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05/09/2018

Gli interessi cinesi in Africa

“Investimenti invece del saccheggio”, titolava ieri Die junge Welt a proposito del 7° vertice sino-africano del 3 e 4 settembre a Pechino.

Aprendo il Forum on China-Africa Cooperation, il Presidente Xi Jinping ha promesso ulteriori 60 miliardi di dollari di investimenti, che includono 20 miliardi di linee di credito e due fondi destinati allo sviluppo e al finanziamento delle importazioni di beni africani per 15 miliardi di dollari; inoltre, le aziende cinesi saranno incoraggiate a investire “almeno 10 miliardi” nei prossimi tre anni e si promette il taglio del debito per alcuni stati “particolarmente poveri”. Con un volume di scambi commerciali di 170 miliardi di dollari, da 9 anni la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa, davanti a USA e Francia; gli investimenti cinesi hanno superato i 100 miliardi di dollari.

Sullo sfondo della contesa commerciale con Washington, Pechino punta a sempre nuovi affari con i partner africani, per coinvolgerli nel progetto “One Belt One Road” (BaR) e creare nuovi corridoi economici tra Cina, sudest asiatico, Europa e Africa. Sono state realizzate le ferrovie Addis Abeba-Gibuti e Mombasa-Nairobi e il parco industriale di Hisense Home Appliances in Sud Africa; dighe in Zambia, Etiopia, Gabon, Camerun, Ghana; investitori cinesi finanziano città, come la Nova Cidade de Kilamba, in Angola, o la progettata “New York africana”, nei pressi di Johannesburg, con un investimento di circa 8 miliardi di dollari; dovunque: edifici, stadi, ferrovie, aeroporti, caserme, raffinerie.

Reclamizza tali progetti l’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming che, alla vigilia del vertice, sul Sunday Telegraph ha assicurato che la Cina è un “investitore e un creditore responsabile” e non, come qualcuno la accusa, la causa del problema del debito africano. La Cina, ha detto Liu, ha adottato misure per aiutare l’Africa ad alleviare la pressione del debito, insieme a una serie di cancellazioni del debito su prestiti senza interessi ai paesi meno sviluppati.

In effetti, dopo il precedente vertice del 2015 a Johannesburg, Pechino ha esonerato più di 20 paesi africani dalla restituzione dei prestiti senza interesse. L’Africa costituisce “la prosecuzione storica e naturale dello sviluppo lungo il “BaR” e anche un importante soggetto di tale iniziativa”, ha detto Xi; la cooperazione sino-africana è volta ad alleggerire il deficit di infrastrutture che frena lo sviluppo dell’Africa, ha affermato.

Sull’edizione in lingua russa del Quotidiano del popolo, il politologo Grigorij Trofimčuk scrive che probabilmente nessun altro paese al mondo ha un così largo spettro di interventi nel continente africano: non solo nella sfera politica, ma anche in quelle di difesa, sicurezza, economia, commercio, cultura. Il tutto, secondo il principio del “win-win” il vantaggio reciproco.

L’altra faccia della medaglia è l’accusa mossa a Pechino di imporre ai propri partner un debito insostenibile, attraverso crediti onerosi: in vent’anni, oltre 100 miliardi di euro di prestiti. Da sola, la Cina rappresenta il 14% del complesso del debito dei paesi subsahariani che, a fine 2017, aveva raggiunto una media del 57% del PIL. Dunque, Xi si è preoccupato di disinnescare queste crescenti critiche e ha assicurato – ma senza specificare un calendario o una lista di paesi interessati, sottolinea Jeune Afrique – che il suo paese avrebbe “annullato” parte del debito maturato dai paesi meno sviluppati. In Africa, Pechino ha investito miliardi di dollari negli ultimi tre anni, in infrastrutture e aree industriali, che però ne hanno anche aumentato l’indebitamento e la dipendenza. Nel caso di Gibuti, ad esempio, il debito pubblico estero è cresciuto dal 50 all’85% del PIL in due anni, per i debiti contratti con la Exim Bank cinese.

Intervistato da Le Monde Afrique, il sinologo Jean-Pierre Cabestan sostiene che “nonostante il suo peso economico e politico, Pechino non è neocolonialista, ma egemonica”. La Cina è diventata un partner chiave dei paesi africani, anche se ciò non significa che questi si stiano allontanando da USA, UE, o da altri paesi emergenti. E’ il caso della Tanzania, molto vicina a Pechino, ma che intende incrementare i legami con USA e UE; l’Uganda, partner fedele della Cina, ha assegnato a Total lo sfruttamento della maggior parte dei giacimenti petroliferi nel lago Albert, mentre la cinese Cnooc ne ha ottenuto solo un terzo.

La partnership con la Cina, a causa del suo peso egemonico e l’asimmetria delle relazioni con vari paesi africani, diventa oggetto di dispute politiche interne e molti di quei paesi si chiedono in che misura proseguire nella dipendenza economica e finanziaria da Pechino. Però, sostiene Cabestan, più che parlare di un “neocolonialismo” cinese, si può dire che “la Cina sia piuttosto egemonica in Africa, persino imperialista, approfittando della sua forza finanziaria e commerciale per imporre il suo gioco e, a volte, interferire negli affari interni dei paesi per proteggere meglio i propri interessi”. Ma, in generale, nonostante “la relazione asimmetrica con Pechino”, non tutti i paesi africani sono “diventati dipendenti dalla Cina, come il Laos o la Cambogia. L’accusa di neocolonialismo mi sembra tanto meno rilevante, dal momento che la Cina non intende gestire l’Africa al posto degli africani, come facevano un tempo le potenze coloniali”.

Quali sono gli interessi alla base dell’espansione cinese in Africa? Insieme a quello per le materie prime – strategici giacimenti di uranio e cobalto e di altre preziose risorse naturali – fondamentali per la propria industria, c’è anche quello dello smercio della propria sovrapproduzione, con l’obiettivo di diventare, su scala planetaria, la superpotenza egemone entro la metà del secolo. Sul piano militare, Pechino dispone ora a Gibuti di una base, strategicamente posta all’imboccatura meridionale del mar Rosso, necessaria per consolidare la presenza militare in un bacino su cui transita la metà dell’import cinese di petrolio, assieme al 40% del traffico marittimo mondiale. E si parla delle probabile prossima apertura di altre basi in Sudan del Sud, Costa d’Avorio e Nigeria.

Per quanto riguarda gli armamenti, la Cina punta a diventare il fornitore leader dei paesi in via di sviluppo, grazie a attrezzature non costose e affidabili. Aspirando alla leadership nel settore delle trasmissioni – Huawei ha vinto contratti in Niger, Tanzania e Zimbabwe – inizia a offrire attrezzature più sofisticate, come caccia allo Zimbabwe, elicotteri al Sudan o navi da guerra ad Algeria, Camerun e Nigeria. Di fatto, i cinesi stanno diventando i principali concorrenti dei russi, specialmente in Angola, Etiopia, Sudan e Algeria.

Non è proprio il caso di dimenticare le parole di Xi Jinping: “Il mondo è sull’orlo di cambiamenti radicali. Vediamo come l’Unione europea stia gradualmente collassando e come stia rovinando l’economia americana. Tutto ciò porterà, nel giro di una decina d’anni, a un nuovo ordine mondiale, la cui chiave di volta sarà costituita dall’alleanza tra Repubblica Popolare Cinese e Russia”.

O, come scriveva il mese scorso Le Monde diplomatique, “più che alleati, complici”.

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