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28/12/2018

I Gilets Jaunes e la responsabilità della sinistra

Il miglior alleato del governo di fronte ai “giubbotti gialli” è l’estrema destra, la cui azione antisemita e razzista rovina le richieste democratiche e sociali del movimento. La responsabilità della sinistra è quindi decisiva per evitare questo faccia a faccia mortale. Tuttavia, a forza di divisioni e precauzioni, la sinistra potrebbe perdere questo appuntamento.

Ogni compiacenza di fronte ai tentativi dell’estrema destra antisemita, razzista e xenofoba di annettere e deviare il movimento dei “giubbotti gialli” annuncia la rovina delle sue iniziali richieste democratiche e sociali. Partendo dalla disuguaglianza naturale, che sostiene gerarchie tra umanità, origini, condizioni, culture, religioni, sessi e generi, l’estrema destra è nemica di ciò che è il motore iniziale della rabbia delle rotatorie: una richiesta radicale di uguaglianza di fronte all’ingiustizia fiscale e contro l’espropriazione politica (vedi il nostro articolo La bataille d’élegalité).

La caccia ai capri espiatori – l’ebreo, l’arabo, il musulmano, lo straniero, il migrante, l’omosessuale, etc., insomma l’altro, diverso o dissidente – non ha mai fatto la fortuna del popolo, ma sempre la sua disperazione. Essa apre la strada alle forze autoritarie che utilizzano il veleno identitario per difendere il perpetuarsi delle ingiustizie sociali e delle disuguaglianze economiche. Dalla sua nascita ideologica alla fine del XIX secolo, al centro delle nostre modernità industriali e tecnologiche, il razzismo è stata l’arma ricorrente delle classi dominanti in pericolo per uccidere le rivendicazioni sociali e la speranza democratica (leggi qui sul mio blog).

Diversi episodi recenti – tra cui l’espressione virulentemente antisemita di sabato 22 dicembre, a Montmartre, di un gruppo di estrema destra in giubbotti gialli (leggi qui e qua) – fanno sì che questo tema, lungi dall’essere teorico, è divenuto estremamente pratico per il futuro di un movimento sociale in corso e in attesa. L’abbiamo scritto fin dall’inizio: la sua storia non è scritta in anticipo e la sua traduzione politica ancor meno. Inedito, imprevisto e imprevedibile, come sono tutte le rivolte popolari spontanee, al di fuori di ogni quadro preesistente e di ogni organizzazione costituita, questo emergere di un popolo finora colpito dall’invisibilità e dal disprezzo, può al tempo stesso alzarsi e perdere la strada.

Colto da questa ricorrente grande paura dei possessori di fronte ad una rabbia incontrollabile, come dimostra il mantenimento dell’ordine di una violenza che non si vedeva dal 1968 (leggi questa dichiarazione di un sociologo della polizia), il governo gioca sulla perdizione del movimento, facendo dell’estrema destra il suo migliore alleato. Mentre i reportage sul campo (leggi in particolare quelli di Mediapart nel nostro dossier, ma anche di Florence Aubenas in Le Monde) mostrano una realtà di giubbotti gialli che è altrimenti complessa e diversa, più vicina alle cause dell’emancipazione che alla caccia al capro espiatorio, tutto è fatto, a livello mediatico e politico, per cogliere il minimo incidente razzista per screditarli. Aumentando l’effimero a scapito dell’inchiesta, l’informazione continua è qui un’arma di accecamento di massa, mostrando solo ciò che rafforza paure e pregiudizi.

Alla camera mortuaria di classe contro la quale i giubbotti gialli si sono sollevati, di fronte a un potere dall’alto che si ritiene “troppo intelligente, troppo fino“ per chi sta sotto, si aggiunge una squalifica morale: non solo questo popolo non capisce e non intende nulla, ma è anche politicamente terribile, persino mostruoso. Torna l’antifona delle “classi operaie, classi pericolose“ che unì le borghesie nel XIX secolo, in ascesa sulle rovine dell’Ancien Régime. Da questo punto di vista, i giubbotti gialli sono trattati allo stesso modo dei giovani dei quartieri popolari, se ci si ricorda dei cori contro questi nuovi “barbari” che hanno accompagnato lo stato di emergenza decretato – per la prima volta dalla guerra d’Algeria – durante i disordini del 2005.

È inevitabile che l’estrema destra agisca all’interno dei giubbotti gialli del paese che, storicamente, l’ha vista emergere durante l’affare Dreyfus e dove, soprattutto, si è nuovamente affermata nella dinamica elettorale dopo 38 anni (2,2 milioni di voti alle elezioni europee del 1984). D’altra parte, non è vero che impone loro la sua agenda ideologica, ed è qui che la responsabilità della sinistra è impegnata nella diversità delle correnti di pensiero – partiti, sindacati, associazioni, ecc. – frutto di lunghe battaglie, ancora incompiute, sempre da ricominciare, per una Repubblica democratica e sociale. Tuttavia, è un eufemismo dire che, per il momento, stia mancando questo appuntamento.

L’atteggiamento delle principali organizzazioni interessate è in bilico tra un atteggiamento da attendista e da gregario. Un attendismo da parte di coloro i quali, piuttosto che andare ad affrontare l’estrema destra sul campo, si mantengono a una distanza di sicurezza da un movimento che non dirigono né controllano. Un aggregarsi da parte di coloro i quali, invece di assumere una chiara e decisa pedagogia antifascista, relativizzano con compiacenza le derive che non dovrebbero trovare alcuna scusa. Mentre molti attivisti, sindacalisti o politici, hanno spontaneamente preso parte alla rivolta dei giubbotti gialli, come dimostrano i ricchi contributi del Club partecipativo di Mediapart (per esempio qui, qui e qui), l’imbarazzo e la confusione sembrano essere ampiamente condivisi ai vertici delle organizzazioni interessate.

Se questa situazione persiste, c’è il grande rischio che l’estrema destra sia la grande vincitrice di questa crisi, consolidando la sua posizione di unica sfidante di un potere che, nel 2017, si è fatto eleggere in nome del suo rifiuto. È ancor più grande se si continuano ad aggiungere incomprensibili divisioni faziose, perché questo è un momento storico e decisivo per tutte e tutti coloro che si dichiarano appartenenti a una sinistra democratica, sociale ed ecologica. La questione non è tanto quella delle prossime elezioni europee, dove la messa sembra già pronunciata, con ogni forza di sinistra che si appresta a correre in un corridoio separato. No, è più concretamente e urgentemente quella di ciò che sta accadendo e si sta giocando sul campo, alle rotatorie e altrove.

Come la riuscita convergenza ecologica e sociale durante la marcia sul clima, intorno allo slogan “Fine del mondo, fine del mese, per noi è la stessa battaglia”, le sinistre farebbero bene a inventare i propri punti di incontro locali al fine di unire le forze per partecipare al movimento in corso nel rispetto della sua autonomia. Queste hanno tanto da imparare dal movimento, dato che ricorda ai partiti di sinistra la perdita della loro base popolare e il loro isolamento nel comfort istituzionale (vedi qui in Libération), tanto da contribuire accompagnando la sua inventiva democratica e la sua radicalità sociale. I colpi da prendere, di fronte ad un movimento indocile ai recuperi, sono di scarso peso di fronte al rischio che venga sommerso da disperazione e risentimento. È immaginabile che oltre alle bandiere blu, bianca e rossa, il cui simbolo può significare sia un gradito ritorno alla memoria repubblicana, sia un infelice ripiegamento in una riserva identitaria, ci siano altri colori tricolori, che combinano giubbotti gialli, verdi e rossi?

In ogni caso, bisogna sperarlo intanto che, tra l’emergenza climatica, la regressione democratica e l’ingiustizia sociale, il tempo scorre, in Francia come altrove nel mondo. Allo spettacolo dei fallimenti, dell’impotenza e delle rivalità che ormai caratterizzano le sinistre indebolite e divise, come non avere la sensazione che non abbiano consapevolezza della gravità dell’epoca? Come se, mentre l’umanità fosse rinchiusa in una stanza le cui quattro pareti si avvicinassero ad alta velocità, continuassero a discutere sulla distribuzione dei mobili! Allo stesso tempo, solo le mobilitazioni della società, popolari e unitarie, possono scongiurare una catastrofe di cui conosciamo in anticipo i contorni: poteri autoritari, al servizio di interessi economici socialmente minoritari, trascinando i loro popoli in guerre identitarie e distruggendo gli esseri viventi del mondo.

I giubbotti gialli sono quell’opportunità che la sinistra dovrebbe cogliere. In Le Sens des affaires (Calmann-Lévy, 2014), il suo libro sui casi di corruzione che minano la fiducia nella democrazia, Fabrice Arfi ha riesumato una visione folgorante di Victor Hugo nel luglio 1847 nelle sue Cose Viste, allo spettacolo di una lussuosa dissolutezza mostrata sotto lo sguardo del popolo parigino: “Quando la folla guarda i ricchi con quegli occhi, non sono pensieri che sono presenti nella testa di tutti, sono eventi”. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1848, una rivolta popolare rovesciò la monarchia e diede vita alla Seconda Repubblica...

L’evento creativo, imprevedibile e incontenibile. Sì, eventi il cui svolgimento, mai scritto in anticipo, dipende sempre dall’azione o dall’inazione di coloro che li convocano. Ecco perché la responsabilità della sinistra è al giorno d’oggi immensa.

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