrata sotto un titolo giù esplosivo (Colletti blu sottopagati. I populismi dell’Est hanno origine a Ovest?): “le economie emerse dal socialismo presentano una differenza di fondo con quelle occidentali: in nessuna di esse esiste la contrattazione salariale – né in azienda, né per settore – salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è immancabilmente basso, anche rispetto al costo della vita dei territori centro-orientali. Non c’è un solo Paese passato dal Patto di Varsavia alla Ue nel quale il salario minimo si avvicini ai 3 euro l’ora o ai 500 euro al mese; è lo standard del settore manifatturiero”. Il problema, e la frustrazione “populistica”, è che i prezzi delle merci sui mercati anche dell’Est sono invece di “livello europeo”.
Colpisce il legame diretto tra impossibilità della contrattazione collettiva e basso livello del salario, che contraddice apertamente il comando unico impartito da oltre 25 anni in tutta Europa (“meno intermediazione sindacale, più contratti aziendali legati alla produttività”, ecc). Là dove non si fa contrattazione, i salari sono da fame e cresce l’odio verso l’Unione Europea...
Che strano, non trovate? Invece di essere contenti di stare finalmente da questa parte della barricata, di poter votare per chi gli dicono, di vedere un po’ di tv commerciale... si lamentano e attribuiscono all’Europa la causa della propria povertà.
Due numeri aiutano a dimensionare lo squilibrio economico: “dal 2008 al 2015 nell’elettrotecnica, nella meccanica e nell’auto la quota di import tedesco da Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania è salita dal 18 al 23,4% (a scapito dell’Italia). Da lì arrivano a prezzi stracciati i pezzi del made in Germany. Le linee produttive ormai sono così integrate che il Fondo monetario parla di «catena di fornitura German-Central European», un sistema produttivo unico dove la grandissima parte del valore è catturata dalle imprese di grande marchio in Germania. Così l’operaio tedesco, a 35 euro l’ora, guadagna al lordo oltre dieci volte quello polacco, ungherese o slovacco, ma la sua produttività effettiva è molto lontana dall’essere tanto superiore. Si spiega così perché dal 2011 quasi un milione di europei orientali, i più giovani e istruiti, sia affluito in Germania arricchendone le risorse umane”.
Così, effettivamente si capisce quasi tutto. Si capisce perché il Corriere della Sera abbia aperto questa finestra (l’import tedesco guarda di più all’Est europeo, riducendo la quota di semilavorati proveniente dall’Italia, con grave danno per le imprese locali); perché ci sia un così grande flusso migratorio slavo verso Berlino e dintorni (che va a sommarsi ai flussi provenienti da Africa e Medio Oriente); perché si diffonda la xenofobia anche in Germania (il lavoro dei migranti – a prescindere dal colore – è fisiologicamente a più basso costo rispetto agli standard considerati accettabili per un “tedesco doc”); perché, soprattutto, la classe dirigente teutonica sia così ferma nella difesa di un sistema di trattati europei che le concedono un diritto di prevalenza su qualsiasi terreno. Eccetera...
Sorprendente, a questo punto, anche la conclusione: “Non si spiega, invece, perché la Ue si ostini a non raccomandare ai Paesi dell’Est ciò che sarebbe ovvio: permettere ai lavoratori di contrattare collettivamente i salari. Quanto a Merkel, anche su questo tace”.
A ciascuno il suo, ci mancherebbe. Ma a questo punto, non si spiega perché il Corriere resti così ferocemente abbarbicato alla "ricetta tedesca" sul piano delle relazioni industriali in Italia, dove continua a predicare deflazione salariale, precarietà lavorativa e dunque esistenziale, flessibilità totale e riduzione del welfare pubblico, "disintermediazione" nei rapporti tra impresa e lavoratori (ossia meno contrattazione collettiva).
La riflessione, infatti avrebbe dovuto essere immediata: “non è che stiamo proprio noi, neoliberisti italici, a fomentare il populismo in casa nostra?”.
Come si diceva una volta, scherzando, l’autocritica degli altri è sempre più facile…
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