"Wish You Were Here" si accinge a compiere mezzo secolo come l’album al quale ha dato il titolo. Pubblicata il 12 settembre 1975 dalla Harvest Records, la quarta traccia dell’album omonimo dei Pink Floyd è un palese omaggio a Syd Barrett, membro fondatore ed ex-leader del gruppo, estromesso nel 1968 a causa di gravi disturbi psichici aggravati dall’abuso di droghe che gli resero impossibile continuare a suonare dal vivo e a lavorare in studio. Il testo e l’atmosfera del brano evocano proprio l’ultima volta in cui la band ebbe occasione di incontrarlo.
Il tema musicale nacque da un semplice riff acustico concepito da David Gilmour, durante una sessione agli Abbey Road Studios. Colpito dall’efficacia di quella melodia, Roger Waters decise di svilupparla insieme a lui, trasformandola progressivamente in una delle composizioni più celebri e rappresentative della storia del gruppo. Ma quella che sarebbe diventata una delle canzoni-simbolo della band inglese nacque in un clima tutt’altro che idilliaco. Nel gennaio 1975 agli Abbey Road Studios, infatti, l’atmosfera era pesante. A proposito delle sessioni per il loro album della saga floydiana, “Wish You Were Here”, Gilmour ammise a Nme che “The Dark Side Of The Moon” del 1973 li aveva lasciati “intrappolati creativamente”, mentre Waters definiva il concept di “Wish You Were Here” come “lavorare con persone di cui sai che non ci sono più”, e il batterista Nick Mason scherzava a Capital Radio dicendo “Avrei davvero voluto non essere lì”. Insomma, si avvertivano già alcuni segnali del grande tracollo interno ai Pink Floyd che avrebbe portato all’abbandono di Waters, dopo “The Final Cut”.
Eppure, anche in un disco che Gilmour ricorda come “iniziato piuttosto dolorosamente”, la title track portò un momento di felice sinergia tra i membri del gruppo. Con un retroscena gustoso a proposito del riff da cui nacque tutto. “Comprai una chitarra a 12 corde,” ricordò Gilmour in un’intervista video realizzata per promuovere la ristampa Immersion di “Wish You Were Here”. “La stavo strimpellando nella control room dello Studio Tre ad Abbey Road, e quel riff iniziale cominciò semplicemente a venir fuori. Le orecchie di Roger si drizzarono e disse: ‘Cos’è quello?’ Io avevo l’orribile abitudine di suonare pezzi di canzoni di altri che mi sembravano buoni. E credo che Roger fosse un po’ nervoso temendo che anche quel riff provenisse da qualcos’altro, di qualcun altro”.
Mentre Gilmour si concentrò sullo sviluppo della parte di chitarra, l’intuizione della band fu quella di aprire “Wish You Were Here” con l’effetto di un ascoltatore che fa zapping tra stazioni radio. Si odono dapprima voci indistinte, come se provenissero da una stanza in cui qualcuno sta seguendo una trasmissione, quindi la sintonia viene spostata più volte, passando da frammenti confusi di conversazioni – un uomo e una donna che parlano senza apparente filo logico – fino a un accenno della Quarta Sinfonia di Čajkovskij. La ricerca si interrompe su una stazione che trasmette proprio l’introduzione di "Wish You Were Here", eseguita da David Gilmour con una chitarra a dodici corde. Il suono, filtrato e disturbato dalla radio, viene presto affiancato da una seconda chitarra, dal timbro più pieno e definito, che sembra “entrare nella stanza” e unirsi alle note iniziali. L’effetto è quello di un passaggio graduale dall’ascolto distante e impersonale della radio all’esperienza diretta e intima della musica suonata dal vivo. “L’idea,” spiegò Gilmour, “era che sembrasse una chitarra che suona alla radio e qualcuno nella propria stanza, a casa, magari in camera da letto, che la ascolta e si mette a suonare insieme”. Così l’altra chitarra doveva rappresentare un ragazzino a casa che si unisce alla chitarra che sente alla radio. “E quindi,” aggiunse Gilmour, “non doveva essere troppo precisa – e non lo era. Ogni volta che riascolto la registrazione originale, penso: ‘Dio, avrei dovuto davvero farla un po’ meglio’”.
Mentre l’assolo di violino del famoso violinista jazz Stéphane Grappelli, ex-membro del Quintette du Hot Club de France, fu in gran parte tagliata e resa a malapena udibile alla fine del brano, più significativo fu il testo nostalgico di Roger Waters, con, in particolare, un verso memorabile – “We’re just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year” – che poteva essere letto come un riferimento al matrimonio in crisi del bassista, ma che era soprattutto un omaggio all’ex-compare Syd Barrett. “I due brani che aprono e chiudono il disco, ‘Shine On You Crazy Diamond’ part. I e II, sono specificamente dedicati a Syd, mentre ‘Wish You Were Here’ ha un respiro più ampio, ma non riesco a cantarla senza pensare a Syd”, ricorderà Gilmour.
Quando la formazione classica dei Pink Floyd si riunì a Londra – per l’ultima volta – in occasione del Live 8 del 2005, Waters e Gilmour si assicurarono che il pubblico di Hyde Park non avesse dubbi sull’argomento di “Wish You Were Here”, eseguendo la canzone con due chitarre acustiche. “Lo facciamo per tutti coloro che non sono qui,” annunciò il bassista, con tono mirato. “E in particolare, naturalmente, per Syd”. La salute mentale dell’ex-leader era precipitata già alla fine degli anni Sessanta; Barrett, che ha lasciato i Pink Floyd nel 1968, è morto nel 2006, ormai da tempo lontano dalla scena pubblica.
In un’intervista rilasciata qualche tempo fa a Dan Rather, Roger Waters ha raccontato anche altri dettagli riguardo la genesi del brano: “È una di quelle canzoni che sono venute fuori con estrema facilità. David Gilmour stava suonando il riff, l’ho sentito e gli ho chiesto: ‘Cos’è? Suonalo ancora’. L’ho imparato al volo e gli ho chiesto come proseguiva. Mi disse: ‘È tutto qui’. Gli risposi: ‘Mi piace, ti dispiace se provo a vedere dove porta?’. Ho aggiunto qualche accordo e il resto della canzone è venuto fuori molto velocemente. Se non sbaglio, l’ho scritta in un’ora. È stato uno di quei momenti rari in cui il flusso di coscienza funziona perfettamente: le parole arrivano con il ritmo giusto, con significato e musicalità. Non ho mai voluto analizzarle troppo, sarebbe come sezionare una farfalla: alla fine ti restano solo polvere e frammenti”.
Waters ha poi spiegato che al cuore del brano c’era il tema dell’assenza – in primis quella di Barrett: “Parlava della perdita, in un certo senso della scomparsa di Syd, che era stato sopraffatto dalla malattia mentale. Era un amico affascinante, esuberante e di grande talento. Mi manca. Ma mi manca dal 1968, da quando ha cominciato a smarrirsi in una condizione che potremmo chiamare schizofrenia. Chiamatela come volete, ma quando accade, rende impossibile comunicare. È come se si alzasse un muro. E Syd quel muro lo ha costruito davvero. Fu terribilmente triste”. Waters ha inoltre riconosciuto che il brano attinge anche a un lutto più antico e personale: la morte del padre durante la Seconda Guerra Mondiale.
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