di Valeria Cagnazzo
È rientrato da poco in Italia dalla sua ultima missione a Gaza per conto della Onlus PCRF (Soccorso Medico per i Bambini Palestinesi) il dottor Angelo Stefanini. Esperto di Salute Internazionale, il volontario porta avanti con l’organizzazione un progetto di salute pubblica volto al rafforzamento dei servizi sanitari di base nella Striscia di Gaza, realizzato grazie al supporto dell’Otto per mille Valdese e del Centro di Salute Globale della Regione Toscana, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Ha lasciato Gaza pochi giorni prima che Israele avviasse la sua nuova campagna militare sul territorio occupato, nota questa volta come Operazione Alba, che ha già provocato almeno 31 vittime.
Stefanini ha lavorato dal 1978 al 1986 in ospedali rurali e in programmi di salute pubblica in Africa. Ha insegnato alle università di Leeds, di Makerere in Uganda e, dal 1997 al 2015, è stato docente presso l’Università di Bologna. Nei Territori Palestinesi Occupati è stato nel 2002 rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e, dal 2008 al 2011, responsabile del programma sanitario italiano. Nel 2007 ha ricoperto il ruolo di Team leader di un progetto dell’Unione Europea di assistenza tecnica a Damasco, Siria. Nel 2006 ha fondato il Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale dell’Università di Bologna, che ha diretto fino al suo pensionamento nel 2015. Dallo stesso anno, presta servizio volontario per il PCRF.
Lei è di recente rientrato dalla Striscia di Gaza, dove si occupa del progetto di salute pubblica della Onlus di cui è volontario, il PCRF. Ha incontrato medici e dirigenti del Ministero della Sanità di Gaza e visitato gli ospedali del territorio. Che situazione ha trovato?
Difficile e azzardato per me dare un giudizio sulla situazione generale (per quanto circoscritto al settore sanitario), anche perché in questa visita mi sono limitato a recarmi in centri sanitari governativi con cui collaboriamo e in fase avanzata di sviluppo del progetto. Quest’ultimo, più nel dettaglio, riguarda il rafforzamento del sistema informativo sanitario dei servizi di “primary health care” attraverso la fornitura di infrastrutture informatiche (l’hardware) e formazione sia tecnica che manageriale del personale locale. L’aspetto secondo me più appassionante di questa collaborazione sta nel fatto che il software, ossia l’insieme delle componenti immateriali del sistema informativo, è stato prodotto interamente e autonomamente con successo dai tecnici palestinesi del Ministero della salute. La visita di due dei centri sanitari già attrezzati e operativi è stata molto soddisfacente, pur dovendo accettare l’inevitabilità della debolezza della rete delle connessioni internet (controllate e prese di mira dalle aggressioni israeliane).
Lavora da molti anni per Gaza, sottoposta a un embargo internazionale dal 2007. A questo, nell’ultimo periodo si sono sommate le conseguenze della pandemia, quelle della guerra tra Russia e Ucraina, per non parlare delle ripetute operazioni militari di Israele sul territorio. Le autorità denunciano che Gaza non si è ancora ripresa dai bombardamenti del maggio 2021, proprio in questi giorni in cui dal cielo piovono di nuovo le bombe. Quanto è peggiorata la situazione negli ultimi due anni?
A un anno e mezzo dalla guerra, Gaza è frustrata dalla lenta ricostruzione. Solo 200 delle 1.700 unità distrutte sono state ricostruite a Gaza, secondo il Ministero dei Lavori Pubblici. Nel corso di giugno scorso molte organizzazioni hanno ricordato con rapporti di vario tenore i 15 anni dall’inizio dell’assedio da parte di Israele in violazione del diritto internazionale.
Dall’inizio del blocco, Israele ha lanciato quattro attacchi a Gaza (2008, 2012, 2014 e 2021). Queste escalation di violenza hanno peggiorato la già terribile situazione di Gaza. Migliaia di palestinesi sono morti nei bombardamenti israeliani, inclusi molti bambini. Decine di migliaia di case, scuole e edifici per uffici sono state distrutte. L’80% della popolazione di Gaza dipende per sopravvivere dagli aiuti internazionali.
Nel frattempo, la pandemia di COVID-19 continua a colpire il sistema sanitario sovraccaricato di Gaza, in particolare perché coincide con le barriere israeliane all’accesso sicuro ed equo ai vaccini; la mancanza di personale medico qualificato e specializzato e la persistente carenza di medicinali essenziali e usa e getta. Alla fine del 2021, il 40 percento dei farmaci essenziali e il 19 percento dei medicinali monouso erano a “zero scorte“, il che significa meno di un mese di fornitura disponibile presso il Central Drug Store di Gaza.
Il sistema sanitario di Gaza, già fragile a causa delle restrizioni di chiusura di Israele, è stato ulteriormente degradato durante l’offensiva militare israeliana del maggio 2021. A ciò vanno aggiunti gli attacchi alle strutture e al personale e restrizioni rigorose ai movimenti, che hanno gravemente compromesso l’accesso ai servizi sanitari sia all’interno che all’esterno di Gaza.
Quali strategie hanno messo in campo gli ospedali di Gaza per far fronte a situazioni estreme, quali l’elettricità disponibile per sole quattro ore al giorno e l’assenza di acqua potabile?
Per far fronte a situazioni estreme gli ospedali di Gaza non hanno che da rivedere continuamente le loro priorità in termini sia di accesso preferenziale a cure salvavita sia di “raschiare il fondo del barile” con l’utilizzo di personale demotivato e stremato. La carenza di elettricità proveniente dalla centrale istituzionale viene per quanto possibile contrastata con l’utilizzo di gruppi elettrogeni dipendenti dal combustibile la cui disponibilità Israele ovviamente provvede a rendere estremamente precaria. Lo stesso si può dire per la disponibilità di acqua potabile accessibile quasi esclusivamente in bottiglie preconfezionate. L’impianto di desalinizzazione inaugurato nel 2017 non è in grado di rispondere ai bisogni.
Quali sono le possibilità di formazione per i medici e gli studenti di medicina a Gaza? Lei si occupa di salute pubblica e di servizi sanitari di base, ma qual è la disponibilità di cure specialistiche sul territorio?
La disponibilità di cure mediche specialistiche si è gradualmente ridotta in questi ultimi anni sia per la minore disponibilità di specialisti sia per la quasi assenza di opportunità di aggiornamento professionale per gli specialisti esistenti. L’esodo verso l’estero di molti medici specialisti da Gaza ha portato il Ministero della salute a chiudere diversi reparti medici e chirurgici nei più importanti ospedali di Gaza. Questo fatto è il maggiore responsabile dell’aumento delle richieste di trasferimento di pazienti bisognosi di trattamenti specialistici verso ospedali fuori dalla Striscia di Gaza (Israele, Gerusalemme Est occupata, Cisgiordania, e altri paesi esteri).
ll regime dei permessi israeliani pregiudica l’accesso all’assistenza sanitaria essenziale per migliaia di pazienti palestinesi vulnerabili e i loro accompagnatori ogni anno. La politica di chiusura e le relative restrizioni all’assistenza sanitaria derivano da un più ampio sistema di discriminazione che viene imposto collettivamente ai Palestinesi sulla base della nazionalità e dell’etnia, e serve a frammentare il popolo palestinese e i servizi a sua disposizione, come l’assistenza sanitaria.
Delle oltre 15 mila domande di permesso per accedere a cure specialistiche fuori da Gaza presentate tramite l’Ufficio di collegamento sanitario palestinese da pazienti della Striscia di Gaza nel 2021, il 63,4% è stato approvato, lo 0,5% è stato negato e il 36,1% è stato ritardato, senza ricevere una risposta definitiva entro la data della loro nomina in ospedale. Sono proprio questi ritardi che spesso significano una sentenza di morte.
I bisogni di trasferimento sono legati alle lacune critiche nella disponibilità dell’assistenza sanitaria, che hanno un impatto enorme nella Striscia di Gaza. Le tecnologie mediche essenziali come le strutture di radioterapia e la TAC non sono disponibili nella Striscia di Gaza. Nel frattempo, si registra una carenza di farmaci e forniture di lunga data: nel corso del 2021, il 41% dei medicinali essenziali e il 27% dei dispositivi medici essenziali monouso avevano scorte rimanenti per meno di un mese nella farmacia centrale di Gaza. In termini di risorse umane, esistono carenze per diverse specialità mediche tra cui medicina di famiglia, nefrologia, oftalmologia e cardiochirurgia.
Un rapporto delle Nazioni Unite del 2012 aveva come titolo “Gaza nel 2020. Un posto vivibile?” e prevedeva che nel giro di otto anni, a causa della scarsità di acqua potabile, di elettricità, di servizi sanitari, la Striscia sarebbe diventata un territorio inabitabile. Nel 2022, Gaza è abitata da oltre 2 milioni di persone, che vivono in condizioni di vita sempre più drammatiche. Dimostrano, dunque, che è possibile abitare un posto inabitabile? E cosa rende abitabile o meno un territorio?
La previsione delle Nazioni Unite è una realtà per molti palestinesi a Gaza, che vivono con livelli vertiginosi di disoccupazione, condizioni economiche disastrose e crescente insicurezza. Un conoscente a cui ho posto questa domanda mi ha risposto: “We are alive for lack of death”, forse traducibile in “siamo vivi perché non possiamo morire”, quel “non possiamo” inteso sia che “la gente di Gaza resiste contro la morte per non darla vinta a Israele”, ma anche che, ormai è risaputo, l’importazione di cibo a Gaza viene regolata da Israele seguendo una cosiddetta “lista rossa” che contiene le quantità di calorie e materiale nutritivo appena sufficiente a tenere in vita il palestinese medio. Come affermò nel 2006 un consigliere del primo ministro Ehud Olmert, la politica israeliana era concepita “per mettere a dieta i palestinesi di Gaza, ma non per farli morire di fame”.
Se Gaza non è abitabile, non si può neanche parlare di “salute”, se ci atteniamo alla definizione dell’OMS.
Certamente no. Gaza è l’esempio paradigmatico, la metafora perfetta dell’assenza dei diritti, a cominciare del diritto alla vita e alla salute.
Ha denunciato anche un drammatico aumento di pensieri suicidari tra i più giovani.
Uno studio di Save the Children ha rilevato che l’80% dei giovani di Gaza vive in uno stato di angoscia emotiva tra il blocco israeliano e i ripetuti attacchi militari. Nell’ultimo anno oltre la metà dei minori palestinesi ha pensato al suicidio.
Durante il suo ultimo viaggio a Gaza, ha anche tenuto due seminari per il Ministero della Salute di Gaza. Uno di questi si intitolava “Gli aiuti malsani per la salute in Palestina”. Cosa intende con quell’aggettivo? Gaza subisce una condizione di forte isolamento da parte della comunità internazionale. Quando quei pochi aiuti che riceve si definiscono persino “malsani”?
Nonostante in passato mi fossi sempre concentrato su argomenti tecnici e con rilevanza locale, questa volta ho pensato (e ottenuto un faticoso assenso da parte della controparte palestinese) di offrire ai partecipanti, alti dirigenti del ministero della salute, una prospettiva più ampia delle questioni relative alla salute, nel tentativo di aiutarli a saltare virtualmente il muro che li tiene chiusi da oltre quindici anni impedendo loro di dare un’occhiata ai problemi globali solo apparentemente distanti dalla loro vita professionale e personale quotidiana.
La domanda che ho posto ai partecipanti per la discussione è stata: “Come mai abbiamo avuto un aiuto internazionale volto a sostenere il processo di pace israelo-palestinese e portare alla creazione di uno Stato palestinese e invece quello che è successo è una complessa frammentazione della Palestina che ha reso sempre meno plausibile la probabilità di una soluzione a due Stati?”
Il pensiero che ho loro presentato è che gli aiuti internazionali ai palestinesi sono uno strumento politico per limitare i danni creati da un problema politico che i Paesi donatori non osano affrontare. Perpetuando i difetti strutturali del settore sanitario, gli aiuti sono diventati una condizione essenziale per la sua sopravvivenza. Nonostante questa realtà, la tendenza è di “fare sempre più dello stesso”. Mentre è evidente che l’aiuto senza libertà di movimento per i palestinesi è ampiamente sperperato, i donatori si astengono dal fare pressioni su Israele sottovalutando l’effetto dell’occupazione israeliana sull’efficacia dell’aiuto. Tutto sommato come donatori siamo complici dello status quo.
I partecipanti al seminario sono rimasti d’accordo, pur con un sorrisino complice.
A proposito di aiuti internazionali, puntualmente quando inizia una nuova campagna militare su Gaza, come l’Operazione Alba, una parte della società civile si interroga su cosa si può fare. È ancora lecito, alla luce di quanto dice, chiedersi cosa potrebbe fare la comunità internazionale per aiutare la popolazione palestinese? Quali potrebbero essere alcune strategie di salute internazionale da mettere in campo, sul breve e sul lungo termine, per aiutare una terra “invivibile”?
Non esistono, secondo me, strategie di “salute internazionale” per aiutare la popolazione palestinese. Per aiutare la popolazione di Gaza dobbiamo smetterla: 1) di considerarla sempre e soltanto un problema umanitario, una continua “cronica” emergenza. Come ho scritto di recente, Gaza è un laboratorio in cui Israele sta sperimentando nuove regole, creando e mantenendo un problema umanitario per occultare quello politico. Sostituendo la politica con la compassione non si aiuta Gaza anzi le si fa violenza. 2) Di identificarla con Hamas. È ora di vederla per quella che è, fatta cioè di bambini, donne, uomini, famiglie, persino morti e sepolti, persone innocenti che sono padri o madri, sorelle o fratelli, figlie o figli.
Il nostro compito, il vostro compito di giornalisti deve essere quello di riportare Gaza nella sfera politica, di parlare di quello che succede a Gaza anche quando non viene bombardata, inserendola in una cornice giuridica internazionale (15 anni di blocco illegale!) e denunciando la crisi umanitaria esistente come sintomo e risultato dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid dell’intera Palestina.
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