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03/11/2018

Il centenario del grande massacro. Non c’è nulla da festeggiare

Contro l’enfasi celebrativa, nazionalista e bellicista, di cui si vuol circondare il “centenario della vittoria”, che i fascisti vorrebbero addirittura elevare a “principale festa nazionale”; contro l’esaltazione “guerriera” diffusa da un Ministero della difesa sempre all’attacco, qualunque sia lo schieramento politico impegnato a reclamizzare le armi italiane su tutti i fronti in cui USA e NATO portino la “democrazia” a suon di bombe; contro la retorica patriottarda, che equipara le odierne esaltazioni dei professionisti della guerra al sacrificio dei “nostri nonni”, obbligati ad andare al macello in un conflitto che essi non volevano; contro questo, proponiamo, per chi avrà la pazienza di leggerla, questa nota di Lenin, a proposito delle smanie interventiste italiane di cento anni fa e del ruolo dei riformisti nel voler trasformare le masse popolari in “lacchè della propria borghesia nazionale”, osservando come, sul fronte dell’“imperialismo della povera gente”, le condizioni dei migranti italiani di un secolo fa non differissero da quelle inflitte oggi agli attuali migranti proprio da coloro che più esaltano la “vittoria indimenticabile”.

IMPERIALISMO E SOCIALISMO IN ITALIA

(Nota)

Per l’interpretazione di quelle questioni che l’attuale guerra imperialista ha posto di fronte al socialismo, non è superfluo gettare uno sguardo sui diversi paesi europei, per imparare a isolare le modificazioni nazionali e i dettagli del quadro complessivo, da ciò che è basilare e sostanziale. Dal di fuori, dicono, le cose sono più evidenti. Perciò, quante meno analogie tra Italia e Russia, tanto più interessante, sotto certi aspetti, è paragonare imperialismo e socialismo in entrambi i paesi.

Nella presente nota abbiamo intenzione soltanto di evidenziare il materiale che offrono su questa questione le opere, uscite dopo l’inizio della guerra, del professore borghese Roberto Michels: «L’imperialismo italiano» e del socialista T. Barboni: «Internazionalismo o nazionalismo di classe?» (Il proletariato d’Italia e la guerra europea ). Il ciarliero Michels, rimasto superficiale come nelle altre sue opere, sfiora appena il lato economico dell’imperialismo, ma nel suo libro è raccolto un materiale di valore sulle origini dell’imperialismo italiano e su quel passaggio che costituisce la sostanza dell’epoca contempo­ranea e che, in Italia, ha un particolare risalto e precisamente: il passaggio dall’epoca delle guerre di liberazione nazionale all’epoca delle guerre imperialiste di rapina e reazionarie. L’Italia democratico-rivoluzionaria, vale a dire rivoluzionaria-borghese che abbatteva il giogo dell’Austria, l’Italia dell’epoca di Garibaldi, si trasforma definitivamente sotto i nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che saccheggia Turchia e Austria, nell’Italia di una borghesia rozza, reazionaria in misura rivoltante, sporca, che sbava per la soddisfazione di esser stata ammessa alla spartizione del bot­tino. Michels, come ogni altro decoroso pro­fessore, reputa, s’intende, «obiettività scientifica», il suo servilismo di fronte alla borghesia e definisce questa divisione del bottino una «spartizione di quella parte del mondo rimasta ancora nelle mani dei popoli deboli» (p. 179). Respingendo in modo sprezzante, come «utopistico» il punto di vista di quei socialisti ostili a ogni politica coloniale, Michels ripete i ragionamenti di quanti ritengono che l’Italia «dovrebbe essere la seconda potenza coloniale», cedendo il primato alla sola Inghilterra, per densità di popolazione e vigore del movimento migratorio. Per quanto riguarda il fatto che in Italia il 40% della popo­lazione sia analfabeta, che ancor oggi vi scoppino rivolte per il colera, ecc. ecc., questi argomenti vengono contestati basandosi sull’esempio dell’Inghilterra: non era forse essa il paese della incredibile desolazione, dell’abiezione, della morte per fame delle masse operaie, dell’alcolismo, della miseria e della sozzura mostruose nei quartieri poveri delle città, nella prima metà del XIX secolo, quando la borghesia inglese gettava con così grande successo le basi della propria attuale potenza coloniale?

E bisogna dire che, dal punto di vista borghese, questo ragionamento è inoppugnabile. Politica coloniale e imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e curabili del capitalismo (come pen­sano i filistei, e Kautsky tra loro), ma una conseguenza inevitabile dei fondamenti stessi del capitalismo: la concorrenza tra singole imprese pone la questione solo in questo modo – andare in rovina o mandare in rovina gli altri; la concorrenza tra i diversi paesi pone la questione solo così – rimanere al nono posto e rischiare in eterno il destino del Belgio, oppure mandare in rovina e conquistare altri paesi, e farsi largo per un posticino tra le «grandi» potenze.

Hanno definito l’imperialismo italiano «l’imperialismo dei poveri» (l’imperialismo della po­vera gente –in italiano nel testo – ndt), avendo in mente la povertà dell’Italia e la desolante miseria delle masse degli emigranti italiani. Lo sciovinista italiano Arturo Labriola, che si distingue dal suo ex avversario G. Plekhanov solo per il fatto di aver reso patente un po’ prima il proprio social-sciovinismo e per esser giunto a questo social-sciovinismo attraverso il semianarchismo piccolo-borghese e non attraverso l’opportunismo pic­colo-borghese, questo Arturo Labriola ha scritto nel suo libello sulla guerra in Tripolitania (nel 1912):

« ...È chiaro che noi combattiamo non soltanto contro i turchi... ma anche contro gli intrighi, le minacce, i soldi e gli eserciti dell’Europa plutocratica, che non può sopportare che le piccole nazioni ardiscano compiere foss’anche un solo gesto, pronunciare anche una sola parola, che comprometta la sua ferrea egemonia» (p. 92). E il capo dei nazionalisti italiani, Corradini, ha di­chiarato: «Come il socialismo fu il metodo di liberazione del proletariato dalla borghesia, così il nazionalismo sarà per noi, italiani, il metodo di liberazione da francesi, tedeschi, inglesi, ame­ricani del nord e sud, i quali, nei nostri confronti, rappresentano la borghesia».

Ogni paese che ha più colonie, più capitali, più soldati del «nostro», toglie a «noi» certi privilegi, un certo profitto o sopraprofitto. Come tra singoli capitalisti, ottiene un sopraprofitto quello che dispone di macchine migliori della media, o detiene certi monopoli, così anche tra i paesi ottiene un sopraprofitto quello che è in una condizione economicamente migliore degli altri. È affare della borghesia lottare per privilegi e superiorità del proprio capitale nazionale e imbrogliare il popolo o il popolino (con l’aiuto di Labriola e Plekhanov) presentando la lotta imperialista per il «diritto» a saccheggiare gli altri, come una guerra di liberazione nazionale.

Fino alla guerra di Tripolitania, l’Italia non aveva saccheggiato altri po­poli – quantomeno, non in grande misura. Non è forse questa un’offesa insopportabile all’orgoglio nazionale? Gli italiani sono oppressi e umiliati di fronte alle altre nazioni. L’emigrazione italiana contava circa 100.000 persone l’anno, negli anni ’70 del secolo scorso, mentre raggiunge ora una cifra da ½ milione a 1 milione, e sono tutti miserabili che la fame, nel significato letterale della parola, caccia dal loro paese, sono tutti fornitori di forza-lavoro per i settori peggio pagati dell’industria, è tutta una massa che popola i quartieri più densi, poveri e luridi delle città americane e europee. Il numero degli italiani che vivono all’estero, da 1 milione nel 1881 è cresciuto a 5,5 milioni nel 1910, e per di più l’enorme maggioranza si trova in ricchi e «grandi» paesi, in rapporto ai quali gli italiani costi­tuiscono la più rozza, più «materiale», più misera e priva di diritti massa operaia. Ecco i principali paesi che utilizzano il lavoro italiano a buon mercato: Francia, 400.000 italiani nel 1910 (240.000 nel 1881); Svizzera, 135.000 (41) – (tra parentesi, il numero in migliaia, nel 1881) -; Austria, 80.000 (40); Ger­mania, 180.000 (7); Stati Uniti, 1.779.000 (170); Brasile, 1.500.000 (82); Argentina, 1.000.000 (254). La «brillante» Francia, che 125 anni fa lottava per la libertà e per questo definisce «di liberazione» la sua attuale guerra per il proprio, e dell’Inghilterra, schiavistico «diritto alle colonie», questa Francia tiene centinaia di migliaia di operai italiani addirittura in speciali ghetti, dai quali la canaglia piccolo­ borghese della «grande» nazione cerca di separarsi quanto più possibile e che cerca di umiliare e offendere in ogni modo. Gli italiani vengono chiamati col nomignolo dispregiativo di «macaroni» (è bene che il lettore grande-russo ricordi quanti nomignoli spregiativi circolino nel nostro paese per gli «stranieri» che non hanno avuto la fortuna di nascere con il diritto a nobili privilegi imperiali, i quali servono ai Puriškevic quale strumento di oppressione sia del grande-russo, sia di tutti gli altri popoli della Russia). La grande Francia ha stipulato nel 1896 un accordo con l’Italia, in forza del quale quest’ultima si impegna a non aumentare il numero delle scuole italiane a Tunisi! Ma la popolazione italiana a Tunisi è cresciuta da allora di sei volte. Gli italiani a Tunisi sono 105.000, contro 35.000 francesi; ma tra i primi solo 1.167 sono proprietari fondiari, che possiedono 83.000 ettari, mentre tra i secondi ce ne sono 2.395, che hanno saccheggiato, nella «propria» colonia, 700.000 ettari. Dunque, come non esser d’accordo con Labriola e gli altri «plekhanovisti» italiani, sul fatto che l’Italia ha «diritto» a una propria colonia a Tripoli, all’oppressione degli slavi in Dalmazia, alla spartizione dell’Asia Mi­nore, ecc.!*

Come Plekhanov sostiene la guerra «di liberazione» della Russia contro la brama della Germania di trasformarla in una propria colonia, così il capo del partito dei riformisti, Leonida Bissolati, grida contro «l’inva­sione del capitale straniero in Italia» (p. 97): il capitale tedesco in Lom­bardia, quello inglese in Sicilia, il francese nel Piacentino, il belga nelle aziende tranviarie, ecc. ecc. senza fine.

La questione è posta senza mezzi termini e non è possibile non riconoscere che la guerra europea ha recato all’umanità un enorme beneficio, avendo posto, effettivamente, in maniera risoluta, di fronte a centinaia di milioni di individui di nazioni diverse, la questione: o difendere, col fucile o con la penna, direttamente o indirettamente, in una qualsiasi forma, i pri­vilegi di grande potenza o nazionali in genere, o i vantaggi o le pretese della «propria» borghesia, e allora questo significa essere suoi seguaci o lacchè, oppure utilizzare ogni lotta, e soprattutto quella armata per i privi­legi di grande potenza, al fine di smascherare e rovesciare ogni governo, ma prima di tutti il proprio governo, servendosi delle azioni rivoluzionarie del prole­tariato solidale internazionalmente. Non c’è via di mezzo, o in altre pa­role: il tentativo di tenere una posizione mediana, significa di fatto il passaggio coperto dalla parte della borghesia imperialista.

Tutto il libello di Barboni è appunto dedicato, di fatto, proprio a questo, cioè a coprire questo passaggio. Barboni si presenta come internazionalista, perfettamente allo stesso modo del no­stro sig. Potresov; argomentando che, dal punto di vista internazionale, bisogna stabilire il successo di quale parte sia più vantaggioso, o non nocivo, per il proletariato, definisce tale questione, s’intende, contro... Austria e Germania. Barboni, pienamente nello spirito di Kautsky, propone al Partito socia­lista italiano di proclamare solennemente la solidarietà degli operai di tutti i paesi, – in primo luogo, naturalmente, di quelli belligeranti, – le convinzioni internazionaliste, un programma di pace sulla base del disarmo e dell’indipendenza nazionale di tutte le nazioni, con la costituzione di «una lega di tutte le nazioni per una reciproca garanzia di inviolabilità e indipendenza» (p. 126). E appunto nel nome di questi principi, Barboni dichiara che il militarismo è un fenomeno «parassitario» nel capitalismo e «niente affatto necessario»; che l’Austria e la Ger­mania sono impregnate di «imperialismo militaristico», che la loro politica aggressiva è una «minaccia permanente alla pace europea», che la Germania «ha respinto in permanenza le proposte di riduzione degli armamenti avanzate dalla Russia (sic!!) e dall’Inghilterra» ecc. ecc., e che il Partito socialista italiano, al momento opportuno, deve dichia­rarsi per l’intervento dell’Italia dalla parte della Triplice Intesa!

Resta ignoto, in forza di quali principi possa preferirsi, all’imperialismo borghese della Germania, che economicamente si è sviluppata nel secolo XX più velocemente degli altri paesi europei e che è rimasta particolarmente «offesa» nella spartizione delle colonie, l’impe­rialismo borghese dell’Inghilterra, che si è sviluppata molto più lenta­mente, ha saccheggiato una quantità di colonie, ricorrendo spesso là (lontano dall’Euro­pa) a metodi di repressione non meno bestiali dei tedeschi, e arruolando, con i propri miliardi, milioni di soldati di diverse potenze continentali, per il saccheggio di Austria e Turchia, ecc. L’internazionalismo di Barboni si esaurisce, in sostanza, come in Kautsky, nella difesa a parole dei principi socialisti, ma sotto la copertura di tale ipocrisia, viene di fatto condotta la difesa della propria borghesia, quella italiana. Non è possibile non sottolineare che Barboni, avendo pubblicato il suo libro nella libera Svizzera (la cui censura ha cancellato solo metà di una riga, a p. 75, dedicata evidentemente a una critica all’Austria), per tutte le 143 pagine non ha sentito il desiderio di riportare le tesi fondamentali del manifesto di Basilea e analizzarle coscienziosamente. In compenso, il nostro Barboni cita con grande simpatia (p.103) due ex rivoluzionari russi, reclamizzati ora da tutta la borghesia francofila, il piccolo-borghese anarchico Kropotkin e il filisteo social-democratico Plekhanov. Per forza! I sofismi di Plekhanov, nella sostanza, non si distinguono in niente dai sofismi di Barboni. Solo la libertà politica in Italia strappa meglio i veli da questi sofismi e smaschera più chiaramente l’autentica posizione di Barboni, quale agente della borghesia nel campo operaio.

Barboni si duole per «l’assenza di un vero e autentico spirito rivoluzionario» nella social-democrazia tedesca (del tutto come Plekhanov); saluta caldamente Karl Liebknecht (come lo salutano i social-sciovi­nisti francesi, che non vedono la trave nei loro occhi); ma egli dichiara deci­samente che «non si può affatto parlare di bancarotta dell’Interna­zionale» (p. 92), che i tedeschi «non hanno tradito lo spi­rito dell’Internazionale» (p. 111), in quanto hanno agito convinti «in buona fede» di difendere la patria. E Barboni, nello stesso untuoso spirito di Kautsky, ma con una certa oratoria da epoca romana, dichiara che l’Internazionale è pronta (dopo la vittoria sulla Germania) «a perdonare ai tedeschi, come Cristo perdonò a Pietro, l’attimo di sfiducia, guarire, dimenticando, le profonde ferite inferte dall’imperialismo militarista e tenderà la mano per una pace dignitosa e fraterna» (p. 113).

Un quadro toccante: Barboni e Kautsky – non senza la partecipazione, verosimilmente, dei nostri Kosovskij e Akselrod – si perdonano l’un l’altro!!

Pienamente soddisfatto di Kautsky e Guesde, di Plekhanov e Kropotkin, Barboni non è soddisfatto del suo partito socialista ope­raio, in Italia. In questo partito, che ha avuto la ventura, ancor prima della guerra, di liberarsi dei riformisti Bissolati e Co, si è creata, vedete, una tale «atmosfera, che è impossibile respirare» (p.7) per chi (come Barboni) non condivide lo slogan della «assoluta neutralità» (cioè della lotta decisa contro la difesa dell’en­trata in guerra dell’Italia). Il povero Barboni si lamenta amaramente che individui come lui vengano definiti, nel Partito socialista operaio ita­liano, «intellettuali», «persone che hanno perso il contatto con le masse, fuorusciti dalla borghesia», «individui che hanno deviato dalla strada diretta del socialismo e dell’internazionalismo» (p. 7). Il nostro partito – si indigna Barboni – «fanatizza le masse, più che educarle» (p. 4 ).

Vecchio motivo! Una variante italiana del noto ritornello dei liqui­datori russi e degli opportunisti contro la «demagogia» dei malvagi bolscevichi, che «aizzano» le masse contro gli ottimi socialisti della «Naša Zarja», del Comitato di Organizzazione e della frazione di Čkheidze! Ma quale preziosa ammissione del social-sciovinista italiano, che nell’unico paese in cui, per parecchi mesi, è stato possibile discutere liberamente sui programmi dei social-sciovinisti e degli internazionalisti rivoluzionari, proprio le masse operaie, proprio il proletariato cosciente si sono messi dalla parte di questi ultimi, mentre gli intellettuali piccolo-borghesi e gli opportunisti dalla parte dei primi!

La neutralità è gretto egoismo, incomprensione della situazione internazionale, infamia verso il Belgio, è «assenza» – e «gli assenti hanno sempre torto», ragiona Barboni, del tutto nello spirito di Plekhanov e Akselrod. Ma, dato che in Italia ci sono due partiti legali, riformista e social-democratico operaio, dato che in questo paese non è possibile raggirare il pubblico, coprendo la nudità dei sigg. Potresov, Čerevanin, Levitskij e Co, con la foglia di fico della frazione di Čkheidze o del Comitato di Organizzazione, allora Barboni riconosce aper­tamente:

«Da questo punto di vista, vedo più rivoluzionarismo nelle azioni dei socialisti riformisti, che hanno compreso alla svelta quale immenso significato avrebbe per la futura lotta anticapitalista questo rin­novamento della situazione politica» (in conseguenza della vittoria sul militarismo tedesco) «e in piena coerenza, si sono messi dalla parte della Triplice Intesa, che non nella tattica dei socialisti rivoluzionari ufficiali che, precisamente come le tartarughe, si sono nascosti dietro lo scudo dell’assoluta neutralità» (p. 81).

A proposito di tale preziosa ammissione, a noi non rimane che esprimere l’augurio che qualcuno dei compagni che conoscono il movimento italiano, raccolga ed elabori sistematicamente l’enorme e interessantissimo materiale fornito dai due partiti italiani, sulla questione di quali strati sociali, quali elementi, con l’appoggio di chi, con quali argomenti, abbiano difeso, da una parte, la politica rivoluzionaria del proletariato italiano, oppure, dall’altra, il servilismo nei confronti della borghesia imperialista italiana. Quanto più materiale verrà raccolto nei diversi paesi, tanto più chiara risulterà, per gli operai coscienti, la verità sulle cause e il significato della bancarotta della II Internazionale.

Osserviamo in conclusione, che Barboni, di fronte al partito operaio, fa di tutto, a forza di sofismi, per cercare di entrare nelle grazie degli istinti rivolu­zionari degli operai. Egli raffigura i socialisti-internazionalisti in Italia, avversi a una guerra che è di fatto condotta per gli interessi impe­rialisti della borghesia italiana, come sostenitori di una vile astensione, desiderosi egoisticamente di imboscarsi di fronte agli orrori della guerra. «Un popolo educato alla paura di fronte agli orrori della guerra, si spaventerà verosimilmente anche per gli orrori della rivoluzione» (p. 83). E a fianco di tale disgustoso tentativo di acconciarsi a rivoluzionario, il riferimento grezzo-mercantesco alle «chiare» parole del ministro Salandra: «l’or­dine sarà mantenuto costi quel che costi», il tentativo di sciopero generale contro la mobilitazione condurrà solo a un «inutile macello»; «noi non fummo in grado di impedire la guerra libica (in Tripolitania), ancor meno potremmo impedire la guerra con l’Austria» ( p. 82).

Barboni, similmente a Kautsky, Cunow e a tutti gli opportunisti, consapevolmente, con il più infame calcolo di gabbare singoli elementi tra le masse, ascrive ai rivoluzionari lo stoltissimo piano di «far cessare» la guerra «d’un tratto» e di farsi prendere a fucilate dalla borghesia nel momento per essa più comodo – desiderando trovare una scappatoia dai compiti chiaramente posti a Stoccarda e a Basilea: servirsi della crisi rivoluzionaria per una sistematica propaganda rivoluzionaria e per la preparazione delle azioni rivoluzionarie delle masse. E che l’Europa stia ora vivendo un momento rivoluzionario, Barboni lo vede in modo perfettamente chiaro:

«...C’è un punto su cui ritengo necessario insistere, persino rischiando di annoiare il lettore, giacché non si può valutare correttamente l’attuale situazione politica, senza chiarire questo punto: il periodo che stiamo vivendo è un periodo catastrofico, un periodo d’azione, allorché la questione verte non sulla spiegazione delle idee, non sulla stesura di programmi, non sulla determinazione delle linee di condotta politica per il futuro, bensì sull’impiego delle forze vive e attive, per il raggiungimento del risultato nel corso di mesi, e forse addirittura solo di settimane. In tali condizioni non si tratta di filosofeggiare sul futuro del movimento proletario, ma di consolidare il punto di vista del prole­tariato di fronte al momento corrente» (pp. 87-88).

Ancora un sofisma spacciato per rivolu­zionario! 44 anni dopo la Comune, avendo attraversato quasi mezzo se­colo di raccolta e preparazione delle forze delle masse, nel momento in cui attraversa un periodo catastrofico, la classe rivoluzionaria d’Europa deve pensare a come diventare il più in fretta possibile lacchè della propria borghesia nazionale, a come aiutarla a saccheggiare, violentare, mandare in rovina, assoggettare popoli stranieri, invece che a dispiegare tra le masse una propaganda direttamente rivoluzionaria e la preparazione di azioni rivoluzionarie.

Pubblicato sul «Kommunist» N° 1-2, 1915

[LENIN, Polnoe sobranie sočinenij, 5°ed., Moskva 1962; vol. 27, pagg.14-23 – traduzione di fp]


NOTA * E’ in sommo grado istruttivo sottolineare il legame tra il passaggio dell’Italia al­l’imperialismo e l’assenso del governo alla riforma elettorale. Questa riforma ha elevato il numero di elettori da 3.219.000 a 8.562.000, vale a dire ha «quasi» concesso il suffragio universale. Fino alla guerra di Tripolitania, lo stesso Giolitti, che ha ora attuato la riforma, era decisamente contrario a essa. «La motivazione per il mutamento di linea da parte del governo» e dei partiti moderati – scrive Michels – è stata, per la sua essenza, patriottica. «Nonostante l’antico disgusto teorico verso la politica coloniale, gli operai industriali, e ancor più gli operai non qualificati, hanno combattuto contro i turchi in modo eccezionalmente disciplinato e ubbidiente, malgrado ogni previsione. Questo comportamento servile in rapporto alla politica governativa, meritava un riconoscimento, per spronare il proletariato a proseguire su questa nuova strada. In parlamento, il presidente del consiglio dei ministri ha dunque dichiarato che la classe operaia italiana, con il suo comportamento patriottico sui campi di battaglia in Libia, ha dimostrato di fronte alla patria di aver raggiunto d’ora innanzi il più alto grado di maturità politica. Chi è in grado di sacrificare la vita per un nobile scopo, è anche in grado di difendere gl’interessi della patria in qualità di elettore e ha perciò diritto a che lo Stato lo consideri degno della pienezza dei diritti politici». (p. 177). Parlano bene i ministri italiani! Ma, ancora meglio i «radicali» tedeschi social-democratici, che ripetono ora questo ragionamento servile: «noi» abbiamo adempiuto il nostro dovere, abbiamo aiutato «voi» a saccheggiare paesi stranieri, ma «voi» non volete dare «a noi» il suffragio universale in Prussia...

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