di Pasquale Cicalese
Siamo figli della generazione della deflazione salariale, delle privatizzazioni, dei tagli alla spesa pubblica, dello smantellamento del salario sociale globale di classe.
Una storia iniziata negli Usa nel 1976, in risposta alla lotta di classe del movimento operaio statunitense, e in Italia con l’austerity a fine anni Settanta, ma che si esplicitava a partire dalla separazione tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 e, soprattutto, dopo il Britannia di Draghi, dal 1992.
Contemporaneamente, si avviava la politica delle banche centrali occidentali dell’asset inflation, il gonfiamento dei valori di bond e azioni buoni per la rendita finanziaria. Rendita finanziaria che prendeva il sopravvento sul capitale industriale, in crisi di valorizzazione del a partire dalla fine degli anni Sessanta.
La risposta al movimento operaio statunitense provocava la delocalizzazione di enormi impianti industriali prima in Messico e poi in Cina e più in generale in Asia.
Ma la Cina, forte dell’alfabetizzazione di massa voluta da Mao a partire dal 1948, si avviava ad industrializzarsi per conto suo, sfruttando il trasferimento di tecnologia occidentale e poi, con il salto tecnologico, creando colossi pubblici con respiro mondiale.
La dipendenza dal commercio estero negli ultimi 14 anni, dopo la Legge sul Lavoro del 2008 e l’adesione al marxiano plusvalore relativo – organizzazione tecnologia e manageriale, salto tecnologico, alta qualificazione dei lavoratori, aumento del valore dei beni industriali, apporto di istruzione e scienza – spostava lo sbocco mercantile verso il mercato interno, reflazionato in termini salariale e di salario sociale di classe.
Ora siamo al post pandemia e alle tensione mondiali (Ucraina e Taiwan). Con il zero Covid, la Cina si chiude, provocando anche un aumento del tasso di disoccupazione, voluto dal governo in risposta all’arroganza occidentale (prezzo da pagare, evidentemente).
I tassi sono stati abbassati, il differenziale inflazionistico – enorme – a favore della Cina, provoca da mesi il record del surplus commerciale, il ritiro dei capitali dall’Occidentale, unito ad un aumento del flusso in entrata di capitali, gonfia di liquidità la Cina, che, diversamente dal passato, non la riverserà sull’asset inflation occidentale, ma su Brics, Africa, Asia, e America Latina, costruendo connessioni infrastrutturali e reti commerciali che provocheranno, in diverse zone, il salto tecnologico, l’aumento della produttività dei fattori produttivi, il plusvalore relativo e spese sociali, sul modello cinese degli ultimi 15 anni.
In Occidente l’asset inflation ora si rivolge verso le materie prime, impoverendo, per il tramite dell’inflazione, ceti medi e popolari e piccole imprese. La distruzione di mercato iniziata negli Usa nel 1976 sembra non avere fine.
Un ultimo appunto: i cinesi assaporano il benessere, vogliono godersi la vita, la politica dello zero Covid gliela sta impedendo, vogliono conoscere il mondo, viaggiare, istruirsi su altri paesi.
Prima o poi questa contraddizione, se il governo non molla la presa, esploderà.
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