di Michele Giorgio
Gli occhi erano
puntati tutti sul Qatar ieri sera, alla vigilia del 39esimo summit oggi a
Riyadh del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che
racchiude le monarchie sunnite del Golfo, ricche di petrolio e gas
naturale: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati, Oman, Kuwait e Qatar.
Dal 1981, anno di nascita del Ccg, il summit è stato quasi sempre un
appuntamento rituale e noioso. Dal 2014 invece, con la prima crisi tra
l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al Thani,
accusato di sostenere i “terroristi” della Fratellanza islamica, e gli
altri cinque petromonarchi, capeggiati dall’Arabia Saudita, l’incontro è
divenuto una sorta di ring per il pugilato diplomatico. L’anno
scorso, dopo le pesanti sanzioni contro il Qatar ordinate da Riyadh, il
vertice si rivelò una sorta di tribunale con Sheikh Tamim sul banco
degli imputati. Quest’anno a meno di clamorose sorprese l’emiro
qatariota, sebbene sia stato invitato (all’ultimo momento) dal re
saudita Salman, non si farà vedere nella capitale “nemica” dove invierà
solo una delegazione composta di funzionari governativi e diplomatici.
Anzi, ieri per tutto il giorno si è parlato anche di assenza del Qatar,
una possibilità comunque ritenuta remota.
Sheikh Tamim non intende prendere parte a una riunione che pur avendo
in agenda temi di grande importanza – Yemen, Iran, Siria, Palestina,
petrolio, cooperazione di sicurezza – in realtà è una
opportunità per Riyadh per segnalare al mondo che tutto procede «senza
problemi» e che la crisi seguita al brutale assassinio del giornalista
Jamal Khashoggi non ha avuto effetti per la leadership saudita nel
Golfo. È scontato perciò attendersi che l’erede al trono
Mohammed bin Salman, ritenuto il mandante dell’eliminazione di
Khashoggi, reciti oggi un ruolo da protagonista al vertice che doveva
tenersi in Oman e che i Saud hanno voluto a tutti i costi in Arabia Saudita. Doha cerca la rivincita ma non arriverà alla decisione
drammatica di uscire anche dal Ccg, dopo aver annunciato che non farà
più parte dal prossimo 1 gennaio dell’Opec, il cartello che riunisce
diversi dei maggiori produttori mondiali di greggio. «Piuttosto proverà a
dare continui dispiaceri al colosso saudita» spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani
«vuole essere una spina nel fianco e dimostrare che Riyadh non può più
dettare legge». Rabbani ricorda che per diversi anni dopo la nascita del
Consiglio di cooperazione del Golfo i sauditi «facevano ciò che
volevano, mentre negli ultimi anni la loro influenza si è ridotta. Il Qatar si è dimostrato un gigante in politica estera e sulla scena economica mondiale grazie alle sue enormi riserve di gas,
e gli Emirati, che pure sono alleati di Riyadh, da un po’ vogliono far
sentire la loro voce e contare di più dal punto di vista politico,
militare e diplomatico».
Se l’uscita dall’Opec è stata una mossa politica significativa ma
poco rilevante dal punto di vista economico (Doha era uno dei produttori
minori), il Qatar potrebbe rivelarsi ben più decisivo in un’altra questione da tempo sul tavolo e che ufficialmente non è nell’agenda del summit che si apre oggi: la costituzione di una “Nato araba”.
All’inizio del mese scorso contingenti militari di Arabia Saudita,
Emirati, Kuwait, Giordania e Bahrain si sono ritrovati, con Libano e
Marocco in qualità di osservatori, nella base militare egiziana di
Matrouh, sulla costa mediterranea, per le manovre Arab Shield 1, considerate una sorta di test della “Nato araba”. Tuttavia
senza il via libera del Qatar, che ospita il comando centrale delle
forze armate Usa nel Golfo, è assai improbabile che il progetto
sostenuto da Riyadh e Stati Uniti in funzione anti-Iran, possa vedere la
luce. Anche per questo in seno al Ccg sale la voce di chi
vorrebbe una soluzione della crisi con il Qatar. A cominciare dal
ministro degli esteri degli Emirati, Anwar Gargash, che starebbe esercitando pressioni sugli alleati sauditi per ammorbidire lo scontro con Doha, per ora con scarsi risultati.
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