Da qualche anno l’approssimarsi del 22 febbraio ci costringe allo
stillicidio revisionista della memoria condivisa. In questo, Veltroni si
è ritagliato un ruolo di primus inter pares, di agitatore e
facilitatore della riconciliazione, artefice di buoni sentimenti e
ricongiungimenti familiari. Quest’anno la parte del morto a pretesto è
toccata a Sergio Ramelli. Povero Ramelli verrebbe da dire, sicuri che
neanche lui approverebbe l’uso pacificato della sua memoria, la violenza
sulle sue idee e sulle ragioni della sua morte, da parte di una
politica viscida che banchetta sul cadavere del neofascista per ragioni
politiche aliene al ricordo del caduto e di quegli anni. Ma Veltroni è
una macchietta di se stesso: critico mancato, regista fallito, scrittore
frustrato, comunista per accidente. Lasciamolo dunque nel suo mondo di
risentimento mascherato.
Curiosi invece i commenti della sinistra, tutti o quasi volti ad
attaccare Veltroni e il suo perbenismo codino. Bene, verrebbe da dire:
Ramelli era un fascista, si meritava la morte, o quantomeno quello era
il contesto, poche chiacchiere. Un netto passo in avanti, sebbene non in
linea con la pacificazione della lotta politica e la sterilizzazione
della violenza che caratterizzano questi anni. Un po’, va da sé, lo fa
il tempo: gli anni Settanta diventano come la Resistenza, gli eventi si
allontanano e si spersonalizzano, più facile diventa dunque il processo
di “oggettivizzazione” delle vicende. Un po’ anche, forse, l’esigenza di
legittimarci oggi difendendo il nostro passato, preservandone una
liceità che si proietta sulle lotte del presente. Fatto sta che su
alcuni episodi di revisionismo politico, dagli anni Settanta alle foibe
per dire, se fino a dieci o quindici anni fa regnava il silenzio
imbarazzato, oggi è tutto un coro di rivendicazione, spesso sguaiata. Si
fa il tifo, consci di trattare eventi distanti da noi, nel tempo o
nello spazio. Eventi che non torneranno. Questo tifo ci sembra
problematico, inutile – in fondo – alla comprensione del revisionismo in
corso da anni e inutile alla riattivazione di una consapevolezza
storica in grado di stimolare processi politici.
Eppure la morte andrebbe trattata con più rispetto. Quello che
andrebbe ricordato e rivendicato – e che invece fa orrore a tanta parte
di quella “sinistra” che oggi attacca Veltroni – è il contesto politico
degli anni Settanta. Ramelli, così come Verbano e le altre centinaia di
morti militanti, non sono caduti perché “colpevoli” di qualcosa che
giustificasse la loro morte, anche perché nulla, direbbe Lukács (non Don
Milani), giustifica il “dare la morte” (se non le conseguenze di
un’etica rivoluzionaria che ti costringe a commettere il peccato:
ma lasciamo perdere): sono le lotte di classe di quegli anni, lo
scontro armato e la guerra civile strisciante, la repressione e la
strategia della tensione, le bombe in piazza e sui treni, le carceri
speciali e le torture, la radicalizzazione della lotta politica, che
spiegano la violenza. È la spinta insurrezionale che caratterizzò quel
decennio che spiega – e giustifica – i caduti. «La
rivoluzione», ebbe a ricordare Georges Clemenceau in riferimento alla
Rivoluzione francese, «è un blocco; si tratta di accettarla tutta o
tutta respingerla». La storia à la carte non è possibile, nonostante sia
di moda oggi selezionare le storie edificanti, depurandole dalla
cattiveria che caratterizza le vicende dell’uomo, costruendo così un
passato ad uso e consumo della propria carriera politica. Vale per ogni
occasione della storia, vale anche per gli anni Settanta.
Ci spiegano, i commentatori del senno del poi, che non c’era nessuna
“rivoluzione” in corso in quegli anni. Possiamo anche essere d’accordo,
ma così non era per quella generazione, che si stava giocando una sua
partita e dentro le logiche della rivoluzione – non d’altro – compiva le
sue scelte. È solo la rivoluzione che può spiegare il problema di
quella violenza e di quelle morti. Dentro altre logiche è inspiegabile.
Tentare di giustificare la morte di Ramelli con motivi d’illuminismo
liberale è un controsenso: nessuno merita la morte, men che meno per
quella sinistra che ha fatto del garantismo un suo pregiudizio
ideologico. L’unica logica è interna ad un processo rivoluzionario, ai
ragionamenti di chi in quel preciso momento provava a fare una
rivoluzione. Che magari, per l’appunto, era solo nella sua testa, fuori
dalle dinamiche o dalle potenzialità reali: tutto plausibile. Eppure, se
ci piace definirci rivoluzionari, è dentro quella logica che dobbiamo
entrare, non interpretarla dall’esterno attraverso ardite – e sadiche –
giustificazioni post festum.
In questi anni gli stessi che ci hanno spiegato del valore deleterio
della violenza, degli errori politici dello scontro armato,
dell’eccessiva radicalizzazione o ideologizzazione dei gruppi politici,
ci dicono oggi che Ramelli se l’è cercata “in quanto fascista”, che
Veltroni è “buonista”, che la memoria condivisa “non si può fare”.
Qualcosa non torna insomma. Come i santini di Stalin o gli sghignazzi
sulle foibe o il Triangolo rosso, questo modo così immediato di
riappropriarsi di una “nostra” violenza appare la conseguenza di una
neutralizzazione del significato politico di quegli eventi più che una
reale presa di coscienza. Quello che ci dice nel profondo – e cioè che
quella nostra storia è definitivamente sepolta – è più di quel che ci
dice in superficie.
Ma queste sono riflessioni tra compagni. Nel ricordare i nostri, di
caduti, e in primo luogo Valerio Verbano – di cui si compiono quest’anno
i quarant’anni dalla sua morte – bisognerebbe ribadire che è morto
perché rivoluzionario, non altro. Non era capitato per caso in quello
scontro, non era una vittima inconsapevole: sapeva a cosa andava
incontro, perché per primo lo metteva in conto verso i suoi nemici. Questa la storia. Poi c’è l’edificazione del santino buono per ogni latitudine. Ma questa roba non è interessante.
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