10/12/2018
Gilet gialli, rossi e Negri
Dopo un mese di mobilitazione, è ormai luogo comune entusiasmarsi per le vicende francesi. Se invece del sostegno politico ci spostassimo sulla riflessione cosciente, la cosa meno improbabile è stata scritta da Toni Negri (L’insurrezione francese). Dal punto di vista politico, però, occorre sgomberare il terreno dalle parodie deliro-marxistiche che, come quasi sempre, corrono in soccorso del potere costituito: “non è una rivolta di classe”, ammoniscono solerti difensori di ogni status quo. Come se nelle rivolte di classe fosse mai apparsa, in qualche angolo della storia, quella purezza alla quale tali pensatori rimandano: «si comincia, poi si vede», diceva Lenin riprendendo Napoleone. Ed è dentro questo spirito che tutte le forze rivoluzionarie si sono sempre mosse: nell’occasione, che non è né predeterminata né socialmente definita. Fatta dunque la premessa che in una rivolta politico-sociale ci si sta fino a che la finestra di possibilità rimane aperta, anche fosse un solo spiraglio, se al contrario volessimo tentarne un’analisi occorrerebbe frenare i facili entusiasmi che circolano ormai in tutte le gradazioni della politica, da Forza Italia all’estrema sinistra (esclusa, come detto, la parodia gendarme celata dietro prose marxiste).
E qui Toni Negri coglie nel segno. Negri non ha l’entusiasmo del neofita, che si impressiona di ogni simulacro di rivolta sociale. Riconosce che lo spazio «dell’insurrezione», come lui la definisce, va lasciato aperto, va allargato e organizzato, più che richiuderlo attraverso scomuniche libresche. Eppure ci sono fattori particolari alla base di una rivolta simile che vanno tenuti in considerazione. Questa è una rivolta che ha ragioni generali, legate al processo di straordinario impoverimento determinato dalla fase neoliberale, ma ha anche ragioni specifiche, «francesi», che la rendono difficilmente replicabile altrove. Partiamo dalle ragioni generali.
La rivolta, «l’insurrezione», ha preso in Francia dimensioni che eccedono la normale gestione dei rapporti politici, ma è tutto fuorché singolare. E’ l’ennesimo episodio di un rifiuto popolare che è emerso carsicamente e contraddittoriamente in molti altri punti dell’Occidente capitalistico. E’ lo stesso fenomeno che ha portato alla Brexit e alla vittoria elettorale di Trump, al braccio di ferro tra Syriza e la Ue così come all’affermazione politico-elettorale del governo giallo-blu in Italia. E’ alla radice della consistenza elettorale di Podemos in Spagna e di Alternative fur Deutschland in Germania, e dei mille altri rivoli politico-sociali di cui si compone questo rifiuto delle politiche neoliberali in Occidente. Tutti questi episodi, diversi e al tempo stesso collegati da una radice comune, esprimono la forza dell’attuale populismo quale incrocio di interessi tra una vasta porzione di proletariato urbano e un’altrettanta vasta porzione di borghesia legata al proprio mercato domestico, alla domanda interna di paesi che da un decennio vedono contrarsi il proprio mercato nazionale. Una piccola borghesia che non ha la forza produttiva di concorrere sui mercati internazionali, che non riesce a reggere i ritmi competitivi che l’export impone, e che dunque vede progressivamente restringersi i propri margini di profitto, vista la staticità del mercato interno di tutti i paesi Ue (anche della Germania, anzi: soprattutto della Germania, dove la domanda interna è stagnante da più di un decennio).
Non sono dunque «rivolte di classe», sono in tutto e per tutto rivolte popolari, che uniscono materialmente gli interessi di due classi diverse, il proletariato che vede ridursi il peso della propria busta paga e quella borghesia che non sa più a chi vendere i propri prodotti, e per questo perde costanti quote di potere economico. Di qui il (terribile termine) «sovranismo», idea-forza attorno a cui si struttura un discorso molto semplice, composto di due punti essenziali: basta globalizzazione e ricette economiche liberiste votate all’export; rafforzamento dei mercati nazionali attraverso una “riconquista” di potere economico tanto dei lavoratori quanto dei padroni. E’ uno schema che regge sul piano economicistico, perché i due settori condividono uno stesso problema. Resiste meno sul piano politico, perché le proposte («meno tasse» e «più protezione sociale») possono essere malamente sommate ma non sintetizzate. Di qui la natura ibrida che vediamo in Italia col contratto di governo che cerca di tenere insieme le due tendenze, ma che si ripresenta similare negli altri contesti. Questa dinamica riesce però a tenersi confusamente unita anche sul piano dei rapporti politici per via dell’Unione europea. Questo è l’altro elemento generale che contraddistingue le “rivolte populiste” di cui sopra.
In altri tempi le difficoltà attuali sarebbero state governate allargando i cordoni della borsa. Attraverso la leva del debito, dell’inflazione e della svalutazione competitiva, si sarebbe proceduto a quella redistribuzione economico-clientelare che avrebbe tenuto sotto controllo le ansie quantomeno della piccola borghesia, ma tutto sommato anche del proletariato, almeno di quello poco cosciente posto fuori dai normali circuiti politico-organizzativi controllati nel rapporto Pci-Cgil (per quanto anche questi due soggetti avrebbero provveduto a “normalizzare” la situazione, impedendo «l’insurrezione» ma portando a casa concreti risultati economici per la propria base sociale). Oggi questa traiettoria è impossibile per la presenza dell’Unione europea, cioè di un insieme di meccanismi fiscali caratterizzati dal forte orientamento liberista (più precisamente «ordoliberale»). Se, inoltre, ci mettiamo che il controllo di tali regole spetta a una tecnocrazia non eletta e insondabile (l’ubriacone Junker, il gaffeur Oettinger, eccetera), arriviamo alla costituzione del nemico perfetto, un nemico che però non è solo immaginario e ideologico, ma reale: l’Unione europea racchiude il senso storico di questo impoverimento collettivo. Non fanno eccezione i rappresentanti locali di questa, i vari Macron e Renzi. In altri tempi Macron avrebbe agevolmente controllato questo malessere con gli strumenti di cui sopra. Oggi che questo è impossibile, come dice giustamente Negri la situazione è «chiusa», sia nel senso di «disperata» che immediatamente confliggente. E’ una rivolta delle «prigioni», valorosa e senza sbocchi. Complice anche il processo storico di rimozione dei corpi intermedi della società, a scontrarsi è immediatamente una parte del popolo e il vertice del potere costituito. Questo scontro è presente ovunque in Europa, ma in Francia assume il carattere para-insurrezionale che vediamo in questi giorni: e qui arriviamo alla cornice specifica e non replicabile del caso transalpino.
I contorni popolari della rivolta francese dei gilet gialli hanno una fortissima trazione borghese. E’ inutile raccontarci ciò che non è, cioè una presenza decisiva del proletariato, o addirittura del proletariato migrante, nel determinare il valore politico di questa eccedenza popolare. Sebbene non decisiva, la presenza di forti quote proletarie dovrebbe chiarire il senso complessivamente positivo e “contendibile” delle mobilitazioni. Ma questo lo abbiamo già detto come premessa. Quello che invece non viene compreso è che la borghesia francese ha prodotto nel corso di due secoli una fortissima auto-coscienza fondata su una rivendicata autonomia politico-culturale come non esiste né in Italia né in Germania. La borghesia francese è reazionaria e colonialista, ma al tempo stesso (o proprio per questo) gelosa della propria tradizione politica, disposta a difendere i propri margini di manovra senza il timore reverenziale di concedere alleanze di popolo. E’ attorno ai valori della Republique che può essere compresa la presenza politica di Melenchon e della sua France insoumise. Quale altra forza dell’estrema sinistra potrebbe agglutinare consensi trasversali ma a trazione proletaria attorno ai valori della “repubblica” in Italia o in Germania? In questi due paesi (e negli altri contesti europei, tranne che in Russia, non per caso ma per precise determinazioni storiche secolari) le forze dell’estrema sinistra (parliamo qui di un’estrema sinistra intesa seriamente, non le buffonate à la Fassina) sarebbero immediatamente contro lo Stato e i suoi valori costitutivi, e per fortuna. In Italia e in Germania l’estrema sinistra sarebbe immediatamente anti-colonialista, laddove in Francia per decenni si è vissuto l’equivoco di una sinistra comunista antimperialista ma tacitamente soddisfatta del proprio ruolo coloniale. Non per caso in Italia una protesta apparentemente similare ha preso la strada dei cosiddetti «forconi», cioè una parodia in sedicesimi di ciò che in Francia si esprime con la forza a cui assistiamo in questi giorni. Perché in Italia non può esserci, o quantomeno non potrebbe mai durare, un’alleanza fondata sull’azione politica illegale di una borghesia culturalmente minorata e un proletariato per fortuna vaccinato alle retoriche colonialiste, tanto verso l’esterno quanto verso l’interno (certo è un patrimonio in via di dispersione, ma in assenza di redistribuzione colonialista interna, cioè di collegamento tra imperialismo e propria busta paga, quest’alleanza non s’ha da fare di qui a breve). La borghesia italiana (e, nonostante il diverso peso, quella tedesca) è una classe dipendente dai voleri dell’imperialismo anglosassone, laddove quella francese conserva quote di indipendenza. Sempre meno? Può essere. Ma ad oggi è così, e questo determina la differenza fondamentale tra Italia e Francia, dunque le speranze di replicare da noi ciò che si muove in Francia e che riattiva motivi secolari che da noi non possono esserci.
Da noi un vero populismo di sinistra, inteso à la Melenchon, non potrebbe mai darsi, perché la quota borghese (perché in ogni populismo c’è una quota borghese, altrimenti sarebbe un’autonomia di classe) sarebbe immediatamente controllata e disincentivata dai referenti internazionali: “tornate al vostro posto” direbbero subito i vari BlackRock e JPMorgan per bocca di Monti e Draghi a loro volta mediati dai vari Renzi e Berlusconi. Questo non significa né smentisce che una nuova sinistra popolare deve farsi carico dei problemi che oggi agita il populismo, invece di ignorarli o schifarli in nome dell’ortodossia, come avviene puntualmente quando anche da noi si verificano contraddizioni di questo tipo. E questo non significa banalizzare la questione nazionale che l’Unione europea ha messo al centro del discorso politico, anzi. Occorre oggi più che mai un nuovo discorso sulla nazione, né astrattamente internazionalista (quindi cosmopolitico), né a ricasco delle suggestioni scioviniste e “sovraniste” egemonizzate dalle destre reazionarie. Attorno a questo nuovo discorso sulla nazione potrà nascere quella sinistra popolare nazionale e al tempo stesso internazionalista. Non avremo mai una «insurrezione», in Italia, che al tempo stesso da fuoco alle macchine e sventola la bandiera italiana o, se ci sarà un caso simile, sarà un fatto immediatamente di destra, e ci sarà da avere paura. In Francia è un’altra cosa, e non è detto che sia per forza di cose “meglio”. Di certo a cospetto della triste italietta di oggi tutto desta in noi la maraviglia. Per non meravigliarsi occorre l’esperienza delle lotte di classe. Quella che ha un anziano minchione come Negri.
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