Il 21 luglio Ungheria e Serbia hanno annunciato la costruzione di un nuovo oleodotto che collegherà la città serba di Novi Sad all’oleodotto Družba attraverso la sua ramificazione ungherese. Secondo il Ministro degli Esteri magiaro Péter Szijjártó, reduce da un incontro con il Ministro dell’Energia serbo Dubravka Đedović e il Viceministro russo Pavel Sorokin, il nuovo oleodotto sarà operativo entro il 2027 e garantirà il transito di 4-5 milioni di tonnellate di petrolio russo. Szijjártó ha inoltre colto l’occasione per ricordare come Bruxelles stia perseverando in una politica cieca nei confronti della Russia, minando la sicurezza energetica dell’Unione, soprattutto ora che i legislatori europei sono impegnati in discussioni volte a eliminare completamente le importazioni di gas russo entro il 2027.
L’asse di ferro tra Ungheria e Serbia
Proprio la coincidenza temporale tra la possibile conclusione di ogni importazione russa e l’apertura del nuovo oleodotto tra Ungheria e Serbia sembra essere un nuovo affronto di Budapest a Bruxelles nel contesto del sempiterno scontro tra il premier sovranista Viktor Orbán e i vertici europei. Il progetto, infatti, è visto come strategicamente importante dal governo ungherese, impegnato in una politica energetica nazionale volta a limitare i costi per i cittadini ungheresi e in una politica estera di forte cooperazione regionale con la Serbia.
Già nel 2023, per esempio, Budapest e Belgrado avevano annunciato un ambizioso piano di investimenti congiunti per rafforzare le infrastrutture per il trasporto di gas, oltre alla creazione di un nuovo interconnettore che avrebbe sviluppato la sicurezza energetica regionale.
E se i tentativi ungheresi di garantirsi rotte energetiche alternative hanno effettivamente portato l’Ungheria a essere tra i Paesi con il costo del gas più basso in Europa (3,20€ per kWh comparato, per esempio, ai 16,71 dell’Olanda), questo non avviene senza ricadute politiche, non solo per Budapest. Se la capitale danubiana è infatti sempre nell’occhio del ciclone e subisce costantemente le pressioni di Bruxelles per limitare la dipendenza energetica da Mosca, anche Belgrado, con la decisione annunciata a luglio, potrebbe vedere inficiato il proprio già periglioso percorso di adesione all’Unione. Proprio il nuovo, ambizioso progetto riapre l’eterno dibattito intorno ai rapporti tra Ungheria e Russia e la vicinanza tra Viktor Orbán e Vladimir Putin.
Budapest-Belgrado per guardare a Mosca?
Le relazioni energetiche tra i due Paesi coprono il settore petrolifero, quello del gas e anche quello atomico. Nel 2024, per esempio, le importazioni di petrolio russo sono state pari a 5,25 miliardi di dollari, anche se, nel corso degli ultimi anni, vi sono state indiscrezioni circa un supposto piano di riduzione dei volumi: l’ente petrolifero ungherese MOL si sarebbe infatti dichiarato disponibile a rivedere le importazioni russe qualora l’Unione Europea avesse pagato i lavori di riconversione delle raffinerie ungheresi, programmate per raffinare il greggio russo. Non sono solo considerazioni economiche a spingere Budapest verso il petrolio russo, ma anche politiche.
Una fonte alternativa, per esempio, potrebbe essere l’utilizzo dell’oleodotto Adria che, attraverso la Croazia, potrebbe fornire petrolio non russo all’Ungheria. Vi è però un grande scoglio da superare, ossia lo stato dei rapporti tutt’altro che idilliaci tra Budapest e Zagabria. Al di là di ragioni storiche, vi sono motivazioni ben più recenti e concrete dietro i rapporti tesi tra i due Paesi: proprio la multinazionale ungherese MOL, infatti, ha comprato il 49% della compagnia energetica croata INA e, in seguito a questa manovra, il CEO di MOL, Zsolt Hernadi, è stato accusato di aver elargito pingue tangenti all’ex Primo Ministro croato Ivo Sanader per ottenere le autorizzazioni necessarie. In seguito a queste pesanti accuse è stato spiccato un mandato di arresto internazionale nei confronti di Hernadi, poi revocato nel 2020.
Scenari in evoluzione
La dipendenza ungherese dal gas russo è invece ancora più controversa e ha profonde radici storiche, originando negli Anni '70 nel contesto della cooperazione con l’Unione sovietica all’interno dell’allora blocco socialista in Europa orientale. Per giungere a tempi più recenti, nel 2021, un anno prima dell’inizio della guerra in Ucraina, Ungheria e Russia hanno concluso un importante accordo che prevedeva l’acquisto, a prezzi non esattamente vantaggiosi, di 4,5 miliardi di m3 di gas russo. La maggior parte delle forniture sarebbero passate attraverso il canale TurkStream, ossia da quella linea che, attraversando il Mar Nero, passa dalla Turchia, dalla Bulgaria e dalla Serbia permettendo così a Mosca di bypassare l’Ucraina.
Proprio l’attacco all’Ucraina ha rappresentato un punto di svolta a livello continentale: sebbene i gasdotti russi non siano stati fatti oggetto di sanzioni, sempre più Paesi europei hanno iniziato a smarcarsi da Mosca, portando a un forte calo delle importazioni di gas, passate dal 40% del 2021 all’8% del 2023, con addirittura l’annunciata volontà di eliminare completamente ogni tipo di importazione entro il 2027.
La crisi bellica ha ovviamente avuto ricadute anche sull’Ungheria, spingendo il governo a dichiarare lo stato di emergenza nel luglio 2022 e a elaborare un piano di azione in sette punti che prevedono, tra l’altro, l’incremento della produzione interna di gas, l’aumento della capacità di stoccaggio e nuove importazioni di questa importante risorsa. E se lo sviluppo della produzione è stato evidente a partire dal 2023, già a novembre 2022 lo stoccaggio ungherese era superiore al livello europeo. Per quanto riguarda le nuove importazioni, tuttavia, il governo Orbán ha deciso di rivolgersi ancora alla Russia, annunciando nuovi accordi tra il 2024 e il 2025, portando praticamente al raddoppio delle importazioni da Mosca.
Non solo: sebbene Péter Szijjártó avesse annunciato l’aumento dell’acquisto di gas russo fino a 8,5 miliardi di m3, ossia una somma pari al fabbisogno annuo ungherese, è importante notare come tra 2023 e 2024 siano transitati per il Paese danubiano 17 miliardi di m3 della preziosa risorsa russa. Secondo alcune indiscrezioni, questa trasformazione dell’Ungheria in quello che sembrerebbe essere un hub di gas russo sarebbe stata elaborata proprio da Gazprom e rappresenterebbe una sorta di “win-win situation”: il produttore russo, infatti, venderebbe il surplus agli imprenditori ungheresi, i quali genererebbero ingenti profitti dalla rivendita di questo bene essenziale, mentre il governo magiaro aumenterebbe le proprie entrate fiscali. Il gas russo verrebbe quindi rivenduto dall’Ungheria ai Paesi vicini e, secondo alcune notizie non confermate, anche alla Germania.
Perché l’Ungheria è in disaccordo con l’UE
Questa situazione, unita al fatto che l’Ungheria è agganciata al network russo e importare gas attraverso altre linee rappresenterebbe un aumento dei costi, spiega l’ostilità di Budapest a ogni forma di diversificazione delle importazioni: su pressione dell’Unione Europea, infatti, il governo Orbán avrebbe intavolato nuove trattative con Azerbaijan, Turchia, Qatar, Croazia e Romania, ma la dipendenza da Mosca rimane determinante. Per evitare ogni consumo indesiderato, comunque, l’Ungheria ha avviato una serie di politiche volte a eliminare il consumo di gas come, per esempio, la limitazione delle temperature nelle scuole e negli uffici pubblici, l’eliminazione delle vacanze scolastiche autunnali e l’estensione della pausa invernale o l’incentivo a favorire l’energia elettrica rispetto a quella a gas.
Non solo: per contenere l’impatto dell’aumento dei prezzi e le oscillazioni causate dalla situazione bellica in corso, il governo Orbán ha avviato una politica sociale che prevede il calmieramento dei prezzi del gas e dell’elettricità per le famiglie ungheresi entro una certa soglia di consumo, superata la quale i beni verrebbero pagati a prezzo di mercato. E proprio su questo aiuto fondamentale per le famiglie ungheresi si gioca la battaglia del premier ungherese contro la politica energetica europea: qualora dovessimo eliminare del tutto le importazioni russe, afferma Orbán, il costo per le famiglie ungheresi diventerebbe insostenibile, causando una vera e propria emergenza sociale.
Ma il petrolio e il gas, come accennato, non sono gli unici settori in cui Budapest sarebbe legata a doppio filo a Mosca: l’aiuto russo, infatti, è fondamentale anche per il funzionamento e l’ampliamento della centrale nucleare Paks II che, nel 2019, forniva il 50% dell’energia elettrica nazionale. Ed è stata nuovamente la guerra in Ucraina a rappresentare una svolta in questo senso. Sebbene anche il settore nucleare non sia stato oggetto diretto di sanzioni, è risultata evidente la volontà di numerosi attori europei di allontanarsi da Mosca anche per quanto riguarda l’energia atomica. Molti Paesi dell’Europa centro-orientale che prima dipendevano dalla Russia per il funzionamento delle loro centrali, si sono infatti rivolti alla statunitense Westinghouse per avere il supporto necessario. Per via degli screzi politici con l’amministrazione Biden e complice un riavvicinamento tra Viktor Orbán ed Emmanuel Macron, tuttavia, l’Ungheria ha preferito chiedere aiuto alla francese Fromatome.
Il nodo nucleare
L’aiuto francese sarebbe stato fondamentale anche nel contesto di un ulteriore progetto, elaborato da Paks II ltd, ossia l’azienda statale responsabile dell’ampliamento e potenziamento della centrale nucleare ungherese, e dal Ministero degli Esteri magiaro. La parte del leone a Paks la fa, naturalmente, la società russa Rosatom, ma l’assistenza occidentale è richiesta in diversi settori come, per esempio, la fornitura di alcuni materiali essenziali al funzionamento della centrale. Proprio il blocco di tali forniture da parte della Germania ha spinto Budapest a elaborare una alternativa che non andasse a rompere il contratto stipulato con Mosca. Il piano, quindi, sarebbe stato quello di dare vita a un nuovo impianto, noto come Paks III, in collaborazione con Fromatome, garantendo così ai russi di continuare i lavori a Paks II senza però il supporto diretto del governo ungherese. Il piano, però, sarebbe stato fermato da Viktor Orbán in persona, il cui rifiuto ha portato a un rinnovato impegno e a una più stretta collaborazione russo-magiara per finalizzare il potenziamento di Paks II.
Tutti aspetti, quelli elencati finora, che costituiscono la politica energetica di Viktor Orbán. Politica che, sebbene garantisca costi contenuti per le famiglie ungheresi e un costante approvvigionamento di petrolio, gas ed energia, non favorisce le diversificazioni e rischia di precipitare il Paese danubiano in una dipendenza dalla Federazione Russa, oltre ad avere pesanti ricadute in quella lunga e apparentemente interminabile partita a scacchi tra il premier ungherese e l’Unione Europea. E non a caso il totale divieto di intromissione delle istituzioni europee nelle politiche energetiche nazionali è uno dei tasselli fondamentali di quel grande piano di riforma dell’Unione Europea presentato mesi fa dai conservatori ungheresi e polacchi e appoggiato attivamente dal governo magiaro.
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