Se pensavate che la parola 1917 volesse indicare una data
epica, particolarmente amata in un luogo di marxisti inveterati come
Carmilla, ebbene vi siete sbagliati. Il 1917 di cui tratto è l’omonimo
film di Sam Mendes, che con la Rivoluzione d’Ottobre non c’entra nulla, se non il contesto, la Grande Guerra,
nel quale milioni di soldati hanno vissuto lo scempio della guerra
imperialista e non pochi hanno accarezzato l’idea di una rivoluzione
sociale con due semplici parole “pace” e “pane”.
Ma attenzione, non si va a vedere 1917, come se si andasse a vedere Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, che come Fury di David Ayer, mostra le atrocità della guerra ma sempre con una vena di retorica patriottica. E neppure il più realistico Dunkerque di Chistopher Nolan. In 1917
di patria non ce ne è. E non c’è neppure alcuna mitologia dell’eroe,
anche se l’eroe c’è, ma non per una bandiera bensì per evitare una
carneficina e per un debito d’onore verso un amico.
Insomma, 1917, se ha vinto tra statuette nella notte degli
Oscar: miglior sonoro, migliore fotografia e migliori effetti speciali
una ragione c’è. E aveva ben dieci nomination, compreso quella come
miglior film. È una pellicola cruda, reale, che non lascia nulla a
un’estetica dell’orrore, ma è semplicemente orrore. Ma è anche e
soprattutto la storia di un’amicizia difesa oltre l’impossibile.
La struttura narrativa lo colloca nel sottogenere del war road movie come Fury,
una storia itinerante fatta di suspence, atrocità e momenti di poesia,
senza nulla concedere agli espedienti enfatici anche quando gli incontri
casuali potrebbero farli emergere con facilità. Per questo 1917
è un racconto della realtà per quella che è. E non è un caso che il
film si basi su una storia realmente accaduta, appunto nell’aprile del
1917: quella dei racconti di guerra del nonno del regista Alfred Hubert Mendes, che aveva combattuto per due anni sul fronte francese nella 1st Rifle Brigade.
Qui la guerra è la Grande Guerra, dove i soldati cadevano come mosche
nella folle corsa ordinata da ufficiali dementi agli ordini a loro
volta da comandi ancora più dementi, falciati dalle mitragliatrici,
fatti a pezzi dall’artiglieria avversa. A tratti emerge il crudele
tritacarne visto ne Gli anni spezzati, di un altro grande regista, Peter Weir.
Non c’è ribellione verso il proprio destino, ma solo lotta per la sopravvivenza: uccidi per non morire. Sopravvivi
per arrivare in tempo, tra atmosfere cupe e notturne illuminate da
fuochi e bengala e giorni di sole in cui la natura, con le sue campagne
fatte di campi e fiori, stride nel gioco macabro e crudele che gli
uomini fanno sotto e sopra quei cieli.
Una nota registica: l’uso lineare di piani sequenza soprattutto nelle
scene di trincea danno un ritmo veloce e creano la giusta suspence.
Nell’uso appropriato di questa tecnica di ripresa, generalmente a
steadycam, si comprende meglio come abbiano fatto scuola mostri sacri
come Kubrick e Scorsese.
La produzione vede la partecipazione di un gran numero di comparse
come ogni Kolossal che si rispetti e le scenografie sono ancora più
sviluppate su più scenari: di trincea, città distrutte e una primavera
francese, il tutto perfettamente ricostruito nel Regno Unito, tra la riserva naturale di Hankley Common e gli Shepperton Studios. Ottimo anche il cast, con due magistrali George MacKay (Peter Pan e Defiance) e Dean Charles Chapman. Senza farsi mancare una comparsata marginale di Colin Firth.
Insomma, un film drammatico la cui storia avvincente ti prende sin
dai primi istanti, senza mai lasciar spazio a cadute di tono e a
rallentamenti soporiferi, in un incalzare di sequenze ben costruito fino
al finale. Sicuramente da vedere con tutti suoi effetti e scenari
davanti a uno schermo adeguato.
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