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31/08/2025

La rivalità Ankara-Tel Aviv scuote il Medio Oriente

La decisione della Turchia guidata dal presidente Recep Tayyip Erdogan di tagliare il commercio con Israele e di bandire lo spazio aereo del Paese euroasiatico ai voli di Stato di Tel Aviv e a quelli che trasportano armi verso lo Stato Ebraico segna un nuovo salto di qualità nel braccio di ferro geopolitico tra il governo del Rais di Ankara e quello di Benjamin Netanyahu. E, al contempo, rafforza la rivalità sistemica tra Turchia e Israele, che a fianco del braccio di ferro tra Tel Aviv e l’Iran è forse il trend più importante consolidatosi nella crisi scatenata dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro lo Stato Ebraico.

Una sfida a tutto campo

Se quella tra Israele e Iran è la rivalità tra il progetto di riconfigurazione geopolitica del Medio Oriente che unisce le élite nazionaliste israeliane ai teorici del neoconservatorismo Usa e la spinta alla conservazione dello status quo regionale di una Repubblica Islamica desiderosa di resistere al caos mediorientale, la sfida a distanza Tel Aviv-Ankara è tutta costruita sulla delimitazione delle sfere d’influenza. Non a caso Erdogan ha alzato il tiro contro Israele e Netanyahu per i massacri a Gaza dopo che anche Ankara ha potuto, di fatto, profittare degli sviluppi regionali spingendo il suo protegé Ahmad al-Sharaa (Abu Mohammad al-Jolani) a consolidare tra novembre e dicembre 2024 l’offensiva decisiva per rovesciare il regime di Bashar al-Assad in Siria.

Grande gioco attorno alla Siria

La caduta del regime baathista ha creato un vuoto di potere problematico, spinto la Turchia a mettere le mani sulla nuova Siria, portato a un vasto sforzo diplomatico e d’intelligence di Ankara per riunificare un Paese diviso da 14 anni di guerra civile come un suo satellite. I frequenti viaggi di Hakan Fidan, ministro degli Esteri di Erdogan ed ex capo del Mit (l’intelligence turca) a Damasco lo confermano.

La Siria è stata la prima linea del confronto turco-israeliano: gli sforzi di Al-Sharaa per diventare il leader riconosciuto del Paese si sono scontrati con l’oggettiva difficoltà di controllare la base militante e jihadista degli ex membri di Hay’at Tahrir al-Sham, che si sono abbandonati a massacri e stragi settarie, e con la strategia israeliana di far leva sulle minoranze e sulla loro causa come pretesto per negare a Damasco l’unità. Ergo a Erdogan la chiusura del dossier siriano.

La Turchia, con la pace col Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e gli accordi tra l’amministrazione curda del Rojava e Damasco, ha segnato un punto a suo favore. Israele ha fatto leva sulle minoranze druse e sui bombardamenti sull’esercito di Damasco quando si avvicinava ai confini, peraltro espansi da Tel Aviv a dicembre portando la zona d’occupazione in Siria in profondità rispetto alle alture del Golan controllate dal 1967.

Il confronto strategico Turchia-Israele

Sul piano geopolitico, dunque, Israele e Turchia “confinano” in Siria, ma non solo. Confliggono anche nei rapporti col Medio Oriente, dove Ankara mira a sabotare una futura espansione degli Accordi di Abramo arabo-israeliani e hanno una linea di contatto indiretta anche a Cipro, Paese diviso la cui componente meridionale, internazionalmente riconosciuta, a marzo ha reso pienamente operativa la sua “cupola” antiaerea fondata sui sistemi israeliani Barak, come deterrenza contro uno schieramento di Ankara nella Repubblica Turca di Cipro Nord che secondo diverse ricostruzioni Erdogan potrebbe espandere rispetto agli attuali 35mila militari stanziati.

La giornalista turca Aslı Aydıntaşbaş ha scritto sul Financial Times a luglio che l’anarchia regionale mostrata a giugno dal confronto diretto israelo-iraniano appariva un pessimo presagio nel quadro dei rapporti bilaterali tra Ankara e Tel Aviv. Per l’autrice, “il confronto è sia ideologico che geopolitico”, dato che se da un lato il nazionalismo messianico informa la coalizione di Netanyahu, dall’altro Erdogan, con il suo uso spregiudicato di un misto tra richiamo islamista e al passato ottomano, nazionalismo e panturchismo alimenta l’ambizione di Ankara su ogni dimensione politica. Fidan, parlando dell’esistenza di un “problema israeliano” all’Organizzazione per la Cooperazione Islamica a luglio, ha segnato un passo in avanti nell’approfondimento ideologico di questa rivalità.

Una rivalità sempre più calda

Nessuno pensa, per ora, a scenari estremi, ma la rivalità esiste ed è al calore bianco, un confronto brutale di potere e logiche espansioniste. In palio c’è il ruolo di prima potenza del Medio Oriente e una voce decisiva nella sua ristrutturazione. Come ha fatto notare Responsible Statecraft, “l’intensificarsi della rivalità tra Tel Aviv e Ankara non è una questione di se, ma di come. Non è una questione se scelgano o meno la rivalità, ma come scelgano di reagire: attraverso il confronto o la gestione pacifica”.

Fa pensare, ad esempio, che Ankara abbia approvato, dopo la guerra Iran-Israele, un maxi-piano urbanistico per costruire rifugi antiaerei in tutte le province, come a dimostrare la volontà di prepararsi a una guerra lunga. Un segno di sfiducia profonda verso la capacità della regione di stabilizzarsi a cui vanno letti in parallelo, però, altri scenari strategici che potrebbero svilupparsi in senso diverso.

Tra Turchia e Israele gli elementi, indiretti, di dialogo non mancano: la presenza di entrambe in un contesto di alleanza geopolitica con gli Stati Uniti, la comune volontà di non dare spazio all’Iran e a una sua rinascita come grande potenza strategica e l’esistenza di alleati comuni, come l’Azerbaijan, possono fare da ammortizzatore a un confronto muscolare che parla del ritorno della politica di potenza in Medio Oriente come di un fatto ormai consolidato.

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