L‘intervento della Commissione Europea sulla “manovra” si vede, si sente, si tocca... Sforbiciate paurose alla voce “uscite” e proporzionali rigonfiamenti della voce “entrate”.
Questo è un primissimo esame a caldo, sarà dunque necessario digerire tutto l‘insieme di dati e tabelle prima di poter delineare nei particolari le conseguenze di questa “legge di stabilità” partita con l‘intento di “far vedere chi siamo” in Europa e trasformatasi in una disfatta seconda solo a Caporetto.
L‘unica cosa che va sottolineata subito è che “l‘opposizione” parlamentare (il Pd, capiamoci...) la critica in modo suicida: per loro si doveva fin dall‘inizio scrivere sotto dettatura, senza nulla a pretendere.
Bisogna comunque dire che a Bruxelles hanno capito la pericolosità di una vittoria troppo schiacciante e quindi hanno autorizzato un po’ di spesa per le due misure-simbolo di questa maggioranza di governo: quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza. Naturalmente la spesa destinata a queste voci ha subito tagli drastici, ma non tali da annullare del tutto la possibilità di fare annunci sul “mantenimento delle promesse”. Bisognerà attendere la reazione delle platee degli esclusi dai due provvedimenti (molto più larghe di quanti saranno effettivamente i beneficiari, e in ogni caso secondo condizioni meno favorevoli di quanto premesso) per vedere quanto la propaganda governativa sarà stata capace di “tener buoni” gli speranzosi. Almeno un leghista e un vicino di casa di Di Maio, insomma, dovrebbero rientrarci...
Una prima riduzione arriva dalla data di partenza della nuova normativa per le pensioni (primo aprile 2019), che consente di tagliare un quarto della spesa aggiuntiva prevista nel nuovo anno. Questo “taglietto” era già stato inserito nel testo inviato per l‘esame a Bruxelles. Da lì è tornato con una ulteriore riduzione: 2,7 miliardi in meno per quota 100 e meno 1,9 miliardi per il reddito di cittandinanza. Impossibile per noi quantificare quanti beneficiari potenziali verranno esclusi, ma è evidente che si tratterà di numeri molto consistenti.
Molta pubblicità viene data al taglio delle “pensioni d‘oro”, ovvero quelle superiori ai 100.000 euro annui. Ma dal punto di vista dei risparmi per l‘erario si tratta di molliche (239 milioni in tre anni): stiamo parlando di appena 16.400 persone, che ovviamente inonderanno i tribunali con valanghe di ricorsi (l‘effetto finale, in caso di sconfitta per l‘Avvocatura di Stato, potrebbe essere persino di maggiore spesa finale). Resta comunque la domanda: quanto guadagnavano, 23 persone, per meritarsi un assegno superiore ai 100.000 euro l‘anno?
Finite le misure scintillanti, comincia la dura prosa. Anche questo governo prova a fare cassa svendendo parte del patrimonio immobiliare pubblico (attese entrate per quasi 1 miliardo); si resta in attesa di sapere di che tipo di immobili si tratti, anche se si accenna tra l‘altro a “caserme in disuso”, in genere collocate nei centri storici cittadini e quindi ormai inutilizzabili dal punto di vista militare, ma altamente appetibili per il business immobiliare. In ogni caso, per invogliare le amministrazioni locali a mollare qualche immobile, c‘è anche l‘incentivo: a loro andrà una quota degli introiti tra il 5 e il 15%. E visto il blocco dei trasferimenti in atto da anni, può diventare ossigeno puro...
Viene introdotta una non meglio precisata web tax, che dovrebbe portare comunque appena 150 milioni per l‘anno prossimo. E aumenta la tassazione sui giochi d‘azzardo in mano ai privati (450 milioni di introiti attesi). Il meccanismo di esazione è complesso, perché prevede un aumento dell’1,5% del “prelievo erariale unico” su slot e vlt e una riduzione sostanziosa delle possibilità di vincita (il cosiddetto pay out). In pratica, lo Stato e i privati si spartiranno più soldi tra quelli giocati, restituendone – come “vincite” – sempre meno. E‘ il caso di ricordare che il gioco d‘azzardo in genere – di qualunque tipo, compreso il lotto e le lotterie – era chiamato “la tassa sulla speranza”. La tassa resta, la speranza (di vincere) evapora...
Se, com‘è sperabile, dovessero calare di molto le scommesse (visto che si vincerà molto meno), anche le entrate attese si ridurrebbero in proporzione, facendo sballare un po‘ i conti.
Dopo la prosa vengono i dolori. Era stata promessa l‘assunzione regolare di molti lavoratori precari che tengono in piedi la pubblica amministrazione. Beh, tutto rinviato di (almeno) un anno. Presidenza del Consiglio, ministeri, enti pubblici non economici, agenzie fiscali e università non potranno infatti assumere personale a tempo indeterminato prima del 15 novembre 2019. E tutto per risparmiare appena 100 milioni...
Il piatto forte delle “maggiori entrate” è però l‘aumento dell‘Iva, ossia della tassa indiretta sui consumi, una tipologia che pesa molto sui redditi più bassi e nulla su quelli più alti.
Con una furbata piuttosto classica che fa pensare, tra le altre cose, che questo governo chiuderà bottega subito dopo le elezioni europee. L‘aumento automatico previsto dalle “clausole di salvaguardia” viene infatti per un verso congelato per l‘anno che comincia adesso, ma viene fatto partire dal 2020. Pudicamente, non si indicano i livelli delle nuove aliquote Iva, ma soltanto il gettito atteso dal loro aumento: 23 miliardi nel 2020 e quasi 28,75 nel 2021 e nel 2022. Una mazzata per i consumi e i consumatori delle fasce sociali meno agiate, che costringerà a “stringere la cinghia” piuttosto violentemente... ma non prima delle elezioni europee, dead line per il regolamento di conti nella maggioranza.
Un così violento aumento dell‘Iva, oltretutto, avrà immediate ripercussioni sulle stime di crescita economica. E, per quanto rinviato all’anno successivo, partirà già da un livello di crescita più basso. Il governo si è infatti vista ritoccare la crescita “attesa” nel 2019 dall’1,5 all‘1% del PIL.
Sembra un dettaglio, ma se ci ricordiamo che il livello del Pil è l’indicatore cui rapportare quelli del deficit e del debito, si vede che questa riduzione avrà effetti “spiacevoli” già in corso d‘anno, quando si comincerà a scrivere la manovra per l‘anno successivo. Il Pil atteso nel 2020 scende all’1,1% (nella Nadef era all’1,6), e nel 2021 dall’1,4% all’1 per cento. Di conseguenza, l‘obbiettivo da raggiungere nel rapporto tra debito e Pi, pari a 131,7% nel 2018, nel 2019 scende a 130,7% per calare ancora nel 2020 al 129,2% e arrivare al 128,2% nel 2021. Il deficit scende invece al 2,0% nel 2019, all’1,8% nel 2020 e all’1,5% nel 2021.
Per riuscirci, però, serviranno manovre sanguinose che – una volta arresisi al comando della Commissione – dovranno essere messe in atto. Tra un anno, certo...
Non da ultimo, e contrariamente a quanto “giurato” da Salvini in campagna elettorale, è previsto anche un aumento delle accise da 400 milioni l’anno dal 2020. Sommando aumento delle accise e quello dell‘Iva (nel prezzo dei carburanti entrano entrambe le voci, per cui paghiamo l’Iva sulle accise, ossia una tassa sulle tasse) è lecito attendersi un 2020 molto interessante, per chi è costretto a girare in macchina (per consigli, chiedete a Macron...).
Tutto questo e altro ancora entrerà nel classico “maxiemendamento” governativo su cui verrà chiesta la “fiducia” a un Parlamento che fin qui ha discusso, emendato e votato un‘altra manovra. Ma quella vera, dal 2011 a questa parte, viene scritta a Bruxelles e Francoforte, non a Palazzo Chigi.
Qual è, insomma, il vero “Palazzo d‘Inverno” del potere politico, oggi?
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