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30/08/2025

Il nuovo oleodotto Ungheria-Serbia e la strategia energetica di Viktor Orban

Il 21 luglio Ungheria e Serbia hanno annunciato la costruzione di un nuovo oleodotto che collegherà la città serba di Novi Sad all’oleodotto Družba attraverso la sua ramificazione ungherese. Secondo il Ministro degli Esteri magiaro Péter Szijjártó, reduce da un incontro con il Ministro dell’Energia serbo Dubravka Đedović e il Viceministro russo Pavel Sorokin, il nuovo oleodotto sarà operativo entro il 2027 e garantirà il transito di 4-5 milioni di tonnellate di petrolio russo. Szijjártó ha inoltre colto l’occasione per ricordare come Bruxelles stia perseverando in una politica cieca nei confronti della Russia, minando la sicurezza energetica dell’Unione, soprattutto ora che i legislatori europei sono impegnati in discussioni volte a eliminare completamente le importazioni di gas russo entro il 2027.

L’asse di ferro tra Ungheria e Serbia

Proprio la coincidenza temporale tra la possibile conclusione di ogni importazione russa e l’apertura del nuovo oleodotto tra Ungheria e Serbia sembra essere un nuovo affronto di Budapest a Bruxelles nel contesto del sempiterno scontro tra il premier sovranista Viktor Orbán e i vertici europei. Il progetto, infatti, è visto come strategicamente importante dal governo ungherese, impegnato in una politica energetica nazionale volta a limitare i costi per i cittadini ungheresi e in una politica estera di forte cooperazione regionale con la Serbia.

Già nel 2023, per esempio, Budapest e Belgrado avevano annunciato un ambizioso piano di investimenti congiunti per rafforzare le infrastrutture per il trasporto di gas, oltre alla creazione di un nuovo interconnettore che avrebbe sviluppato la sicurezza energetica regionale.

E se i tentativi ungheresi di garantirsi rotte energetiche alternative hanno effettivamente portato l’Ungheria a essere tra i Paesi con il costo del gas più basso in Europa (3,20€ per kWh comparato, per esempio, ai 16,71 dell’Olanda), questo non avviene senza ricadute politiche, non solo per Budapest. Se la capitale danubiana è infatti sempre nell’occhio del ciclone e subisce costantemente le pressioni di Bruxelles per limitare la dipendenza energetica da Mosca, anche Belgrado, con la decisione annunciata a luglio, potrebbe vedere inficiato il proprio già periglioso percorso di adesione all’Unione. Proprio il nuovo, ambizioso progetto riapre l’eterno dibattito intorno ai rapporti tra Ungheria e Russia e la vicinanza tra Viktor Orbán e Vladimir Putin.

Budapest-Belgrado per guardare a Mosca?

Le relazioni energetiche tra i due Paesi coprono il settore petrolifero, quello del gas e anche quello atomico. Nel 2024, per esempio, le importazioni di petrolio russo sono state pari a 5,25 miliardi di dollari, anche se, nel corso degli ultimi anni, vi sono state indiscrezioni circa un supposto piano di riduzione dei volumi: l’ente petrolifero ungherese MOL si sarebbe infatti dichiarato disponibile a rivedere le importazioni russe qualora l’Unione Europea avesse pagato i lavori di riconversione delle raffinerie ungheresi, programmate per raffinare il greggio russo. Non sono solo considerazioni economiche a spingere Budapest verso il petrolio russo, ma anche politiche.

Una fonte alternativa, per esempio, potrebbe essere l’utilizzo dell’oleodotto Adria che, attraverso la Croazia, potrebbe fornire petrolio non russo all’Ungheria. Vi è però un grande scoglio da superare, ossia lo stato dei rapporti tutt’altro che idilliaci tra Budapest e Zagabria. Al di là di ragioni storiche, vi sono motivazioni ben più recenti e concrete dietro i rapporti tesi tra i due Paesi: proprio la multinazionale ungherese MOL, infatti, ha comprato il 49% della compagnia energetica croata INA e, in seguito a questa manovra, il CEO di MOL, Zsolt Hernadi, è stato accusato di aver elargito pingue tangenti all’ex Primo Ministro croato Ivo Sanader per ottenere le autorizzazioni necessarie. In seguito a queste pesanti accuse è stato spiccato un mandato di arresto internazionale nei confronti di Hernadi, poi revocato nel 2020.

Scenari in evoluzione

La dipendenza ungherese dal gas russo è invece ancora più controversa e ha profonde radici storiche, originando negli Anni '70 nel contesto della cooperazione con l’Unione sovietica all’interno dell’allora blocco socialista in Europa orientale. Per giungere a tempi più recenti, nel 2021, un anno prima dell’inizio della guerra in Ucraina, Ungheria e Russia hanno concluso un importante accordo che prevedeva l’acquisto, a prezzi non esattamente vantaggiosi, di 4,5 miliardi di m3 di gas russo. La maggior parte delle forniture sarebbero passate attraverso il canale TurkStream, ossia da quella linea che, attraversando il Mar Nero, passa dalla Turchia, dalla Bulgaria e dalla Serbia permettendo così a Mosca di bypassare l’Ucraina.

Proprio l’attacco all’Ucraina ha rappresentato un punto di svolta a livello continentale: sebbene i gasdotti russi non siano stati fatti oggetto di sanzioni, sempre più Paesi europei hanno iniziato a smarcarsi da Mosca, portando a un forte calo delle importazioni di gas, passate dal 40% del 2021 all’8% del 2023, con addirittura l’annunciata volontà di eliminare completamente ogni tipo di importazione entro il 2027.

La crisi bellica ha ovviamente avuto ricadute anche sull’Ungheria, spingendo il governo a dichiarare lo stato di emergenza nel luglio 2022 e a elaborare un piano di azione in sette punti che prevedono, tra l’altro, l’incremento della produzione interna di gas, l’aumento della capacità di stoccaggio e nuove importazioni di questa importante risorsa. E se lo sviluppo della produzione è stato evidente a partire dal 2023, già a novembre 2022 lo stoccaggio ungherese era superiore al livello europeo. Per quanto riguarda le nuove importazioni, tuttavia, il governo Orbán ha deciso di rivolgersi ancora alla Russia, annunciando nuovi accordi tra il 2024 e il 2025, portando praticamente al raddoppio delle importazioni da Mosca.

Non solo: sebbene Péter Szijjártó avesse annunciato l’aumento dell’acquisto di gas russo fino a 8,5 miliardi di m3, ossia una somma pari al fabbisogno annuo ungherese, è importante notare come tra 2023 e 2024 siano transitati per il Paese danubiano 17 miliardi di m3 della preziosa risorsa russa. Secondo alcune indiscrezioni, questa trasformazione dell’Ungheria in quello che sembrerebbe essere un hub di gas russo sarebbe stata elaborata proprio da Gazprom e rappresenterebbe una sorta di “win-win situation”: il produttore russo, infatti, venderebbe il surplus agli imprenditori ungheresi, i quali genererebbero ingenti profitti dalla rivendita di questo bene essenziale, mentre il governo magiaro aumenterebbe le proprie entrate fiscali. Il gas russo verrebbe quindi rivenduto dall’Ungheria ai Paesi vicini e, secondo alcune notizie non confermate, anche alla Germania.

Perché l’Ungheria è in disaccordo con l’UE

Questa situazione, unita al fatto che l’Ungheria è agganciata al network russo e importare gas attraverso altre linee rappresenterebbe un aumento dei costi, spiega l’ostilità di Budapest a ogni forma di diversificazione delle importazioni: su pressione dell’Unione Europea, infatti, il governo Orbán avrebbe intavolato nuove trattative con Azerbaijan, Turchia, Qatar, Croazia e Romania, ma la dipendenza da Mosca rimane determinante. Per evitare ogni consumo indesiderato, comunque, l’Ungheria ha avviato una serie di politiche volte a eliminare il consumo di gas come, per esempio, la limitazione delle temperature nelle scuole e negli uffici pubblici, l’eliminazione delle vacanze scolastiche autunnali e l’estensione della pausa invernale o l’incentivo a favorire l’energia elettrica rispetto a quella a gas.

Non solo: per contenere l’impatto dell’aumento dei prezzi e le oscillazioni causate dalla situazione bellica in corso, il governo Orbán ha avviato una politica sociale che prevede il calmieramento dei prezzi del gas e dell’elettricità per le famiglie ungheresi entro una certa soglia di consumo, superata la quale i beni verrebbero pagati a prezzo di mercato. E proprio su questo aiuto fondamentale per le famiglie ungheresi si gioca la battaglia del premier ungherese contro la politica energetica europea: qualora dovessimo eliminare del tutto le importazioni russe, afferma Orbán, il costo per le famiglie ungheresi diventerebbe insostenibile, causando una vera e propria emergenza sociale.

Ma il petrolio e il gas, come accennato, non sono gli unici settori in cui Budapest sarebbe legata a doppio filo a Mosca: l’aiuto russo, infatti, è fondamentale anche per il funzionamento e l’ampliamento della centrale nucleare Paks II che, nel 2019, forniva il 50% dell’energia elettrica nazionale. Ed è stata nuovamente la guerra in Ucraina a rappresentare una svolta in questo senso. Sebbene anche il settore nucleare non sia stato oggetto diretto di sanzioni, è risultata evidente la volontà di numerosi attori europei di allontanarsi da Mosca anche per quanto riguarda l’energia atomica. Molti Paesi dell’Europa centro-orientale che prima dipendevano dalla Russia per il funzionamento delle loro centrali, si sono infatti rivolti alla statunitense Westinghouse per avere il supporto necessario. Per via degli screzi politici con l’amministrazione Biden e complice un riavvicinamento tra Viktor Orbán ed Emmanuel Macron, tuttavia, l’Ungheria ha preferito chiedere aiuto alla francese Fromatome.

Il nodo nucleare

L’aiuto francese sarebbe stato fondamentale anche nel contesto di un ulteriore progetto, elaborato da Paks II ltd, ossia l’azienda statale responsabile dell’ampliamento e potenziamento della centrale nucleare ungherese, e dal Ministero degli Esteri magiaro. La parte del leone a Paks la fa, naturalmente, la società russa Rosatom, ma l’assistenza occidentale è richiesta in diversi settori come, per esempio, la fornitura di alcuni materiali essenziali al funzionamento della centrale. Proprio il blocco di tali forniture da parte della Germania ha spinto Budapest a elaborare una alternativa che non andasse a rompere il contratto stipulato con Mosca. Il piano, quindi, sarebbe stato quello di dare vita a un nuovo impianto, noto come Paks III, in collaborazione con Fromatome, garantendo così ai russi di continuare i lavori a Paks II senza però il supporto diretto del governo ungherese. Il piano, però, sarebbe stato fermato da Viktor Orbán in persona, il cui rifiuto ha portato a un rinnovato impegno e a una più stretta collaborazione russo-magiara per finalizzare il potenziamento di Paks II.

Tutti aspetti, quelli elencati finora, che costituiscono la politica energetica di Viktor Orbán. Politica che, sebbene garantisca costi contenuti per le famiglie ungheresi e un costante approvvigionamento di petrolio, gas ed energia, non favorisce le diversificazioni e rischia di precipitare il Paese danubiano in una dipendenza dalla Federazione Russa, oltre ad avere pesanti ricadute in quella lunga e apparentemente interminabile partita a scacchi tra il premier ungherese e l’Unione Europea. E non a caso il totale divieto di intromissione delle istituzioni europee nelle politiche energetiche nazionali è uno dei tasselli fondamentali di quel grande piano di riforma dell’Unione Europea presentato mesi fa dai conservatori ungheresi e polacchi e appoggiato attivamente dal governo magiaro.

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18/07/2025

L’Occidente soffia ancora sulla destabilizzazione dei Balcani

Dalla frantumazione della Jugoslavia, i Balcani non hanno mai smesso di rappresentare il simbolo di quel dividi et impera di romana memoria che ha guidato gli imperialismi occidentali all’imposizione dei propri interessi in giro per il mondo.

Ancora oggi, la situazione nella penisola è incandescente, con continue tensioni dove la longa manus dell’Occidente prova a giocare le sue carte contro l’affermarsi del multipolarismo.

La nuova “Triplice Alleanza”

Alla fine di marzo, Croazia e Kosovo hanno firmato a Tirana insieme all’ospitante Albania accordi sulla cooperazione militare che prevedono la lotta congiunta contro le minacce esterne.

Il documento principale si compone di quattro punti e prevede cooperazione tra le parti nell’addestramento e nello svolgimento di esercitazioni congiunte del personale militare. A ciò si aggiungono lo scambio di informazioni di intelligence e soprattutto il “coordinamento delle politiche e delle posizioni dei partecipanti con le strutture multilaterali euroatlantiche nel campo della sicurezza e della difesa”.

In questa nuova “Triplice alleanza” balcanica, Croazia e Albania sono membri Nato dal 2009, mentre il Kosovo per voce della sua presidenza Vjosa Osmani continua a premere per l’entrata del Paese nell’Alleanza atlantica.

A cavallo tra luglio e agosto sono previste esercitazioni militari della Triplice nell’Albania settentrionale e nell’ex Krajina serba in Croazia, aree confinanti con il Kosovo e la Serbia, come a voler infuocare la già instabile situazione che attraversa quest’ultima.

Il ruolo della Turchia e della Nato

Alcuni media russi sottolineano il ruolo della Turchia in questa vicenda. All’inizio di gennaio, il Kosovo ha siglato un accordo con la società turca “Mechanical and Chemical Industry Corporation” per la creazione entro ottobre 2025 di impianti industriali nel Paese per la produzione di munizioni e droni.

A questo va aggiunto che la modernizzazione delle cosiddette “forze di sicurezza” kosovare sotto l’egida della Nato ha beneficiato di investimenti esteri per circa 240 milioni di euro provenienti da aziende specializzate di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Turchia e Stati Uniti.

Non meno attivo è il corridoio creato alla fine degli anni ‘90 per la consegna a Pristina di carichi tecnico-militari attraverso i porti dell’Albania settentrionale. La Nato inoltre monitora lo spazio aereo con droni statunitensi come il MQ-9A Reaper e Challenger 650 Artemis, un veloce jet privato di lusso, modificato per agire come aereo-spia e intercettare le comunicazioni altrui.

Una simile militarizzazione dei Balcani ricorda da vicino la vigilia dei bombardamenti Nato del 1999, con D’Alema attore protagonista per l’allora governo italiano di centro-sinistra.

Serbia e Macedonia, due focolai su cui soffia l’Occidente

Se a Belgrado e in altre città serbe continuano le proteste in primis studentesche contro il Presidente Vučić, la vicina Macedonia del Nord sembra essere oggetto di attenzioni da parte delle forze filo occidentali.

Lo scorso marzo, attivisti serbi antigovernativi sono stati arrestati nella capitale Skopje con l’accusa di voler organizzare disordini nel Paese e alimentare così i venti di destabilizzazione dell’area, dove l’adesione macedone ai desiderata occidentali non appare garantita.

La Macedonia del Nord è entrata nella Nato nel 2020 con un processo di adesione lampo formalizzato dall’Unione socialdemocratica di Macedonia (Usm). Salita al potere nel 2019, l’Usm ha cambiato nome al Paese e ha pacificato il rapporto con la Grecia con l’accordo di Prespa.

Nel 2024 tuttavia il Partito democratico per l’unità nazionale macedone è tornato al governo, riprendendo la retorica contro la minoranza albanese e, di converso, alimentando le richieste di chi vorrebbe la creazione di un “Kosovo di Macedonia” per gli albanesi su circa un terzo del territorio macedone.

Un nuovo Maidan all’orizzonte?

La controffensiva occidentale all’avanzata dei Brics+ e delle altre alleanze a trazione multipolare ha nei Balcani un punto della più generale strategia di recupero di consenso, o per meglio dire sottomissione, di vaste aree del Sud Globale.

Le batoste franco-europee in Africa fanno da contraltare ai bombardamenti americano-sionisti in Medio Oriente. Col parziale disinvestimento Usa in Ucraina, la posizione della Serbia nei Balcani si fa più difficile, accerchiata com’è da spinte pro-Ue e Nato con cui il Paese non può che fare i conti, date le difficoltà di mantenere rapporti commerciali con la Federazione russa, fornitura di armi comprese.

L’inadeguatezza italiana e il silenzio dell’Ue

Non sorprende invece la totale nullità delle istituzioni italiane in qualsiasi dossier di rilievo per il Paese, come quello dei vicini Balcani. Anzi, il Presidente Mattarella non ha trovato di meglio da fare che visitare l’omologo croato nel giorno in cui circa 500 mila persone hanno assistito a Zagabria al concerto di Marko Thomposn, ex militare oggi “cantore” dei peggiori rigurgiti nazifascisti nella patria degli Ustascia.

“Il più grande raduno fascista dai tempi Seconda guerra mondiale”, l’hanno definita i media serbi, che hanno accusato l’Ue di silenzio complice verso l’evento. Non c’è di che star sereni...

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29/03/2025

I pompieri incendiari al lavoro per infiammare di nuovo i Balcani

A pensar male si fa peccato ma, purtroppo ci si azzecca spesso. Da settimane sono all’opera forze che stanno soffiando il fuoco nei Balcani. Ultimo in ordine di tempo è arrivato il mandato di arresto internazionale contro Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska (l’entità serba della Bosnia Erzegovina), che indubbiamente va a ingarbugliare una situazione già complicata in un Paese balcanico in cui ancora suppurano le ferite della guerra civile jugoslava e che rischia di avere conseguenze per l’intera regione dei Balcani.

A spiccare il mandato d’arresto nei confronti di Dodik era stata la Corte della Bosnia Erzegovina – ovvero un “soggetto di parte”, non una Corte “neutrale” – che accusa il leader serbo-bosniaco di aver minato l’ordine costituzionale del Paese con azioni che rischiano di comprometterne l’integrità e la stabilità.

Ieri è arrivata la sezione dell’Interpol di Sarajevo a emettere il mandato di arresto contro Dodik, un fatto che adesso coinvolge anche la comunità internazionale. La richiesta, attualmente, è in fase di valutazione da parte della sede centrale dell’Interpol a Parigi: spetterà ai funzionari dell’agenzia internazionale di sicurezza verificare che siano stati soddisfatti tutti i prerequisiti per l’emissione del mandato che quindi, al momento, non è ancora giuridicamente vincolante.

Il presidente della Repubblica Srpska ha da tempo espresso la volontà di promuovere un’autonomia sempre maggiore per l’entità serba rispetto alla Bosnia Erzegovina. Le sue posizioni contrastano con l’autorità della Corte costituzionale bosniaca (molto influenzata dalla Ue e dalla Nato) ed ha inoltre manifestato una esplicita contrarietà alle politiche di integrazione europee, suscitando preoccupazioni sia a livello nazionale che a Bruxelles.

La recente decisione di adottare una Costituzione interna alla Repubblica serba di Bosnia che prevederebbe, fra i vari punti, la possibilità di dotarsi di proprie Forze armate, ha provocato timori e “rumori”.

Dodik è stato accusato di violazioni della Costituzione e di aver posto in essere politiche che ostacolano l’attuazione degli Accordi di Dayton, il trattato che nel 1995 pose fine alla guerra civile in Bosnia Erzegovina e che ha definito, con i bombardamenti e poi il commissariamento per anni da parte della Ue e della Nato, l’attuale assetto federale del Paese.

La Bosnia Erzgovina non è infatti uno stato pienamente sovrano. Attualmente sulla Bosnia incombe un Alto Rappresentante straniero – al momento il conservatore tedesco Christian Schmidt. La nomina di Schmidt è stata decisa dagli ambasciatori del comitato direttivo del Consiglio per l’attuazione della pace, l’organo incaricato dal Trattato di Dayton di supervisionare il processo di pace della Bosnia, composto da una quarantina di Stati e una ventina di osservatori, tra organizzazioni internazionali, enti statali bosniaci e altri Stati.

Nel comitato direttivo siedono i rappresentanti di Usa, Russia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Canada, Giappone, Commissione europea, e Organizzazione per la cooperazione islamica (rappresentata dalla Turchia).

Ma per capire il personaggio Dodik e non cominciare a farsi idee sbagliate, occorre sapere che fino a giovedì Dodik si trovava in visita ufficiale in Israele, un fatto che aveva suscitato sorpresa e indignazione nelle autorità bosniache. E questo per due motivi.

Il primo la Bonsia Erzegovina viene considerato un paese “poroso” per le infiltrazioni di gruppi jihadisti islamici. Il secondo perché, sebbene al momento della sua partenza per Israele non fosse stato ancora spiccato il mandato dell’Interpol contro Dodik, era invece già esecutivo quello della Corte di Sarajevo.

Nonostante l’emissione del mandato di arresto, Dodik è riuscito a lasciare la Bosnia Erzegovina e a raggiungere Israele, dove ha elogiato il Paese per la sua capacità di “resilienza e sicurezza”. Durante il suo soggiorno a Tel Aviv, Dodik ha rilasciato dichiarazioni che hanno messo in risalto il suo appoggio alla politica israeliana, accogliendo favorevolmente le sue politiche di difesa e sicurezza.

Dodik si è detto anche “tranquillo” in merito alle notizie sul mandato di cattura dell’Interpol e ha poi annunciato che sarebbe tornato “senza problemi” in Bosnia la prossima settimana.

Nel corso della serata, Dodik è stato però caldamente “invitato” dalle autorità israeliane a lasciare il Paese, in seguito alle pressioni internazionali e alle implicazioni legali legate al mandato di arresto emesso dalla Bosnia. Secondo una ricostruzione fornita dal quotidiano Jerusalem Post, infatti, una delegazione di funzionari israeliani avrebbe informato del fatto che la sua presenza era diventata “diplomaticamente problematica”. Tale sviluppo ha costretto il leader serbo-bosniaco a cambiare i propri piani e a lasciare in tempi brevi il Paese.

Stando ad alcune fonti locali, l’aereo del governo della Repubblica Srpska sarebbe atterrato a Belgrado ieri notte dopo essere decollato da Tel Aviv. Si presume che il presidente dell’entità serba sia sceso dall’aereo nella capitale della Serbia. Il fatto che il mandato di cattura dell’Interpol non sia ancora vincolante ha di fatto spinto le autorità israeliane a chiedere a Dodik di “toglierle dall’imbarazzo”.

La Ue e la Nato non nascondono affatto la loro preoccupazione per l’alleanza di Dodik con la Russia e alla sua posizione intransigente contro le politiche dell’Unione europea. Dodik ha più volte espresso il suo appoggio a Mosca, rifiutando le sanzioni europee e riaffermando la sua posizione di opposizione all’integrazione della Bosnia Erzegovina nell’Unione europea e nella Nato.

La Serbia, alleata storica della Repubblica Srpska, ha difeso Dodik, rifiutando di collaborare con le autorità bosniache per quanto concerne l’arresto del presidente.

Con il mandato di arresto internazionale pendente e le difficoltà nel perseguire l’arresto di Dodik, una delle principali preoccupazioni è che il presidente della Repubblica Srpska possa fuggire dal Paese, cercando asilo a Belgrado o in altri Paesi come l’Ungheria, che potrebbero offrirgli protezione.

Tra il caos politico in Serbia e nella Macedonia del Nord e il recente accordo militare raggiunto tra Albania, Kosovo e Croazia in funzione antiserba, sui Balcani si vanno di nuovo addensando nubi fosche alle quali non è certo estranea l’onda che proviene dal conflitto in Ucraina e che potrebbe avvicinare ancora di più la faglia di crisi al cuore dell’Europa,

La situazione di Milorad Dodik appare per ora lontana da una soluzione e le prossime mosse politiche potrebbero determinare il futuro della Bosnia e la stabilità della regione balcanica.

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19/03/2025

Serbia - Il crollo del sistema rappresentativo e la strada verso la dittatura

L’attuale crisi politica in Serbia è probabilmente, a causa dell’enorme massa di persone coinvolte e della determinazione a portare avanti la lotta, uno degli eventi più notevoli nella storia politica de Paese. Tuttavia, dal punto di vista della governance, si tratta di una semplice ripetizione dei problemi che hanno afflitto la politica della Serbia da quando è riemersa come Principato indipendente, e poi Regno nella prima metà del XIX secolo.

La Serbia è, come l’Argentina e la Russia, per usare l’espressione coniata da V. S. Naipaul, un paese dalla storia circolare: gli stessi eventi con personalità diverse si ripetono in modo permanente, e apparentemente per sempre. (Ho scritto della storia circolare della Russia qui).

In effetti, la Serbia è stata governata nel 1825 e nel 1925 esattamente nello stesso modo di oggi: un leader autoritario che utilizza strumenti quasi democratici o consultivi, presiede un sistema clientelare che propaga la corruzione a tutti i livelli come un modo per garantire un sostegno politico sufficiente. Due elementi sono fondamentali: il governo autoritario e la corruzione diffusa.

In questo particolare contesto, l’attuale protesta guidata dagli studenti sembra, con la sua richiesta di responsabilità giudiziaria nei confronti dei colpevoli di corruzione di massa e di lavori pubblici scadenti che hanno portato alla morte di 15 persone a novembre, essere del tutto giusta. E in effetti come un movimento spontaneo che è iniziato tra i giovani universitari, lo era. Ma una volta che la protesta è diventata più massiccia, coinvolgendo ampi segmenti della borghesia urbana e persino alcuni agricoltori e sindacati, i problemi sono emersi.

Il movimento si rese presto conto che avrebbe potuto avere successo solo se fosse stato completamente apolitico, cioè senza legami con alcun gruppo o partito politico e al di fuori del sistema rappresentativo.

Per quanto il regime di Vučić sia antipatico a molte persone, esso ottiene comunque la maggioranza o quasi in tutte le elezioni: Vučić ha vinto le elezioni presidenziali del 2022, in gran parte libere, con il 61% contro il 18% del suo rivale più vicino, e il suo partito ha ottenuto il 48% del voto popolare alle elezioni parlamentari del 2023.

I partiti di opposizione sono frammentati dall’ideologia e dalle incessanti lotte per la leadership.

C’è quindi una forte antipatia, o addirittura odio, per l’attuale regime, ma tale antipatia non può essere espressa politicamente perché i partiti di opposizione sono quasi altrettanto antipatici. Le ragioni della loro irrilevanza sono molte, ma non bisogna ignorare che quando, nelle loro prime incarnazioni, erano al potere, gestivano più o meno lo stesso sistema clientelare e soffrivano di corruzione.

Il regime di Vučić ha semplicemente esacerbato questi difetti. In breve, il sistema multipartitico crolla e almeno il 40 per cento della popolazione non ha nessuno che la rappresenti (l’affluenza alle urne nelle ultime due elezioni è stata inferiore al 60 per cento).

Il movimento studentesco ha deciso così di giocare la carta dell’antipolitica. Ha vietato le bandiere o le insegne di qualsiasi partito politico, o l’uso di bandiere straniere (prendendo di mira la bandiera dell’UE che è ampiamente impopolare in Serbia) e ha evitato qualsiasi organizzazione formale.

Il movimento ha bloccato il sistema scolastico negli ultimi tre mesi, gli studenti hanno occupato le università, i ragazzi delle scuole superiori hanno fatto lunghe marce in tutto il paese per diffondere il loro messaggio, e le decisioni sul da farsi, si sostiene, sono prese dai “plenum” degli studenti e dal voto diretto (anche se nessuno sembra sapere come si svolgerà questo voto né se è unanime o meno).

Il movimento (a cui manca persino un nome) comunica emettendo dichiarazioni o pronunciamenti che sembrano provenire dall’alto dell’Olimpo e che per di più non vengono firmati. I suoi sostenitori intellettuali hanno avanzato l’idea di una democrazia popolare (diretta) libera dai partiti politici. L’aspetto antipolitico del movimento è stato elogiato da filosofi ed esperti come Slavoj Zizek e Yanis Varoufakis.

Ma mentre lavorare al di fuori della politica è la ragione del successo del movimento, questo ha un effetto fondamentalmente destabilizzante quando si traduce in politica reale.

Con l’attuale massa amorfa che manca persino di una leadership visibile, i movimenti non hanno strumenti per coinvolgere i governi e lo stesso Vučić. Il movimento, nella segretezza in cui opera, assomiglia più ai Khmer rossi che alla Solidarnosc polacca. Solidarnosc ha creato immediatamente le strutture di leadership e ha avviato i negoziati con il governo.

La decisione di non entrare nella politica e di non trasformarsi in un’organizzazione formale o in un partito politico è sia una benedizione che una maledizione. È una benedizione perché solo così il movimento può andare avanti. È una maledizione perché non può mai formulare le sue richieste in un linguaggio politico comprensibile e migliorare o cambiare il sistema politico.

Per quest’ultimo, ha bisogno di scendere dalle sue vette olimpiche, trasformarsi in un’organizzazione gerarchica con una leadership nota (nessun leader è emerso in quasi quattro mesi!), convertire il suo linguaggio attuale in un linguaggio politico e aspettarsi, o sperare, di rappresentare politicamente ampi segmenti della popolazione scontenta. Ma una volta che lo fa, scende al livello dei partiti politici, che, come già notato, riscuotono ampia diffidenza tra la popolazione.

Inoltre, man mano che il movimento si muove nel mondo della politica, il fatto che al suo interno contenga tutti i tipi di sostenitori, dall’estrema destra nazionalista ai Verdi, ai socialdemocratici e ai liberali filo-europei, diventerà manifesto e una tale coalizione eterogenea sarà ingestibile e si dissiperà rapidamente.

Il movimento deve quindi continuare a giocare allo stesso gioco senza che se ne veda la fine. A un certo punto questa situazione diventerà insostenibile e il regime di Vučić dovrà diventare più repressivo e muoversi verso una dittatura aperta.

Questo è esattamente ciò che accadde nel 1929 quando re Alessandro I bandì ogni attività politica e impose la dittatura personale.

Il movimento apolitico su larga scala porta in ultima analisi a due risultati: dittatura o caos. Poiché il caos non può durare, produce in ogni caso la dittatura. A lungo termine, alcuni dei lati positivi del movimento probabilmente rimarranno (nel modo in cui i movimenti studenteschi del 1968 hanno trasformato i costumi sociali), ma a breve e medio termine i suoi risultati politici saranno l’esatto opposto di ciò che spera di ottenere.

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25/12/2024

Kosovo - Il partito serbo escluso dalle elezioni

Ieri la commissione elettorale centrale del Kosovo si è rifiutata di ammettere alle prossime elezioni, in programma a febbraio, la Lista Serba (Srpska Lista), la formazione che rappresenta la popolazione serba dell’ex provincia di Belgrado resasi indipendente nel 2008 dopo un intervento militare e l’occupazione del paese da parte dell’Alleanza Atlantica nel 1999.

I membri della commissione hanno motivato la decisione col fatto che il leader del partito, Zlatan Elek, non si sia mai riferito al Kosovo come a una repubblica indipendente, ma come a «Kosovo i Metohija», la dizione utilizzata quando il territorio era una provincia autonoma della Repubblica Serba. Secondo la commissione la formazione esclusa non riconosce la sovranità territoriale e l’indipendenza del territorio e quindi non può partecipare alle elezioni. Secondo i membri dell’organismo, la Lista Serba ha in varie occasioni assunto posizioni contrarie all’interesse nazionale del Kosovo.

I funzionari della commissione hanno anche affermato che il partito sotto esame intrattiene stretti legami con il presidente serbo Aleksandar Vučić e con altri leader serbi, i quali si rifiutano anch’essi di riconoscere l’indipendenza del Kosovo.

In Kosovo vivono circa 100mila serbi, su una popolazione totale di 1,8 milioni di persone.

La reazione del presidente serbo non si è fatta attendere. In una nota Aleksandar Vučić ha accusato il premier kosovaro Albin Kurti di voler eliminare i serbi del Kosovo.

Fonte

25/08/2024

La Serbia continua ad essere a rischio sfinimento

Al di là degli aspetti contingenti, è ormai delineata e praticata da anni una strategia di affossamento e di sottomissione della dirigenza nazionale serba, non asservita ad interessi stranieri o ai diktat occidentali. La domanda che molti esperti ed osservatori internazionali indipendenti si pongono è: la Serbia riuscirà a mantenere un proprio governo che risponda prima di tutto agli interessi nazionali o la pressione salirà a livelli non più controllabili?

Questa è in sintesi la situazione odierna nel paese balcanico.

Maidan serbo?

Il vice primo ministro della Repubblica di Serbia, A. Vulin ha pubblicamente denunciato che l’opposizione nel paese sta preparando uno scenario “Maidan” in Serbia.

“...abbiamo fondate informazioni che sono in preparazione disordini pianificati e il tentativo di sovvertimento del Presidente Vucic e delle istituzioni statali. Ma tutti sappiano che abbiamo uno Stato forte e solido, e il presidente Vučić non è Yanukovich, non ha alcuna intenzione di scappare e di cedere il potere a farabutti. Hanno avuto le elezioni che chiedevano e hanno fallito. Hanno provato e sperato di arrivare al potere e non ci sono riusciti, quindi ora dicono: ok, non possiamo farlo alle elezioni, dobbiamo farlo per le strade. Credono che in questo paese siano alcuni stranieri a decidere chi andrà al potere. Questo perché hanno una cultura da servitori, credono che qui non dipenda nulla dai cittadini serbi, ma da qualche ambasciatore che li chiamerà e dirà: d’ora in poi il primo ministro sarai tu. Mosca ci ha avvertito della preparazione di un colpo di stato. Non c’è motivo di avere paura, ma abbiamo motivo di essere cauti e molto seri. Nel nostro Paese esiste un numero significativo di gruppi organizzati, interconnessi, che si preparano a proteste quotidiane, si preparano a provocare incidenti, fare caos, lanciare allarmi, diffondere voci, creare trambusto e confusione e cercheranno di sfruttare ogni occasione per potenziali conflitti. Lo schema già collaudato è che se questo sarà bloccato, verrà attuato lo scenario del Maidan, si costruiranno tende e blocchi, con la parola d’ordine ‘resteremo finché le richieste non saranno soddisfatte’. Hanno già preparato delle squadre che rimarranno in servizio tutta la notte. Dal lavoro che ho svolto in precedenza come capo della BIA (Sevizi Sicurezza serbi), di ministro degli Interni e della Difesa, so molto bene cosa fanno i servizi stranieri occidentali in questo paese e so molto bene con chi lavorano, e so che ogni volta che la Serbia ha l’opportunità di progredire, abbiamo proteste nelle strade, abbiamo persone che si preparano a mostrarci cos’è una ‘rivoluzione colorata’, abbiamo persone che stanno cercando di cambiare il governo con la forza. Circa le minacce di morte al presidente Vucic, i nostri servizi scopriranno chi si nasconde dietro l’ordine con cui si indicava di impiccare il presidente , è solo questione di tempo...”.
Continui arresti in Kosovo di serbi, con accuse datate 25 anni fa. Una precisa strategia pianificata di terrore, per spingere all’esodo la restante popolazione serba nella provincia e spezzare la Resistenza civile contro la pulizia etnica.

Ai primi di agosto altri cinque serbi sono stati arrestati con irruzioni violente nelle loro case, nel distretto di Kosovo Pomoravlje, come le altre centinaia di serbi arrestati in questi anni, anch’essi hanno finora vissuto pacificamente nelle loro comunità, senza precedenti di attività illegali. È particolarmente grave che gli arresti vengono effettuati senza ordinanze legali circostanziate, sulla base di elenchi segreti, il che indica ulteriormente l’arbitrarietà e la natura politica e terroristica di queste azioni. Lo sconforto e la percezione dell’isolamento in queste terre, fanno parte della strategia di discriminazione sistemica, legata alla costruzione forzata delle comunità ghetto, enclavi, come unico modo in cui è possibile sopravvivere per i serbi.

Gli ultimi arresti sono avvenuti il 3 agosto: Dragan Cvetkovic, Dragan Nicic, Milos Sosic e Slobodan Jevtic di Pasjane e Nenad Stojanovic di Bosce. La polizia ha fatto irruzione nelle loro case la mattina presto, puntando armi automatiche contro i membri delle famiglie. Gli arresti che sono, come sempre, motivati su accuse di presunti crimini commessi 25 anni fa durante il conflitto in Kosovo, dimostrano la situazione dello “stato di diritto” della provincia kosovara, in quanto queste persone, nei trascorsi decenni hanno vissuto pacificamente nel loro villaggio con le loro famiglie, rispettati da tutti i vicini di casa.

Anche la Chiesa ortodossa serba ha espresso profonda preoccupazione per i continui arresti di civili serbi con accuse inammissibili. La COS ha espresso piena solidarietà alle famiglie degli arrestati, inviando un messaggio di sostegno e di perseveranza: “... Tali atti di repressione non dovrebbero intimidirci, ma rafforzare la nostra determinazione a continuare a vivere nei nostri antichi focolari con dignità e pace...”. La stessa Chiesa serba è continuamente attaccata e minacciata, per recidere le radici millenarie dell’identità storica e spirituale dei serbi in KosMet.

“Questa non è libertà, questa non è vita!”, ha detto Vasilije Šošić durante la protesta a Pasjan. Suo figlio Miloš è stato arrestato con l’accusa di crimini di guerra e lui, di fronte a diverse migliaia di serbi, ha ripercorso il dramma dell’arresto di suo figlio e ha testimoniato con esempi personali, i rapporti tra serbi e albanesi. “...Quando mi sono alzato la mattina per vedere, c’era il cortile pieno, tutti armati fino ai denti, come se avessimo calpestato il mondo intero, come se mio figlio avesse fatto chissà cosa”, ha detto Vasilije.

L’arrestato Miloš Šošić, era stato uno dei primi serbi aggregati nella polizia del Kosovo, vi ha trascorso 23 anni con premi e decorazioni. Quando le forze speciali armate sono entrate nel cortile di casa sua, suo padre ha pensato che fosse stato ucciso e quando ha visto che lo conducevano via legato e piegato, pensò che Miloš avesse ucciso qualcuno. Mentre lo portavano via ha detto a suo padre che era accusato di crimini di guerra.

Dragan Cvetković un altro degli arrestati è disabile, la famiglia non intende vendere la terra e andarsene, un figlio è insegnante e l’altro prete. Ed è stato quest’ultimo, padre Jovan, a raccontare: “…All’alba del 3 agosto, poliziotti di Pristina sono entrati nelle nostre case, nelle nostre vite, nei nostri diritti, nella nostra libertà senza spiegazioni e con il chiaro intento di spaventarci. Per dirci che non apparteniamo a questo posto, che non vogliono vederci qui. Ma devo ribadire questo: non siamo spaventati, ma siamo incoraggiati... Mi appello a tutti coloro che hanno sofferto e ai santi, conosciuti e sconosciuti, che hanno testimoniato la loro fede e hanno amato questo Paese, sono sicuro che gli abitanti di Pasjana sopravvivranno anche a questo tormento e a questa ingiustizia”.

Dragan Ničić è un insegnante in pensione. Ha lavorato nei villaggi dove sono stati commessi i presunti crimini. È uno di quelli che, 35 anni fa, furono accusati di avvelenare i bambini albanesi con i noti e ingegnosi avvelenamenti monoetnici. Accuse poi cancellate, ha continuato a vivere nella sua casa in questi decenni.

Slobodan Jevtić, è un rimpatriato non vedente, che intendeva vivere lì con la sua famiglia e nella sua terra, nonostante che le autorità gli avevano spiegato i rischi che attendono i rimpatriati e il ritorno dei serbi.

Tra i cinque c’è anche Nenad Stojanović del villaggio Bosce vicino a Kosovska Kamenica.

Quando il folto gruppo di poliziotti ha fatto irruzione nella casa e ha messo i bambini e la loro madre in una stanza, una ragazza ha detto: “Questi non sono poliziotti, questi sono ladri, i poliziotti hanno delle facce…Qui ha un volto solo chi soffre e aspetta la liberazione e la libertà...”.

Il 6 agosto nel villaggio di Novake vicino a Prizren, le case di tre famiglie di rimpatriati sono state bruciate e completamente distrutte. Erano delle famiglie di Dejan Petković, della famiglia di Dragomir Nikolić e della famiglia del defunto Stanislav Nikolić. Delle case sono rimasti solo i muri, i tetti sono stati completamente bruciati. I serbi che erano tornati dopo il conflitto erano 70, a causa delle violenze, delle minacce continue e dell’insicurezza quotidiana, ne erano rimasti quindici.

In luglio sono stati aggrediti e picchiati Mladen Djosic a Donja Brnjica vicino a Pristina. “... Un albanese ha aggredito Đošić senza alcun motivo e gli ha rotto il naso, quando suo padre Donja ha cercato di proteggere suo figlio, la polizia lo ha arrestato, invece di arrestare l’aggressore. Sebbene le telecamere di sorveglianza abbiano registrato tutto l’accaduto e l’aggressore del serbo sia stato subito riconosciuto, la polizia lo ha fermato solo dopo ore... I serbi di questo villaggio sono indignati e intimiditi...”, si legge in un comunicato stampa.

Il 12 agosto nel villaggio di Gornje Korminjane nel distretto di Pomoravlje, in Kosovo, due persone mascherate hanno fatto irruzione nella casa della famiglia serba di Nenad Jovanovic. Stando a quanto riportato dalla stampa, Jovanovic è stato aggredito e ferito. I due criminali hanno poi lasciato l’abitazione sparando alcuni colpi di arma da fuoco che non hanno provocato vittime, lasciando dei bossoli all’esterno dell’abitazione.

La brutale irruzione e occupazione con chiusura delle filiali delle Poste della Serbia in Kosovo è la prosecuzione del piano di pulizia etnica del nord del Kosovo Metohija e di tutto ciò che ha radici serbe. L’azione è stata condotta in nove località del nord del Kosovo con la motivazione che sarebbero illegali, non registrati e senza licenza... dopo 25 anni di normale funzionamento! Questa ennesima azione provocatoria, viola anche gli accordi sanciti a Bruxelles nel 2015 sotto gli auspici dell’Unione europea, e quindi compromette l’intero dialogo i cui effetti vengono annullati, minando così la sua già scarsa autorevolezza e reputazione.

L’abolizione dei servizi postali dopo l’abolizione del dinaro rappresenta il colpo più duro al funzionamento delle istituzioni serbe e all’erogazione dei servizi ai cittadini in queste zone.

Tutti i partiti politici dei serbi del Kosovo condannano la proposta di apertura del ponte principale sull’Ibar al traffico, ritenendo che questa azione contribuirà ad un ulteriore allontanamento della popolazione serbo kosovara. Negli anni precedenti proprio in questo luogo sono avvenuti omicidi, scontri anche armati e incidenti. La popolazione serba ha paura di una ulteriore pulizia etnica e di una invasione della parte albanese.

Anche i continui attacchi e provocazioni contro la SRPSKA (Rep. Serba di Bosnia), sono parte del disegno di piegare la Serbia e minare la fratellanza del popolo serbo nei Balcani.

Cosa c’entra il ministro della Difesa della Bosnia-Erzegovina, Zukan Helez, con Valery Zaluzhny, attuale ambasciatore dell’Ucraina a Londra, ci sarebbe da chiedersi. C’entra eccome ed è nodale. Helez dichiara che, per preservare la pace, sia necessario prepararsi sistematicamente alla guerra. Questo è quello che fa, e ancor di più ne parla, inviando messaggi minacciosi a un potenziale nemico la cui identità, in base alle opinioni politiche e ai messaggi del ministro, non è difficile da indovinare: i serbi di Bosnia. Helez, per convincere nel modo più chiaro possibile i cittadini della Bosnia ed Erzegovina che non corrono alcun pericolo, non si è limitato a sottolineare la stretta collaborazione con l’EUFOR e la NATO, ma ha anche parlato in modo criptico con “alcune forze di certi paesi”, che sono già disponibili e pronti ad agire, se necessario. Secondo quanto ha affermato, queste “forze di alcuni paesi” sono disponibili sulla base della sua attività di lobbying con quei paesi amici, su base bilaterale, e non sono subordinate all’EUFOR o alla NATO, ma ai propri comandi. Non ha voluto dire di più, ma già ha detto tanto. La parte serbo bosniaca ha chiesto se la Presidenza della Bosnia-Erzegovina ne sa qualcosa. Possono i cittadini della Bosnia-Erzegovina, soprattutto diverse centinaia di migliaia, essere calmi e pacifici, se vengono loro raccomandate “alcune forze di alcuni paesi” come fattore di protezione dalla posizione ufficiale dello stato bosniaco?

Non appena ha assunto l’incarico di ambasciatore ucraino in Gran Bretagna, l’ex comandante in capo delle forze armate ucraine, Valery Zaluzhny, l’“amico” di Helez, si era affrettato a dare ai padroni di casa, all’Occidente e al mondo intero, soluzioni istruttive e generalmente valide dalla sua esperienza in tempo di guerra, che pervengono alla conclusione che, per raggiungere la pace bisogna passare attraverso la guerra, per la quale tutti gli stati democratici dovrebbero prepararsi. Ma egli sottoilinea che la cosa più difficile è preparare la società, cioè i cittadini, alle inevitabili privazioni: “Forse la componente più difficile e importante è la preparazione della popolazione... Per il bene della propria sopravvivenza, la società deve accettare di rinunciare temporaneamente ad alcune libertà...”.

Anche, nel territorio dell’ex Jugoslavia, c’è un Zaluzhny locale, è il ministro della Difesa della Bosnia-Erzegovina Zukan Helez che, quanto a protagonismo mediatico eclissa il generale-diplomatico ucraino. Helez negli spettacoli televisivi indirizza sempre la conversazione sulla valutazione dell’esistenza di una reale minaccia alla pace in Bosnia ed Erzegovina, con riferimento alle intenzioni separatiste della Repubblica Srpska, con accenni a possibili divisioni, puntando le accuse su Milorad Dodik, il leader dei serbo bosniaci.

I cittadini della Bosnia-Erzegovina non devono preoccuparsi della sicurezza del loro paese poiché hanno un ministro della Difesa così influente e amico dello stratega ucraino Zaluzhny, definito “filo bosniaco”? Quando recentemente un plotone di cadetti serbi disarmati e anziani hanno sfilato per Prijedor in occasione della commemorazione della battaglia partigiana di Kozara, e si sono recati anche a Bratunac per deporre fiori alle vittime antifasciste di Podrinje, questa visita debitamente annunciata ha causato diverse reazioni isteriche nelle autorità bosniache, come se l’occupazione del territorio della Bosnia-Erzegovina fosse quasi in atto.

Secondo quanto ha affermato lo Zaluzhny bosniaco, quelle “certe forze di alcuni paesi” sono arrivate sulla base della sua attività di lobbying con quei paesi amici, su base bilaterale. Chi sono e quante sono? A cosa servono?

Quando si tratta della vicina Serbia, ad esempio, non ha permesso che gli elicotteri serbi del MUP contribuissero a spegnere gli incendi in Erzegovina, perché riteneva che ciò fosse “una mancanza di rispetto” per lo Stato della BiH e delle sue forze armate. Mentre, d’altro canto, informa tranquillamente l’opinione pubblica bosniaca che misteriose e operativamente capaci “forze di alcuni paesi amici” sono già di stanza sul territorio della stessa BiH...

Anche queste campagne allarmistiche e minacciose fanno parte di un progetto di indebolimento e isolamento della Serbia e del popolo serbo, ventilando scenari di guerra o invasioni esterne, additando i leader serbi attuali, votati dalla propria gente, come un pericolo per il mondo “libero e democratico”.

In questi scenari di fatti ed eventi non certo latori di orizzonti pacifici e conciliatori, in queste settimane è esplosa anche la questione LITIO ed il progetto di sfruttamento nella regione serba di Jardar. Una situazione complessa, delicata e che potrebbe essere disarticolante, ma certamente è duramente controversa all’interno degli scenari sociali e politici serbi. Ma di questo tratterò in un prossimo lavoro.

Per chi osserva e conosce dall’interno il paese balcanico, il suo popolo e la sua società, sono ormai delineate chiaramente le direttrici concrete su cui si realizza il progetto destabilizzatore occidentale. QUESTA è la situazione e le problematiche che assediano il governo ed il popolo serbo, e non sono di poco conto per un paese e uno stato. Anche perché hanno come obiettivo finale strategico, sferrare il colpo fatale e portare alla soluzione finale la questione Serbia “indipendente e sovrana”.

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12/08/2024

Serbia - Proteste di massa contro l’estrazione di litio per la Rio Tinto

Stanno resistendo alla svendita del paese: sabato, decine di migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale serba Belgrado. Gli organizzatori, varie iniziative ambientaliste e attivisti, hanno parlato di 40.000 partecipanti. Tra le altre cose, la stazione ferroviaria principale è stata occupata e alcuni i manifestanti sono stati arrestati dalla polizia. Sono state le proteste più grandi da molto tempo a questa parte.

Lo sfondo è l’estrazione pianificata di litio vicino alla città di Loznica. Lì, nella valle del fiume Jadar, si sospetta che ci siano grandi giacimenti di metallo leggero. Da decenni questo suscita i desideri della compagnia mineraria britannico-australiana Rio Tinto, ma anche dell’industria automobilistica dell’UE e dei governi di Berlino e Bruxelles che agiscono per suo conto, perché la mobilità deve essere elettrificata – a scapito dell’ambiente – cosa che non è possibile senza batterie al litio.

Al fine di mettere tutto a posto contrattualmente, il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è recato a Belgrado il 19 luglio con i dirigenti di importanti case automobilistiche. Il progetto è redditizio anche per la Serbia, almeno secondo il Presidente Aleksandar Vučić. Verrà creata un’intera catena del valore che comprende posti di lavoro ben retribuiti, dall’estrazione mineraria alla produzione di batterie fino al riciclaggio.

Ma i cittadini non vogliono proprio credergli, soprattutto quelli che vivono nella regione dove la materia prima deve essere estratta dalla terra. Temono la distruzione irrimediabile della natura e quindi del loro sostentamento nell’area agricola.

Studi scientifici dimostrano che i manifestanti hanno ragione. Vučić e Rio Tinto ribattono con contro-studi e affermano che tutto sarà svolto secondo i più alti standard ecologici. Ma le promesse non sono servite a nulla finora. La popolazione contraria all’estrazione del litio era già scesa in piazza una volta.

Nel gennaio 2022, Vučić ha dovuto interrompere il progetto per questo motivo. All’inizio di luglio una sentenza della Corte costituzionale ha spianato nuovamente la strada, ma anche le proteste sono ricominciate.

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17/05/2024

Luci e ombre del viaggio di Xi in Europa

Xi Jinping è tornato in Europa a distanza di quasi cinque anni dalla sua ultima visita nel vecchio continente. L’agenda del presidente (dal 5 al 10 maggio in Francia, Serbia e Ungheria) ha rivelato sia le profonde differenze di politica estera tra i governi europei, sia quelle tra questi ultimi e gli Stati Uniti.

Sebbene in misura diversa, ciò che accomuna Parigi, Belgrado e Budapest è infatti il non completo allineamento alla strategia del “de-risking” della Commissione Europea e Washington, ed è proprio su questo che Xi ha fatto leva per rivolgersi all’Europa, provando a “depoliticizzare” i rapporti economici e commerciali dell’Ue con la Cina.

Francia, l’autonomia strategica di Macron

Xi ha sempre visto di buon occhio l’approccio euro-securitario del presidente francese, Emmanuel Macron, che ha come obiettivo quello di costruire una “autonomia strategica” per l’Europa. La soluzione francese di sicurezza e difesa europea allontanerebbe l’Unione dagli Stati Uniti, la renderebbe più indipendente in termini strategici e la trasformerebbe in un interlocutore autonomo.

Dunque, nel bilaterale Xi-Macron ampio spazio è stato dato alle questioni internazionali. I due governi hanno tra l’altro pubblicato una dichiarazione congiunta sul conflitto a Gaza nella quale si chiede il cessate il fuoco e il rilancio della soluzione dei due Stati (Israele e Palestina).

A Pechino, Macron vanta il titolo di “vero interlocutore europeo”, è questo il motivo per cui la missione di Xi è partita proprio da Parigi. Assieme a Macron Xi ha partecipato a un trilaterale con la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, durante il quale sono stati affrontati temi maggiormente di natura commerciale, energetica e industriale.

In attesa del verdetto dell’inchiesta della Commissione sui “sussidi illegali” alle auto elettriche cinesi importate nella Ue – che potrebbe portare a un aumento dei relativi dazi già dal prossimo mese di luglio – la Presidente von der Leyen ha espresso ancora una volta la preoccupazione dell’esecutivo comunitario per l’eccesso di capacità produttiva dell’industria cinese e per la dipendenza dalla Cina per materie prime critiche.

La Cina e la Francia hanno firmato una serie di accordi di cooperazione tra agenzie governative in settori tra i quali l’aviazione, l’agricoltura, lo sviluppo ecologico e la cooperazione tra PMI. È stata inoltre rafforzata la cooperazione Parigi-Pechino nel settore agricolo e nell’intelligenza artificiale.

Serbia, via i dazi dal 95 per cento dell’interscambio

Il 7 maggio 1999 la NATO, nell’ambito dell’operazione “Allied Force” contro la Jugoslavia, bombardò l’ambasciata cinese a Belgrado, uccidendo tre giornalisti cinesi. Quando Xi ha incontrato il presidente Aleksandar Vučić ricorreva esattamente il XXV anniversario di quel tragico evento.

Per la Cina, è stata un’occasione per mandare un messaggio agli Stati Uniti e alla Nato, ribadendo l’invito ad abbandonare la “mentalità da guerra fredda”. Secondo Pechino, la mentalità del secolo scorso non si presta al superamento delle attuali sfide globali, ma, al contrario, alimenta divisione e antagonismo.

Xi Jinping ha espresso l’approccio “alternativo” della Cina in una serie di documenti programmatici, tra cui “A Global Community of Shared Future: Proposals and Actions” pubblicato a settembre dello scorso anno.

Dunque, da un lato la critica alla NATO – e a Washington – dal luogo simbolo par excellence, e dall’altro la dimostrazione degli ottimi rapporti con Belgrado. Anche da un punto di vista economico e commerciale, Xi e Vučić hanno firmato 29 importanti accordi. In particolare, all’interno del partenariato denominato “futuro condiviso”, i due paesi hanno concluso un accordo di libero scambio, che entrerà in vigore il 1° luglio, che prevede l’eliminazione dei dazi su quasi il 95 per cento delle esportazioni della Serbia verso la Cina, nonché l’aumento delle esportazioni di prodotti cinesi.

Ungheria, avamposto della via della Seta nella Ue

In seguito all’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative (Bri), l’Ungheria resta uno dei pochi paesi europei all’interno del progetto strategico cinese. Le riunioni tra il premier Viktor Orbán e Xi hanno toccato temi di natura commerciale, industriale e infrastrutturale.

In particolar modo, nell’ambito della Bri è prevista la ricostruzione della ferrovia che collega Belgrado a Budapest (2,1 miliardi di dollari in gran parte finanziati da Pechino) e l’apertura di due stabilimenti di auto elettriche (di BYD e Great Wall Motors, quest’ultimo non ancora ufficializzato).

Ad oggi, l’iniziativa della nuova via della Seta continua in Europa a livello bilaterale attraverso quei paesi, come l’Ungheria, che non sono allineati con Washington per quanto riguarda la politica sulla Cina. Xi e Orbán, in questa occasione, hanno firmato una serie di accordi commerciali su infrastrutture, ferrovie, energia nucleare, economia digitale e intelligenza artificiale.

Tra i tanti progetti vi è la realizzazione dell’impianto per le batterie a litio di CATL e di una linea ferroviaria che collegherà Budapest all’aeroporto. In vista della presidenza di turno ungherese dell’Unione europea (dal prossimo 1° luglio) il legame tra i due paesi è stato elevato a partnership strategica “per ogni stagione”.

Dove vanno Pechino e Bruxelles

Il viaggio di Xi e gli incontri bilaterali hanno offerto una visione d’insieme della politica estera di Pechino nei confronti dell’Europa. Da un lato, la Cina nel dopo-pandemia ha messo in campo un grosso sforzo diplomatico per ristabilire i legami con un’Unione Europea nel complesso decisamente diffidente nei confronti di Pechino.

Dall’altro lato, nelle relazioni con Bruxelles continua a pesare come un macigno il posizionamento della Cina nei confronti della guerra in Ucraina – che dalla Cina viene definita “crisi”.

È indubbio che la Cina abbia pianificato il tour europeo per raggiungere obiettivi strategici. Nello specifico:
1) sanare le relazioni con l’Europa danneggiate dalla quasi-alleanza sino-russa;
2) mitigare l’agenda di sicurezza economica dell’UE nei confronti della Cina;
3) dare prova dei solidi legami di Pechino con i suoi partner storici Serbia e Ungheria.

Se limitatamente a quest’ultimo punto il viaggio di Xi può ritenersi un successo, per raggiungere i primi due obiettivi non può essere bastata la trasferta del presidente. Infatti finché continuerà la guerra in Ucraina, le strette relazioni con Mosca – che Pechino non intende allentare, perché animate dal comune timore per i “regime change” promossi dagli Usa – non potranno che continuare a influire molto negativamente su quelle tra Pechino e Bruxelles.

Mentre per quanto riguarda il cosiddetto “de-risking”, bisognerà attendere le prossime settimane e i primi risultati dell’inchiesta della Commissione sulle auto elettriche per capire che risultati avrà ottenuto il pressing di Pechino.

Le relazioni tra Cina e UE sono sempre in divenire e il dialogo tra Pechino e Bruxelles in corso, per questo l’importanza delle visite di Stato del Presidente Xi sta nell’aggiungere tasselli al grande puzzle delle relazioni sino-europee per giungere ad un livello di cooperazione tale da sradicare il concetto di “minaccia cinese”.

A differenza del dialogo con gli Stati Uniti però, quello con l’Ue è bidirezionale e differenziato a seconda delle politiche da trattare. Infatti, sebbene ufficialmente esista una posizione europea sulla Cina (in linea con quella di Washington), gli stati membri costruiscono relazioni diplomatiche, economiche e commerciali bilaterali con la Cina, in quanto la politica estera resta appannaggio degli stati membri.

A dicembre scorso, il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) ha pubblicato una sintesi intitolata “EU China Relations” che, riprendendo le parole della Commissione Europea nello Strategic Outlook del 2019, esordisce così: “L’UE vede la Cina come un partner per la cooperazione, un concorrente economico e un rivale sistemico.”

I principali terreni di scontro sono la posizione della Cina sulla guerra d’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, il mercato, gli investimenti, i diritti umani e i principali temi di politica estera e di sicurezza.

Per Pechino, però, gli aggettivi usati dall’Ue per definire la Cina sono incoerenti con la realtà dei fatti. Invero, come afferma il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, queste etichette – partner, concorrente e rivale sistemico – causano inutili distrazioni e contribuiscono a incrinare i rapporti.

«È come guidare fino ad un incrocio e trovare le luci rosse, gialle e verdi tutte accese allo stesso tempo. Come si fa a proseguire?», ha dichiarato Wang. Al contrario, per la Cina l’unica etichetta corretta è quella di “partner” poiché lo sviluppo dei Paesi è vantaggio reciproco e il multilateralismo è la chiave per facilitare il dialogo tra civiltà differenti.

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10/05/2024

Xi Jinping in Europa, tra diplomazia e commercio

Dopo cinque anni, il presidente della Cina Xi Jinping è tornato in Europa per tre tappe decisamente significative – Francia, Serbia e Ungheria – tutti paesi che con Pechino hanno interesse a dialogare, sia sul piano della diplomazia internazionale, sia su quello strettamente commerciale.

Sui media occidentali è stato ribadito a spron battuto che la missione cinese aveva lo scopo di “dividere la UE”, giocando su paesi che hanno interessi a esprimere una posizione non allineata con Bruxelles. È una narrazione che fa comodo a dipingere la Cina come il nemico, ma non risponde alla realtà.

Di sicuro i luoghi scelti per tornare in Europa palesano il tentativo di Pechino di allontanare Bruxelles dalla deriva bellicista della NATO e dall’inasprimento ulteriore della rivalità con la Cina. Ma, oltre al fatto che questo è un atto di responsabilità per la pace internazionale, l’utilità si può trovare anche nel campo occidentale.

Per ristabilire il senso di questo viaggio, bisogna innanzitutto ricordare che appena due settimane fa il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, era a Pechino e ha incontrato Xi Jinping. È l’ultimo di una serie di incontri e telefonate tra le prime due potenze economiche mondiali che risponde a una strategia di distensione che va avanti da almeno un anno.

Ciò non ha fermato le sanzioni ad alcune compagnie cinesi accusate di sostenere lo sforzo bellico russo. E anche se Washington vorrebbe scavare un solco più grande tra la UE e la Cina, anche nelle capitali europee il sostegno all’Ucraina rimane un punto fermo, come ricordato da Macron.

Con il presidente francese Xi ha avuto quello che è stato probabilmente il confronto più importante. Ma a ribadire come il sensazionalismo dei media nostrani non debba trarci in inganno, l’incontro non è stato a due, ma a tre: c’era anche la presidente della Commissione UE Von der Leyen.

Poco tempo fa Scholz si è recato in Cina e ha sostenuto gli interessi dell’industria tedesca, che non ha possibilità di disaccoppiarsi dall’economia del Dragone da un giorno all’altro. Anche se ciò può aver creato malumori in alcuni ambienti comunitari (quelli più filo-atlantici), ciò è ancora in linea col tentativo UE di assumere maggiore autonomia strategica.

Macron, che sta cercando di recuperare consensi in vista delle europee, accoglie Xi Jinping per mostrarsi come un attore di primo piano a livello internazionale. Ma lo fa comunque con accanto la Von der Leyen, a difesa del progetto imperialistico europeo.

E alla fine, sulla “guerra mondiale a pezzi” che osserviamo dall’est Europa al Medio Oriente, non si sono osservate grandi novità. Gli interlocutori hanno ribadito la necessità di soluzioni diplomatiche, ciascuno con le proprie sfumature già ampiamente esposte in tutte le sedi che contano.

A dire il vero Xi Jinping ha concesso alcune novità: ha parlato di fermare la violenza “terroristica” e del rilascio di “ostaggi” – non di “civili detenuti”. Il rappresentante cinese alla Corte Internazionale di Giustizia aveva sostenuto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi contro la colonizzazione, che non deve essere considerato come terrorismo.

Anche qui si nota la geometria variabile delle dichiarazioni, l’ultima più adatta al contesto europeo e funzionale alla convergenza diplomatica. Cautela che, anche in questo caso, non è nuova all’atteggiamento cinese, ma bisognerà vedere se ciò si tradurrà in qualcosa di concreto.

Macron ha comunque portato a casa anche il sostegno alla cessazione delle ostilità durante le Olimpiadi di Parigi, dal 26 luglio all’11 agosto. Una carta peculiare da giocare sui tavoli internazionali, ma unica sostanziale aggiunta, oltre alla contrarietà all’attacco a Rafah, rispetto alle posizioni ripetute da mesi dai vari attori coinvolti.

Di certo, invece, il piano economico risulta più interessante. Francia e Cina hanno firmato 18 documenti di cooperazione bilaterale in settori quali lo sviluppo verde, l’aviazione, l’agroalimentare, il commercio e gli scambi interpersonali.

Parigi spera di esportare più prodotti agricoli, e Pechino spera che con essi arrivino anche quelli hi-tech, con evidente riferimento alle sanzioni statunitensi. Ma allo stesso tempo sembra che già da questo mese possano arrivare anche i dazi europei sulle automobili elettriche cinesi.

Le Monde ha da poco riferito che i porti di Anversa e Zeebrugge sono inondati di vetture elettriche made in China, con importanti ripercussioni sui prezzi di mercato. Xi Jinping stesso ha affermato che il “cosiddetto ‘problema della sovracapacità cinese’ non esiste” per i profitti europei e per le condizioni della domanda globale.

Alla fine, questi sono stati i nodi anche delle altre due tappe. In Serbia il segretario del più grande partito comunista al mondo è arrivato il giorno del 25esimo anniversario del bombardamento NATO dell’ambasciata cinese di Belgrado, mandando un evidente segnale sulla minaccia alla pace rappresentata dagli euroatlantici.

Ma ad ogni modo, la Serbia rimane candidata all’ingresso nella UE, nonostante i suoi rapporti con Mosca. E la Cina è il suo secondo partner commerciale (dopo la UE, appunto), col presidente Vučić che ha chiuso con la delegazione cinese altri 30 accordi commerciali.

Anche in Ungheria Xi Jinping ha sicuramente strizzato l’occhio a chi, seppur in maniera strumentale, non è completamente allineato con lo scontro a tutto campo con Putin. Ma anche a Budapest si è parlato di investimenti e collaborazioni: 16 nuovi accordi firmati.

Con l’occasione è stato anche annunciato un “Partenariato strategico globale per tutte le stagioni nella nuova era“, una formula che per ora era stata usata da Pechino solo per il Pakistan. E Orban ha affermato che il suo paese “non si identifica con la retorica della ‘sovracapacità’ o del ‘de-risking'”, oltre a sostenere l’iniziativa di pace cinese per l’Ucraina.

In Ungheria la casa automobilistica cinese BYD sta completando una sua catena di montaggio, mentre CATL costruisce un impianto per produrre batterie capaci di far marciare un’auto per 1.000 km. Altri fondi si prevede arriveranno per l’unico paese UE rimasto nella Belt and Road Initiative, dopo il ritiro dell’Italia.

Quello a cui assistiamo è una partita a scacchi. In questa fase di precipitazione internazionale, con interessi economici incrociati, i protagonisti della politica globale si muovono con cautela, posizionando i pezzi e tentando di ottenere o mantenere posizioni di vantaggio.

Non sarà un viaggio di Xi Jinping che cambierà la storia, per quanto allarmismo vogliano far passare i nostri giornali. Di certo, inserirlo nella cornice dell’evidente crisi economica e di egemonia dell’Occidente, con la sua conseguente deriva bellicista, ci può aiutare a comprendere la dinamica storica in cui siamo immersi.

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26/12/2023

Serbia - Dopo le elezioni la Nato prova il “Maidan”

Il 17 dicembre si sono svolte in Serbia le elezioni parlamentari e locali. Secondo i dati della Commissione elettorale repubblicana del paese, la coalizione del Partito progressista serbo (SPP), al governo, con la lista “Aleksandar Vucic – La Serbia non deve fermarsi”, ha vinto le elezioni per il Parlamento della Repubblica avendo ottenuto il 48.02 % dei voti.

La coalizione dell’opposizione filo occidentale “Serbia contro la violenza” ha ottenuto il 24.23 %. Al terzo posto si colloca il Partito Socialista Serbo (già in alleanza e nel governo Vucic) con il 6,74 %. Segue NADA/ Alternativa Democratica Nazionale, altra forza di opposizione conservatrice, monarchica ed europeista, con il 5.18 %.

La vera sorpresa è stata la lista “NOI. La voce del popolo” guidata dallo stimato dottor Branimir Nestorovic con il 4.82 %, una nuova formazione che si colloca criticamente su alcuni aspetti, ma rifiuta fermamente ingerenze e pressioni per la svendita del paese a interessi stranieri e difende la sovranità nazionale. Oltre alle liste delle minoranze nazionali.

Oltre alle elezioni anticipate del parlamento nazionale, si sono svolte anche elezioni comunali in 65 città e regioni, tra cui Belgrado e la regione autonoma della Vojvodina . Al voto hanno partecipato 6.500.666 elettori registrati, quasi il 60% degli aventi diritto. Quasi ovunque i risultati hanno rispecchiato le elezioni nazionali.

Il 1° novembre il presidente serbo Aleksandar Vucic aveva annunciato lo scioglimento dell’Assemblea nazionale della Serbia e fissato elezioni parlamentari anticipate, sotto la spinta dell’opposizione legata all’occidente, che pensava ad un crollo delle forze di governo.

Molto importanti e significativi sono stati i risultati degli elettori del Kosovo, che è il cuore di tutte le problematiche statali e di politica internazionale della Serbia in questa fase. Una questione che riguarda il futuro e il destino della stessa Repubblica Serba.

La lista “Aleksandar Vucic – La Serbia non deve fermarsi” ha ottenuto il 71,56% dei voti dei serbi del Kosovo, nel 2022 aveva ottenuto il 64,04. Il secondo partito più grande tra i serbi in Kosovo, in termini di voti, è il Partito socialista serbo, che ha raccolto il 9,42% dei voti. L’Assemblea nazionale (Dveri e Oathkeepers) ha ottenuto il 2,69%, mentre la coalizione NADA, composta dal Partito della Nuova Democrazia serba e dal Movimento per la restaurazione del Regno di Serbia, ha ottenuto 3,78 voti.

La coalizione “Serbia contro la violenza” ha ottenuto il 4,36%, mentre la lista “Noi – la voce del popolo“, guidata dal dottor Nestorovic, ha ricevuto il 2,42%, ovvero 579 voti dai serbi del Kosovo. Tutte le altre liste hanno ottenuto meno dell’1% dei voti.

Maidan serbo

Subito dopo la netta sconfitta che, matematicamente, non lascia margini di dubbi, ecco che si è scatenato nella capitale, in perfetto modello Maidan, pianificato, preparato e organizzato, il tentativo violento e fascista di rovesciare gli esiti elettorali e portare la Serbia in una sorta di guerra civile e nelle braccia accoglienti di USA, UE e NATO, che senza ombre di dubbi, attraverso le loro intelligence radicate nel paese, le ambasciate e i media a loro asserviti, sono i veri burattinai.

Già lo scorso anno avevo denunciato con tanto di foto, i rapporti tra i leader dell’opposizione a colloquio con capizona locali della CIA. Non una opposizione critica ma patriottica e nazionale, presente anche nelle elezioni, con buoni risultati, ma quella finanziata, diretta e coordinata, anche in modo spudorato, dalle forze straniere e occidentali.

Con il solito schema delle “rivoluzioni colorate” natoidi, accusando di brogli, di falsificazioni e chiedendo l’annullamento delle elezioni, portano in piazza alcune migliaia di manifestanti e scatenano violenze, assalti, devastazioni, cercando vittime per poi rovesciare l’assetto istituzionale e nel caos e nella violenza cercare di assumere il controllo del paese. Ma stavolta non ci stanno riuscendo.

Il presidente legittimo della Serbia Vucic, nella notte ha parlato al paese, con un discorso netto e duro, dove ha rassicurato i cittadini serbi che “ non devono preoccuparsi perché a Belgrado non è in corso alcuna rivoluzione popolare e che lo Stato arresterà e consegnerà alla giustizia tutti i rivoltosi davanti all’Assemblea cittadina…Le scene sono drammatiche… ma non c’è nessuna rivoluzione in corso e niente di tutto questo funzionerà per loro. Stiamo cercando di non ferire nessuno dei manifestanti casuali con una reazione violenta“.

Ha aggiunto che “…da tutte le parti della Serbia, anche dal Kosovo, sono arrivate “migliaia di chiamate” di cittadini che vogliono venire a Belgrado e difenderla, ma ho detto loro di non farlo perché il Paese è forte per reagire. … Coloro che avevano giurato di lottare contro la violenza hanno dimostrato che la violenza è il loro unico modo di combattere e che vogliono distruggere le nostre città…”.

Vučić ha anche denunciato che “…tali avvenimenti provengono da un “fattore esterno”…Grazie a qualche intelligence straniera che ci aveva avvertito di cosa stava succedendo e hanno fornito informazioni al riguardo ai nostri servizi… Infatti, “stranamente”, in altre città hanno cominciato a festeggiare e a parlare della “rivoluzione vittoriosa che è in corso a Belgrado.

Il che dimostra che gli eventi di stasera nella capitale della Serbia non sono solo il prodotto di azioni e stupidità interna, ma circostanze geopolitiche molto più gravi in cui si cerca di far crollare l’indipendenza e la sovranità della Serbia. Ma queste forze sappiano che preserveremo la libertà della Serbia, perché è il nostro valore più alto.

Preserveremo l’indipendenza e la sovranità della Serbia. Difenderemo la Serbia, chiedo solo ai cittadini di preservare la pace. Non si ripeterà il 2000…State calmi, il Paese è sicuro e noi non permetteremo che lo distruggano. Preserveremo la nostra patria, lunga vita alla Serbia, lunga vita alla libertà…”, ha concluso Vucic.

Il milionario Dragan Đilas, già sindaco di Belgrado, è stato smascherato dall’FSB russo. Il Presidente serbo A. Vučić ha denunciato il suo ruolo, rivelando che i servizi russi hanno fornito precise informazioni a quelli serbi sulla preparazione degli incidenti a Belgrado già prima degli esiti elettorali, e ha annunciato che nelle prossime settimane, rivelerà i dettagli sull’ingerenza di uno stato straniero e dei suoi Servizi, nel processo elettorale in Serbia prima e dopo le elezioni nel paese.

Dragan Đilas, noto come una colonna interna dell’eurofanatismo in Serbia, è tra i protagonisti e capi delle manifestazioni violente nella capitale.

Anche la prima ministra della Serbia Ana Brnabić, ha rivelato che i servizi di sicurezza russi hanno fornito a Belgrado informazioni sulla preparazione degli scontri nella capitale, allo stesso tempo ha sottolineato che “agli occidentali non piaceranno le conseguenze…Posso solo dire grazie alla Russia, probabilmente non sarò popolare tra gli occidentali, ma soprattutto stasera sento che è importante difendere la Serbia e ringraziare i servizi di sicurezza russi che avevano queste informazioni e che le hanno condivise. con noi..”, ha detto la Brnabić alla TV Pink.

Ciò che sta accadendo a Belgrado presenta la metodologia di quella che di solito viene chiamata rivoluzione colorata o “Maidan”. Rifiuto dell’opposizione di accettare i risultati elettorali con uno sciopero della fame dimostrativo, proteste costantemente rinnovate con blocchi stradali, assedi e attacchi alla commissione elettorale con l’ostruzione ai suoi dipendenti.

Immediato sostegno ai manifestanti da parte delle ONG occidentali e atteggiamento compiacente da parte dei governi occidentali. Slogan in inglese per i telespettatori della BBC, della CNN, ecc.

Marcata campagna di propaganda contro la “dittatura” del potere, che è “controllato dalla Russia”. Abbiamo visto tutto questo più di una volta. L’attuale situazione serba è come uno standard. La prima ministra della Repubblica, Anna Brnabic, lo afferma direttamente: “Hanno pianificato un Maidan a Belgrado per arrivare al potere attraverso una “rivoluzione colorata”, ma non funzionerà…”.

Alcuni analisti hanno comunque sottolineato un aspetto che potrebbe non essere determinante, ma gravare nelle dinamiche conflittuali di questo Maidan serbo. Ed è la presenza di molte migliaia di cittadini russi ed ucraini, scappati da Mosca o dalla guerra, con forti sentimenti russofobi e filo occidentali.

Non potranno diventare i capi del “Maidan” a causa della loro scarsa conoscenza della lingua serba, ma possono fornire la scintilla che può portare ad una catena di violenza e di caos. Proprio il ruolo che l’opposizione serba sembra essere chiamata a svolgere.

Va sottolineato che la decisione di indire una votazione anticipata non era stata dettata da una situazione politica di crisi del Paese, infatti le ultime elezioni parlamentari si erano svolte nella primavera del 2022, insieme alle elezioni presidenziali. Vučić era stato rieletto al primo turno per un secondo mandato, ottenendo un numero record di voti, e il suo Partito progressista serbo (SPP), insieme al Partito Socialista Serbo e altre forze minori, avevano formato il governo del paese.

Nonostante questo, stante la delicata situazione relativa alla questione Kosovo, Vučic e il governo serbo, continuamente pressati, minacciati, ricattati sia dalle forze interne di opposizione legate all’occidente, che dai paesi occidentali, hanno deciso di soddisfare le richieste e di misurare il seguito del governo tra la popolazione con un nuovo voto. E’ evidente che un passo politico del genere viene fatto solo se si è sicuri in una vittoria.

Nella campagna elettorale, l’opposizione legata alle forze straniere, ha incentrato tutto contro la figura del presidente, con attacchi continui, anche personali e di dileggio.

Mentre, secondo gli esperti, nella vittoria del partito al potere hanno giocato un ruolo importante la politica serba nei confronti di Mosca e l’equilibrata politica estera di neutralità di Belgrado, questo ha influenzato i risultati elettorali. E’ risaputo che oltre il 75% dei serbi sostiene la Russia, per motivi politici ma anche storici e di radici comuni, culturali e spirituali.

Ricordiamo che l’opposizione aveva detto prima delle elezioni del 2022, che Vucic avrebbe introdotto sanzioni contro Mosca subito dopo la fine delle votazioni. È passato più di un anno e mezzo e questo ancora non è successo e gli elettori lo hanno rilevato, nonostante le quotidiane pressioni e ricatti.

In realtà all’occidente interessava solo raggiungere un numero sufficiente di deputati in grado di garantire poi una approvazione parlamentare per far riconoscere il Kosovo come stato indipendente. Infatti il riconoscimento del Kosovo, oltre alle sanzioni anti russe, sono la condizione principale per l’adesione della Serbia alla Ue e alla NATO. Per ora gli è andata male.

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03/10/2023

Il Kosovo e la Serbia scivolano verso la guerra?

Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, membri della polizia del Kosovo, hanno tentato di rimuovere le barricate erette da un gruppo di serbi armati, all’ingresso del villaggio di Banjska. Sono seguiti violenti scontri a fuoco per tutta la giornata con 500 uomini delle KPS, Forze Speciali Kosovo.

Poi sul terreno sono rimasti uccisi quattro serbi (tre assassinati da cecchini) e un poliziotto albanese. Ecco dove hanno portato le politiche terroristiche e vessatorie contro la popolazione serba kosovara del fanatico sciovinista Albin Kurti, reggente le autorità illegittime di Pristina e le strategie de stabilizzatrici della NATO e degli USA.

La guerra è sempre più all’ordine del giorno e potrebbe essere devastante per tutti i Balcani e non solo.

Il quarto serbo assassinato è stato ritrovato a 1,5 km dal luogo degli scontri.

Premettendo che la dinamica complessiva della vicenda, degli obiettivi e delle finalità ha molte lacune e punti incerti e che forse, solo nei prossimi giorni o mesi si avranno risposte più certe, qui cerco solo di informare e documentare i fatti conclamati e provati, con grande cautela e attenzione, senza entrare negli aspetti tuttora dubbi o interpretabili sotto diverse e contrastanti letture.

Questo, per non incorrere in letture o interpretazioni personali o virtuali, che, come nel caso della crisi ucraina, poi si rivelano nei fatti scombinate. Saranno i prossimi eventi e passaggi fattuali ad avvicinarci agli aspetti più profondi e congrui, per ora non accertabili.

Pertanto qui espongo alcuni punti fermi e fatti che sono ad oggi fissati e riscontrati, utilizzando i contatti e le relazioni sul campo, queste sono sintesi e letture, di analisti, politici e militari serbi, tutte aperte a varie ipotesi in divenire, soprattutto politiche, come loro stessi confidano.

Nella notte di sabato 23 settembre, circa le 02:45, un gruppo, per la prima volta armato e molto bene equipaggiato di circa 30 cittadini serbi, ha installato due camion come barricate a Banjska, nel nord del Kosovo. Poi è arrivata la polizia del Kosovo, che ha cercato di rimuovere le barricate, da cui è nato un conflitto a fuoco.

Nel conflitto a fuoco è rimasto ucciso l’ufficiale di polizia A. Bunjaku e un’altra persona è rimasta ferita. E questo è un fatto accertato dai filmati, non è stato colpito a freddo o direttamente. Alle 08:37, i valichi amministrativi di Jarinje e Brnjak con la Serbia sono stati chiusi mentre gli scontri continuavano. Alle 10:15 è stato dato inizio alla “operazione antiterroristica”.

Il gruppo armato si è allora diretto verso il Monastero ortodosso, sfondando il portone con un loro veicolo blindato hanno occupato il cortile e si sono preparati a resistere a un attacco esterno. La dotazione e la quantità di armamenti hanno fatto pensare addirittura ad una lunga resistenza ad un assedio. Nell’arco di un’ora e mezza sul posto convergono circa 500 agenti delle Forze Speciali albanesi (quelli addestrati e armati dalla NATO e dagli USA, che non dovrebbero esistere secondo l’ONU...) e cominciano sparatorie a distanza.

L’ipotesi di una resistenza da assedio è legata, secondo alcuni esperti militari alla quantità di armamenti e dotazioni a disposizione, abbandonati e ritrovati poi nel cortile del Monastero. Un auto blindata, jeep, fuoristrada, moto quad, mine antiuomo, lanciarazzi portatili, dinamite, mitragliatrici, maschere antigas, oltre a grandi quantità di cibo, medicinali e altro.

Poi, mentre le sparatorie si intensificavano e i cecchini sono riusciti ad uccidere e ferire molti del gruppo operativo, qualcosa deve essere cambiato nella progettualità militare, e molti video ricostruiscono la ritirata sulla montagna retrostante la loro posizione, probabilmente prima di essere completamente circondati, ma lasciando molto materiale all’interno, oltre ai veicoli.

Questi sono ad oggi i fatti riscontrati e comprovati, per le interpretazioni, anche molto delicate e complesse, che questa azione ha prodotto, aspettiamo gli sviluppi documentabili.

Alcune considerazioni sono comunque inequivocabili, chi ha letto i miei articoli e documentazioni dell’ultimo anno sulla situazione nella regione, può trovare già lì molti riscontri e previsioni, non occorreva avere grandi doti intellettive particolari per delinearle o coglierle:

1) Le responsabilità di chi vuole, cerca, lavora strategicamente per propri interessi geopolitici, ad una situazione di conflitto permanente o poi dispiegato nella regione, con l’obiettivo primario della definitiva destabilizzazione della Serbia. Leggasi NATO e USA in primis.

2) Il totale fallimento e la conferma delle menzogne e falsità utilizzate nel 1999 per distruggere la RFJ. Gli obiettivi della NATO e della cosiddetta “comunità internazionale” occidentale, NON erano lo sviluppo e la pacificazione dell’area, visto che la condizione sociale e di vita della stessa popolazione kosovara è a livelli del Bangladesh (da dati ONU...) e le violenze, tensioni e criminalità, sono la vita quotidiana nella provincia serba, nonostante settemila e oltre militari KFOR ed Eulex. Oggi 24 anni dopo è sotto gli occhi di tutti

3) Questo è il prodotto delle politiche di Albin Kurti, un freddo e cinico prosecutore in doppio petto del sciovinismo guerrafondaio dei suoi predecessori dell’UCK. Fondato su una metodologia terroristica, sul razzismo antiserbo, sulla negazione della multi etnicità, multi religiosità e della multiculturalità e sul progetto della “Grande Albania”.

4) Ritengo che potesse essere prevedibile e umanamente comprensibile, al di là della politica, che, all’interno della Comunità serba kosovara, potesse nascere una componente che decidesse per una risposta disperata o meno, questo è un altro aspetto. Una scelta di Resistenza anche armata, di rifiuto nel vedere i propri diritti, i propri cari, il proprio presente colpiti e umiliati giorno per giorno da 24 anni, e senza alcuna prospettiva politica concreta di un futuro migliore.

Ventiquattro anni di una vita quotidiana nella provincia, fatta di assassinii, ferimenti, arresti indiscriminati, pestaggi, incendi, discriminazioni e vessazioni anche contro bambini, donne e anziani, colpevoli solo di essere di etnia serba, ed una frustrazione per la mancanza da parte di tutti nel trovare una soluzione negoziata ed equilibrata, sotto l’egida del Diritto internazionale.

Ora anche da dichiarazioni pubbliche in Serbia, di politici, analisti e militari, tra cui il presidente serbo, si sa che filtravano voci che indicavano da oltre un anno, che nella provincia serba, si stava organizzando una rete di Resistenza serba anche armata, alla violenza e alle umiliazioni subite quotidianamente da ventiquattro anni.

Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić in un discorso alla nazione la sera del 24 settembre ha detto:
“Cosa è successo veramente? I serbi del Kosovo e Metohija si sono ribellati, non volendo subire più il terrore di Kurti. Cosa è successo a Banjska? Una cosa incredibile: in appena un’ora e venti minuti, quelle decine di serbi sono stati circondati, ed è stato effettuato un attacco brutale contro di loro.

Hanno dato a Kurti carta bianca per affrontare i rivoltosi, da quel momento sono stati uccisi tre serbi, due di loro sono stati sicuramente uccisi dal fuoco dei cecchini, quando non era necessario che venissero uccisi, altri due sono rimasti gravemente feriti e si teme che sia stata uccisa anche una quarta persona.

Hanno usato i cecchini anche per attaccare case private, dove c’erano degli anziani. Da chi sono stati mandati lì, perché non è intervenuta la KFOR o Eulex? Non voglio giustificare l’uccisione di un poliziotto albanese, è riprovevole e nessuno ne aveva bisogno, men che meno il popolo serbo, soprattutto nel momento in cui tutti si sono resi conto che Kurti è il principale organizzatore del caos e non c’è troppo da girare intorno al problema.

Chiediamo a Pristina di rendere pubblici i filmati che hanno registrato i vari momenti, noi non abbiamo paura della verità, se loro non lo faranno significherà che sono loro a temerla.

Hanno scritto che pellegrini e monaci erano tenuti in ostaggio o addirittura complici. Questo per attaccare la Chiesa ortodossa serba, il che è anch’essa una menzogna.

Kurti è l’unico colpevole. L’unico che vuole conflitti e guerre. Nessuno vuole la guerra tranne lui e chi lo manovra. Il desiderio della sua vita è trascinarci in una guerra con la NATO, non ha altra ambizione. E questa è l’unica cosa che fa in giro per il mondo.

Invito la comunità internazionale ad adempiere alle condizioni concordate all’ONU e a formare il Consiglio delle Comunità Serbe, nonché ad avere i poliziotti serbi nel nord, perché questo è l’unico modo per evitare che i serbi vengano perseguitati dai loro focolari secolari e per preservare la pace.

Hanno sempre cercato un motivo per accusare la Serbia di qualsiasi cosa finché non riconosciamo l’indipendenza del Kosovo, questa è la sostanza: fare pressione sulla Serbia finché non riconosceremo l’indipendenza del Kosovo.

E allora lo ripeto per l’ennesima volta, qui davanti alla nazione e a loro: nonostante tutto quello che avete fatto finora, compreso quello che avete compiuto oggi, non riconosceremo mai il Kosovo indipendente. Potete ucciderci tutti, la Serbia non riconoscerà mai il Kosovo indipendente, la bizzarra creazione che avete fatto con tutte le bugie possibili.

Per noi, al di là di valutazioni e giudizi politici, i serbi morti nel conflitto con la polizia del cosiddetto Kosovo non saranno mai dei terroristi. Erano tutti padri di famiglia e uomini profondamente credenti e onesti, e saranno comunque onorati e considerati come caduti per la Serbia e la Patria.

Le nostre condoglianze vanno alle famiglie dei nostri fratelli serbi assassinati e anche a quella del poliziotto ucciso. Kurti è responsabile di tutto. Se non fosse stato per la polizia albanese, con quella serba, non sarebbe successo nulla. Nelle intercettazioni radio dei comandanti l’operazione, le battute erano ‘uccideteli tutti, i feriti possono anche morire, fate con calma’.

Una cosa è certa, il Kosovo non otterrà mai l’indipendenza, almeno non dalla Serbia. Non ho alcun problema, qualunque cosa facciano i fattori esterni. Nei prossimi giorni decideremo a mente fredda come e in che modo proteggeremo la popolazione”.
I serbi feriti nel conflitto a Banjska che si sono rifugiati in Serbia, hanno ricevuto le prime cure mediche presso l’Ospedale Generale di Novi Pazar, dopodiché sono stati trasferiti in altre strutture sanitarie. Come riportato dal giornalista di N1 si trovavano nel reparto di terapia intensiva del reparto chirurgico, uomini di età compresa tra 26 e 29 anni. Uno è stato ricoverato con ferite da arma da fuoco al braccio e alla gamba, mentre l’altro è stato colpito al petto, ma non aveva ferite da arma da fuoco perché era protetto da un giubbotto antiproiettile.

Il quotidiano Danas ha annunciato che lunedì tra le 12 e le 13, accompagnato dalla polizia, è stato ricoverato un altro ferito con una ferita da arma da fuoco alla gamba. Dopo le cure è stato trasferito in un’altra struttura sanitaria. Domenica i media hanno riferito che davanti al reparto chirurgico dell’ospedale Novi Pazar c’era una presenza visibile della polizia.

Il ministro degli Interni del Kosovo D. Svećlja ha detto che nell’ospedale di Novi Pazar ci sono sei aggressori feriti e ha chiesto alle autorità serbe di consegnarli. L’Ospedale Generale di Novi Pazar è l’istituzione sanitaria nel territorio della Serbia centrale più vicina al luogo del Kosovo dove è avvenuta la sparatoria. Da Rogozna si può prendere le strade forestali fino al centro di Banjska, e su quel percorso non ci sono attraversamenti amministrativi ufficiali.

In una sessione straordinaria, il governo serbo ha dichiarato il 27 settembre 2023 giorno di lutto nazionale in occasione dei tragici eventi in Kosovo e Metohija.

Cronaca dei soli ultimi venti giorni di ordinario terrore e violenza contro i serbi in Kosovo. Così vive da 24 anni la popolazione serba: 139 atti di violenza a sfondo etnico contro i serbi in Kosovo Metohija dall’inizio di quest’anno

La casa di Bosiljka Nojić (77 anni) a Gnjilan, vicino al cimitero cittadino, è stata presa a sassate e una finestra è stata rotta. Da sabato 16 settembre al 22, in questa cittadina del Kosovo Metohija ci sono stati quattro assalti con pietre alle abitazioni di serbi. Sabato 16 settembre la casa è stata attaccata con pietre, lunedì 18 settembre con immondizie.

L’anziana è disabile e vive con il genero. I Nojić sono rimpatriati, sono tornati nella loro città nel 2009 e sono l’unica famiglia serba in quella parte della città. Da quando sono tornati a Gnjilane sono stati bersaglio di molteplici attacchi da parte degli albanesi e la loro macchina era già stata bruciata negli scorsi anni.

Il 22 settembre un albanese ha aggredito con dei coltelli i figli del serbo Nenad O., mentre giocavano nel cortile di Mikro naselje a Mitrovica Nord, i bambini sono stati aggrediti mentre giocavano nel parco giochi. Una persona di nazionalità albanese ha estratto due coltelli e ha aggredito i bambini serbi, gridando minacce terrificanti. I bambini erano riusciti a scappare in un edificio vicino. Questo è il sedicesimo attacco contro i bambini serbi in Kosovo da novembre 2022.

Il 26 settembre intorno alle 22:30, le finestre della scuola elementare “Braća Aksić” di Lipljan, sono state prese a sassate, finestre rotte e danni materiali.

Nikola Elezovic, figlio di Ilija Elezovic, uno dei tre serbi arrestati pochi giorni fa, ha denunciato che la detenzione in cella, per la vita di suo padre, potrebbe essere fatale. Egli è malato di tumore e anche il medico albanese ha affermato nel rapporto, che tale paziente dovrebbe essere ricoverato in ospedale, ma il Tribunale e la Procura di Pristina lo hanno ignorato.

Lui sottolinea che dal momento dell’arresto fino ad oggi nessuno ha contattato la famiglia dell’arrestato.
“Né la polizia, né la procura, non conosciamo il suo stato di salute, l’unico contatto con lui è l’avvocato L. Pantovic, e le sue parole sono preoccupanti. Mio padre, era un rispettato cittadino di Kosovska Mitrovica, fuggito con la famiglia dal villaggio vicino a Vucitrn nel 1999 durante la guerra. Molto rispettato e apprezzato in città, come testimonia il numero di amici che chiamano e non riescono a credere a quello che sta succedendo.

Per noi è molto difficile, crediamo profondamente che l’accusa contro di lui di quei crimini di ventiquattro anni fa siano completamente falsi, egli ha sempre aiutato gli albanesi e tutte le persone che avevano bisogno di aiuto. Abbiamo contatti con molte persone, anche con albanesi che non credono a ciò, perché sanno che è un brav’uomo e vogliono aiutarlo”.
A Ranilug, nelle prime ore del mattino, sconosciuti hanno lanciato ordigni esplosivi contro tre case serbe. Non ci sono stati feriti, ma c’è paura tra le famiglie aggredite, così come tra la gente del posto.

Il vicesindaco di Ranilug, V. Aritonovic, ha detto che questo è il quinto ordigno esplosivo lanciato nel comune di Ranilug negli ultimi due mesi, aggiungendo che “i cittadini sono preoccupati e temono per la propria esistenza. Chiaramente, il motivo di questo attacco è l’intimidazione, perché non vedo nessun altro motivo per cui qualcuno dovrebbe lanciare un ordigno esplosivo contro la nostra gente pacifica. Questo è il quinto ordigno esplosivo che è stato lanciato negli ultimi due mesi a Ranilug e Glogovac”. Al momento di questi ignobili attacchi, intere famiglie erano nelle loro case, compresi i bambini.

Un ordigno esplosivo è stato lanciato anche contro la casa del direttore del Centro per i servizi sociali di Ranilug, Zoran Ristic, ma non è esploso. Una “brutale intimidazione nei confronti dei rappresentanti della Lista serba, che arriva solo pochi giorni dopo le minacce di Albin Kurti secondo cui i serbi e la Lista serba ‘soffriranno e pagheranno’. Kurti, ha cominciato ad attuare il suo piano prima arrestando tre serbi e ora sono state lanciate bombe contro case serbe”.

Nuovi arresti di serbi a Mitrovica Nord e Zvecan, il 20 settembre

A Mitrovica Nord è stato arrestato IE nelle prime ore del mattino, e a Zvecan è stato arrestato anche l’ex membro della polizia del Kosovo, DM. Secondo testimoni oculari, IE è stato fermato e portato via vicino alla Scuola Tecnica da membri delle forze speciali di polizia ed è stato messo in un veicolo che si è diretto verso Mitrovica sud. Il suo arresto è stato confermato dalla sua famiglia, che fino a questo momento non sa dove si trovi.

Nello stesso giorno è stato arrestato anche DM, ex membro della polizia del Kosovo. Secondo quanto riferito, è stato arrestato dalle forze speciali del Kosovo vicino a una fermata dell’autobus a Zvecan.

Arrestato un altro serbo a Priluzje

Un altro serbo, ZK, è stato arrestato il 20 settembre a Priluzje e poi portato a Pristina. È stato arrestato a casa sua dalla polizia del Kosovo. Il motivo dell’arresto di ZK è ancora sconosciuto.

Messaggi di odio con la scritta UCK, sono stati tracciati sulla scuola elementare “San Sava” di Klokot, il 15 settembre, frequentata da più di 70 bambini. “Un’altra preoccupante conferma che l’odio verso tutto ciò che è serbo, compresi i bambini, è la base ideologica della politica di Kurti e che è visibile ovunque in Kosovo, il pericolo di una destabilizzazione incontrollata e di un’escalation di violenza”, ha denunciato l’Ufficio serbo per il Kosovo Metohija.

Madre di due giovani picchiati e arrestati a Gracanica: “sono molto angosciata, gli hanno rotto la clavicola e le costole, oltre al viso”

Andrijana Micic di Gracanica, la madre dei due giovani che sono stati picchiati e arrestati dalla polizia del Kosovo, ha denunciato che dopo l’arresto non gli permettono di vedere i figli. L’episodio in cui sono stati picchiati i giovani serbi Andrija Micic di 24 anni e Mihajlo di 19 anni, è avvenuto nel centro di Gracanica, dopo essere stati fermati per un’infrazione al codice della strada, la polizia kosovara li ha brutalmente pestati.

“I due ragazzi non hanno fatto nulla di grave o del male a nessuno, Mihajlo è stato picchiato mentre era ammanettato, non poteva colpire nessuno”, ha detto la madre. Tre testimoni hanno dichiarato che Mihajlo è stato picchiato senza motivo, le loro dichiarazioni coincidono.

L’8 settembre 2023 arrestato un serbo a Leposavic, ex membro della polizia del Kosovo

Un serbo di Leposavic, GS, ex membro della polizia del Kosovo, è stato arrestato davanti a sua madre. Secondo testimoni oculari, era seduto nella taverna non lontano dalla stazione ferroviaria, dove si era fermato a prendere un caffè, quando è arrivata un’auto della polizia che lo ha preso e portato via. Al momento non si hanno informazioni riguardo a dove è detenuto.

La comunità Rom del Kosovo denuncia la brutalità e la violenza della polizia kosovara nella regione

Dopo il pestaggio brutale di un giovane rom mentre era in custodia a Gracanica, decine di persone della comunità rom del Kosovo hanno protestato a fine agosto, nel comune di Gracanica, a maggioranza serba, accusando la polizia di aver picchiato violentemente un giovane rom che era stato preso in custodia il 19 agosto.

Una ONG locale per i diritti dei rom, Opre Roma, ha postato le foto delle ferite subite da Burhan Ibrahimovic per mano della polizia di Gracanica dopo essere stato denunciato per un incidente stradale in città.

Rivolgendosi alla folla davanti alla stazione di polizia di Gracanica, Berisha di Opre Roma ha affermato che la comunità rom in Kosovo “è continuamente esposta alla violenza, alla discriminazione e all’emarginazione. Non siamo qui per incitare all’odio o alla divisione. Ma diciamo a coloro che esercitano violenza contro la nostra comunità, che tali azioni non saranno tollerate e non saranno più accettate con il nostro silenzio, in tutto il Kosovo”.

Va sottolineato che i Rom sono scappati e solitamente vivono nelle aree dove vivono i serbi e insieme a loro in tutti questi anni hanno subito vessazioni e persecuzioni.

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