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11/02/2020

Caracas - Dall’“Incontro mondiale contro l’imperialismo” riparte la solidarietà internazionalista.


Dal 22 al 24 di gennaio il Partito socialista unito del Venezuela (PSUV) ha promosso “l’incontro mondiale contro l’imperialismo” nel cuore della capitale del bolivarismo, Caracas, e noi, assieme a più di quattrocento delegati provenienti da tutto il mondo, abbiamo avuto il piacere di partecipare. Dopo alcune intense giornate passate nell’eterna primavera caraqueña ci concediamo alcune brevi considerazioni che, seppur parziali, potranno almeno vantare il beneficio della prova empirica. Occorre subito chiarire che Caracas, essendo il centro politico oltre che l’epicentro dello scontro tra movimento chavista e opposizione cui abbiamo assistito negli anni passati, costituisce certamente un osservatorio privilegiato per chi voglia tentare di cogliere il polso della situazione. Tuttavia il Venezuela è un paese grande, immenso, che ovviamente non si riduce alla sola capitale.

Ebbene, a un osservatore esterno la cosa che subito salta agli occhi è che nelle strade e nei negozi di Caracas l’aria che si respira non è certamente quella della crisi profonda che ci viene servita quotidianamente dai media nostrani. Nè tantomeno quella della fantomatica crisi umanitaria che era sull’orlo di scoppiare, se non già scoppiata, quando ai confini colombiani e brasiliani si addensavano file di tir carichi di “aiuti umanitari” (leggi) e da altre parti si organizzavano sciami di artisti ingenuamente persuasi che bastasse un concerto (vedi) a distruggere un movimento popolare di massa con solide basi nella società. Ecco, a Caracas non vi è nulla di tutto ciò e, anzi, quello che ci è sembrato di rilevare è la progressiva normalizzazione della situazione economica. Una situazione che vive certamente ancora in condizioni di difficoltà dovute alla guerra economica e alle feroci sanzioni, tuttora a pieno regime, e alla scarsità di alcuni prodotti a causa della ben nota e strutturale dipendenza dalle importazioni ma che almeno nella percezione della strada è in via di stabilizzazione. Certamente non in via di peggioramento. Insomma “radio bemba” parla ancora la lingua di Hugo Chávez e non, come ci è stato raccontato quotidianamente quella della sconfitta, della resa, del tramonto di un progetto di rivolgimento continentale che è nato nelle viscere di quella terra.

La “chusma” (marmaglia, come l’opposizione chiama gli abitanti dei “barrios” e i militanti chavisti, in una parola il popolo) che sfila per il corteo in occasione del 23 de Eñero, giorno in cui venne abbattuta la dittatura di Pérez Jiménez nel 1958.

Occorre tuttavia notare come parte attiva di questa normalizzazione sia un progressivo e controllato processo di dollarizzazione dell’economia, uno dei fattori che sembra controbilanciare la straordinaria inflazione indotta che, con la guerra valutaria in atto, non accenna minimamente a diminuire. I verdoni hanno ricominciato dunque a circolare e, per adesso, non sembra essere un fenomeno che preoccupa il governo, anzi. Ma torniamo all’incontro e al clima che si respirava: come dicevamo circa quattrocento delegati da tutto il mondo – di cui una buona fetta proveniente da tutto il Sud-America – assieme ai militanti venezuelani hanno risposto con numeri sostanziosi e un intenso dibattito al richiamo della solidarietà internazionalista e della lotta all’imperialismo. Una massa importante di partiti, associazioni, realtà territoriali e storiche formazioni regionali che confermano la vitalità di un’area così brutalmente colpita dalla reazione negli ultimi anni ma che possiede un bacino di forze sociali in grado di fornire una pronta risposta e anzi, di rilanciare la lotta. Un incontro, quello che si è tenuto nelle sale dell’Hotel Alba di Caracas, all’insegna della lotta militante alle ingerenze imperialistiche e al nuovo progetto statunitense di conquista del continente e non della solidarietà fine a se stessa, della pura testimonianza o di un’effimera adesione ideale. I numeri e la presenza, soprattutto a livello continentale, hanno fornito la prova fattuale che la risposta all’egemonia statunitense è già in moto e che nei prossimi anni vedremo lavorare un intero continente per ribaltare le geometrie politiche sud-americane. Tolte le formalità è davvero difficile ridurre in sintesi la molteplicità di tematiche, la diversità di voci e il complesso di realtà che si sono misurate su un fitto programma di lotta e di rilancio della solidarietà internazionalista. Dall’organizzazione degli studenti al fronte dei lavoratori, dalle aggressioni militari della NATO alla lotta all’egemonia culturale statunitense, dalle lotte indigene a quelle del femminismo, dalle nuove forme di sviluppo economico sostenibile all’organizzazione della democrazia partecipativa, la conferenza ha ospitato una lunga serie di voci e di contributi.

A questi tavoli si sommavano quelli – di estremo interesse per chi voglia conoscere il divenire del movimento venezuelano – direttamente legati all’azione concreta della compagine chavista. Ci riferiamo, citandone solamente uno tra i tanti, al progetto delle comunas (autorganizzazione popolare nella gestione dei servizi territoriali dal singolo barrio a livelli territoriali più larghi), un’azione promossa con la prospettiva di svuotare le istituzioni territoriali municipali legate al vecchio assetto statale rifondandole sul potere popolare. Un tentativo in via di costruzione che trova sempre maggiore spazio oltre che una controparte istituzionale con cui negoziare (esiste, di fatto, un ministero, il Ministerio del Poder Popular para las Comunas y Movimientos Sociales – MPComunas – che si occupa proprio di questo). Un dato significativo, quest’ultimo, se consideriamo che l’esperienza venezuelana viene citata – specialmente da una certa sinistra – solamente per prendere atto della progressiva crisi che lo Stato venezuelano starebbe vivendo o per registrare l’inevitabile declino che il progetto bolivariano starebbe attraversando, quando il movimento chavista, nelle sue molteplici articolazioni, si batte ogni giorno per replicare alle difficoltà della contingenza e alle sfide del presente con nuove forme d’organizzazione rivoluzionaria.

E Guaidó? E l’opposizione? Guaidó, se fino a qualche anno fa non si sapeva neanche chi fosse, adesso si sa, e fin troppo bene. Quando si parla del bobolongo (letteralmente il “fesso”), come lo chiamano a parecchie migliaia di chilometri da dove viene ricevuto con gli onori del capo di stato, esplodono le risate. Eh sì, perché dopo essere stato sputtanato (leggi) assieme alla sua banda per aver distratto fondi per quasi un milione di dollari dagli “aiuti umanitari” destinati alla stessa opposizione, dopo essere stato scalzato dalla presidenza dell’Assemblea Nazionale da un esponente della stessa opposizione – il parlamentare Luis Parra, membro di Primeiro Justicia – due cose sono certe: che fuori dalla sfera d’influenza di Washington non ha alcuna credibilità, nemmeno presso i suoi sodali, e che se esiste un’opposizione venezuelana come soggetto autonomo, questa esiste solamente sulla carta delle testate occidentali. Perché in Venezuela i visi color alabastro ricordano interessi ben precisi e le opposizioni fanno leva proprio su quelli: gli interessi di decenni di sfruttamento delle sconfinate risorse del paese per l’appannaggio di pochi, ora al servizio del popolo e di quella terra; quelli della persecuzione delle minoranze indigene e afro-discendenti che oggi possono rispondere colpo su colpo a chi dice che devono ancora abbassare la testa; quelli della svendita di una nazione agli Stati Uniti d’America e al capitale internazionale, che ora può rivendicare la propria indipendenza; della povertà estrema per la maggioranza della popolazione che oggi è convertita in forza reale, partecipazione e lotta politica per la costruzione di un’alternativa anti-capitalista in quel continente. Gli interessi di chi pensa ancora di poter marciare contro la Storia.

Nicolás Maduro e parte del governo, a Palacio de Miraflores, in attesa dell’arrivo del corteo per il 23 de Eñero.

P.S. Proprio oggi è finito sotto i nostri occhi l’ultimo ritrovato della retorica anti-chavista (leggi). Apprendiamo, leggendo un articolo pubblicato su un noto sito d’orientamento liberista, che il Venezuela sta soffrendo un nuovo processo di approfondimento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri a causa di... un processo di liberalizzazione dell’economia! Avete capito bene: non del pericolo socialista che si cela dietro il chavismo, non delle ostinate misure tese a difendere il processo politico in atto e a proseguire sulla linea tracciata dalla rivoluzione chavista, rivolgimento che ha elevato una fetta enorme di popolazione dall’inedia totale e dall’anonimato sociale ed economico. No, da un processo di liberalizzazione. Apprendiamo, leggendo l’articolo riportato di peso da un’inchiesta del New York Times (vedi) – quotidiano ben noto per le sue simpatie chaviste – che in Venezuela non vi è più crisi umanitaria, ma approfondimento delle diseguaglianze, ovvero una frazione ricca della popolazione che diviene sempre più ricca e una larghissima parte della popolazione che giace nella povertà più profonda. Se non fosse già chiara di per sé l’assurdità della retorica servirebbe esemplificare con una di quelle storielle del tipo “la volpe e l’uva”, ma ci sembra che l’inchiesta parli da sola.

Ricapitolando: un movimento nato da un rivolgimento radicale in senso fortemente progressista e marcatamente antioligarchico e antimperialista viene sistematicamente screditato, attaccato, sabotato e posto sotto strangolamento economico proprio in ragione della sua natura “socialista”. A questo si contrappone un’opzione neoliberista e totalmente prona agli interessi statunitensi veicolata da un non meglio identificato fronte delle opposizioni da sempre organico agli interessi del capitale monopolistico nel continente. Adesso ci si viene a raccontare che il problema del Venezuela, che l’approfondimento delle sofferenze per la popolazione venezuelana risiede in un processo di liberalizzazione e, naturalmente, nel sempreverde “autoritarismo” che sembra diffondersi in tutte le realtà non complementari all’agenda di Washington con la stessa velocità del Coronavirus nella provincia di Hubei. E come se non bastasse, a questo segue l’ammissione che le uniche misure che permettono alla popolazione più povera di non sprofondare nell’inedia sono le residuali tracce del “welfare chavista”, ormai prossimo alla scomparsa. Appunto: nondum matura est.

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