Ora che la dichiarazione congiunta sui dazi tra gli USA e i paesi europei scrive nero su bianco il valore delle tariffe imposte al Vecchio Continente, ci si affretta a fare i conti dell’entità del danno che ciò significherà per le nostre economie già stagnanti. Lo ha fatto in tempi record il Centro studi di Unimpresa.
La divisione dell’organizzazione imprenditoriale ha elaborato tre scenari differenti: il più ottimistico stima perdite attorno ai 7 miliardi, quello intermedio sui 7,5, mentre le previsioni più cupe toccano quota 8 miliardi di euro. Questi valori vanno considerati sul totale delle esportazioni verso gli States, con un ammontare che oscilla tra i 66 e i 70 miliardi ogni anno.
Ad essere maggiormente colpiti sono la meccanica strumentale e i macchinari industriali (da soli potrebbero vedere le proprie merci essere appestantite da circa 2 miliardi di dazi). Seguono chimica e farmaceutica (1,7 miliardi), moda e pelletteria (1,1), agroalimentare (0,9), mezzi di trasporto (0,8), e infine i beni di lusso ad alto valore aggiunto – occhiali, arredo e gioielleria – (intorno ai 600 milioni).
Il peso dei dazi, ovviamente, dipenderà da come le imprese reagiranno alla guerra commerciale, ovvero se assottiglieranno i margini di profitto per assorbire le tariffe o metteranno in campo altre strategie produttive. Sia che si muovano in questo modo e vi siano, inoltre, esenzioni parziali, sia che tutto ciò non avvenga, la distanza tra la migliore e la peggiore stima è piuttosto ristretta.
Risulta anche abbastanza difficile pensare che i ‘prenditori’ italiani, abituati a campare sul lavoro sottopagato, sui sussidi pubblici e sull’evasione contributiva e fiscale, possano ora rivelarsi lungimiranti e attenti pianificatori industriali. Non a caso, il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora, chiama subito in causa l’intervento dello Stato:
“I numeri confermano che il sistema produttivo italiano ha gli strumenti per contenere l’urto attraverso politiche di efficienza e una presenza più bilanciata sui mercati globali. Il danno potenziale, pur significativo, non dovrebbe compromettere la tenuta complessiva del made in Italy sui mercati internazionali, a condizione che le misure siano accompagnate da un supporto pubblico mirato e tempestivo”.
Il danno per un’economia già in affanno è piuttosto chiaro. Tolte alcune produzione specifiche, è probabile che alcuni prodotti diventino inarrivabili per alcuni settori lavorativi statunitensi. Ciò non può che ripercuotersi anche sui bilanci delle aziende italiane, e dunque sui lavoratori, su cui alla fine saranno scaricati i costi del conflitto tariffario.
Alla fine, saranno sempre le classi subalterne a fare le spese della competizione tra una UE ridotta nuovamente a vassallo e il nuovo indirizzo commerciale dell’amministrazione Trump.
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