di Fabio Mini - Il Fatto Quotidiano - 6/08/2022
Molti si sono chiesti che significato avesse la visita di Nancy Pelosi a Taiwan in un momento così delicato dei rapporti internazionali e in particolare quelli tra Stati Uniti e Cina, Russia, Asia centrale, India, Medio Oriente, Africa, Sudamerica e perfino parte dell’europa nominalmente europeista e atlantista. Forse analizzando nei dettagli proprio questo sintetico elenco si potrebbe fare un po’ di luce e fugare i sospetti che la speaker della Camera dei Rappresentanti statunitense sia diventata matta o incosciente. Potrebbe spiegare perché il presidente Biden abbia aderito alla sceneggiata di non ritenere la sua amministrazione responsabile delle intemperanze della Pelosi. Poteva evitarla perché pleonastica: in un paese che si dice democratico le istituzioni parlamentari sono autonome. Poteva evitarla perché tentando di sganciarsi di fatto ha confermato ciò che Pechino pensa della democrazia americana: un sistema che celebra ogni giorno l’uomo più potente del globo terracqueo, il vertice unico, il simbolo del potere nazionale e internazionale e il Comandante in Capo delle Forze Armate più forti e armate del mondo e, allo stesso tempo, un sistema che coltiva l’anarchia e il caos proprio in materia di sicurezza nazionale e mondiale. Poteva evitarla perché di fatto la Pelosi non ha voluto o potuto dire una sola cosa diversa da quello che l’America dice a Taiwan da Nixon in poi: “difenderemo la democrazia dell’isola a qualsiasi costo”. Semmai, la novità sta nel fatto che la Cina ha colto l’occasione per far capire qual è il costo: per Taiwan e l’America stessa. È una minaccia o un avvertimento? Per la Cina è una questione pedagogica: Taiwan e l’America vanno aggiornate sullo stato della Cina, sulla sua determinazione e sulle sue capacità civili e militari in campo internazionale. Troppa gente, troppi studiosi e troppi governi sono rimasti alla Cina di Mao e al partito comunista cinese gretto e monolitico.
NELLA CRISI Taiwan-Pechino del 1996, Taiwan, in periodo pre-elettorale e pre-separazione, fece esercitazioni a fuoco sull’isoletta di Qinmen, allora sua roccaforte militarizzata, sparando sulla terraferma cinese distante una decina di chilometri. Colpi di contraerea ammazzarono un paio di cinesi alla periferia di Xiamen. Pechino rispose con delle esercitazioni nelle proprie acque territoriali che, per la prima volta, non prevedevano l’assalto alle coste di Taiwan con le truppe da sbarco e le artiglierie, ma si affidavano ai missili. La Cina ne aveva qualche decina e disponeva di 4, di numero, missili intercontinentali schierati al confine con la Russia. Due portaerei statunitensi si spostarono nello stretto per segnalare a Taipei il supporto concreto degli Stati Uniti, fu una provocazione per la Cina, ma non fu una rassicurazione sufficiente per Taiwan. Per un decennio le spinte separatiste a Taiwan si calmarono e anzi si aprirono spiragli di cooperazione. Nessuno tirò fuori le questioni umanitarie e la democrazia. Né la Cina né Taiwan sapevano cosa fossero e comunque i loro sistemi erano ancora quelli ereditati dai due rispettivi leader: Mao a Pechino e Chang Kai Shek a Taipei. Per entrambi la democrazia era una mattana occidentale e i diritti umani erano soltanto quelli della comunità e non degli individui. Per entrambi la comunità era rappresentata dal Partito unico e assoluto. Con tale Cina e tale Taiwan gli Usa avevano fino a quel momento dialogato a modo loro trattando entrambi come serbatoi di lavoro e risorse. E continuarono a farlo. Da allora un minimo di istituzioni democratiche è apparso a Taiwan, ma soprattutto si è rafforzato il nazionalismo taiwanese che rinnega di essere figlio di quello cinese. Anche in Cina il sistema si è modificato: il partito non è un monolite e la popolazione ha visto migliorare le proprie condizioni e prospettive di vita. È risorta la consapevolezza di essere un grande paese e di avere enormi opportunità. Talvolta è spocchia, ma in generale è un sentimento genuino. In compenso, l’America ha pensato bene di alienarsi la simpatia cinese non tanto con la potenza militare, che i cinesi ammirano e tentano di emulare, quanto con la pretesa ideologica di imporre le proprie regole e i propri interessi che, di fatto, impediscono alla Cina di migliorare anche lo stesso sistema politico.
LE CONTINUE MINACCE di guerra e di sanzioni rafforzano le parti più estremiste della Cina. Le continue violazioni americane della sovranità cinese nel mari del sud hanno portato al rafforzamento e l’irrigidimento delle pretese cinesi che comunque non nascono da un diktat comunista, ma dall’adesione della Cina alla convenzione delle Nazioni Unite sulla cosiddetta “Legge del Mare” che offre spunti di interpretazione non ancora chiariti. Gli Stati Uniti non li considerano perché non hanno mai ratificato la Convenzione e si attengono alla propria interpretazione della “libertà di navigazione”. La campagna anticinese promossa dagli Stati Uniti e dall’occidente è qualcosa d’incomprensibile per tutti i cinesi che vedono il proprio paese profondamente cambiato. Nancy Pelosi ha perciò offerto alla Cina l’opportunità tutta didattica di spiegare cosa è cambiato negli ultimi trent’anni. Lo farà con gli assaggi di misure economiche ai danni di Taiwan (e non solo) e con i saggi militari nei confronti degli americani. Le navi da guerra sono aumentate, gli armamenti sono sofisticati e potenti, gli aerei pure e la quantità di missili a disposizione è maggiore della capacità di stoccaggio. L’esercito cinese non si sta preparando a invadere l’isola e occuparla, ma soltanto a sbarcare in un paese lunare tutto da ricostruire. Il governo cinese dell’isola è già pronto da tempo, con i suoi progetti e i suoi dirigenti, sbarcherà tra i primi. Mentre non è pronto nulla per un governo americano di Taiwan o di qualsiasi altra parte cinese o del mondo che gli americani tentano di destabilizzare. Alle loro campagne militari è sempre seguito il caos civile e sociale.
Nancy Pelosi ha anche aperto la verifica del bluff cinese dell’invasione e quello americano del sostegno a Taiwan, nel peggiore dei modi, incitando e dividendo, ma se durante la visita avesse appena percepito la portata dei rischi per la sicurezza americana e internazionale, se dalla constatazione dei cambiamenti e dalla ricusazione degli stereotipi venisse un cambio di atteggiamento da una parte e dall’altra, se lo scontro tra Cina e America si trasformasse in incontro, la Pelosi potrebbe passare alla storia come “patriota del mondo”. Sarebbe invece un disastro se gli stereotipi e le ideologie incancrenite rimanessero, se la visita della Pelosi a Taipei fosse soltanto un modo per aiutare il compagno Biden a superare le difficoltà interne e il crescente distacco dell’America dal resto del mondo, come fu la sua visita in Ucraina, se fosse il gesto inconsulto di una vecchia signora che crede di “aiutare” i popoli portandoli alla guerra. E sarebbe perfino peggio se la Pelosi a Taipei avesse voluto esprimere il personale disprezzo per la Cina e il suo popolo come fu, lucido e indimenticabile ma fortemente divisivo, il disprezzo personale per il presidente Trump quando strappò il testo del suo discorso appena tenuto davanti al Congresso riunito.
Questione didattica il Dragone mostrerà come è cambiato dai tempi di Mao: assaggi di misure economiche ai danni di Taipei e saggi militari diretti agli americani.
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