È una storia di militanti e di guerrieri, di donne e uomini che hanno combattuto per liberarsi di una dittatura e che hanno combattuto perché
credevano nel socialismo: due attitudini non sovrapponibili, ma
collegate. È anche una storia complicata, chiaramente, perché si tratta
di vicende latinoamericane, con il portato di variabili che, noi vecchi
europei, fatichiamo a comprendere.
La questione del peronismo, innanzi
tutto, vale a dire la “secca” su cui facilmente si incagliano tante
riflessioni dei compagni e delle compagne europee sulla politica latino
americana del secondo dopoguerra. Sarebbe facile fare spallucce,
banalizzando la questione secondo il buon vecchio adagio per cui “tanto
sono chiacchiere”. La storia e la lotta di classe la fanno coloro che la
vivono, non chi la commenta, evidentemente, ma l’affaire del
peronismo è emblematico dello stordimento che caratterizza la sinistra
“occidentale” – e quella italiana in particolare – quando si trova ad
affrontare variabili poco praticate dalle sue parti. Il peronismo ieri,
il populismo oggi, per dire, ma anche i movimenti di liberazione
nazionale, la decolonizzazione, l’indigenismo e l’antimperialismo.
Manolo Morlacchi, che de La linea del fuoco è l’autore, è ben
consapevole di questo problema e non svicola sotto l’ostacolo, tanto che
il suo saggio è anche un utile e raro esempio di lettura marxista –
quindi secondo i paradigmi della scienza della classe – di Perón e del
peronismo senza Perón. Non viene negato, quindi, né l’iniziale
posizionamento del Generale argentino al fianco nel nazifascismo,
durante la II Guerra mondiale (in coerenza con la precoce fascinazione
dello stesso Perón per Mussolini), né il successivo riallineamento in
funzione filo statunitense e palesemente anti-sovietica, ivi compreso un
fetido corteggiamento al Fondo monetario internazionale e alla Banca
mondiale. Corteggiamento non corrisposto, peraltro, tanto da suggerire
un inevitabile “ripensamento”, che consigliò al Generale un’inversione
nazionalista non inedita, in Latino America. Sia chiaro, onde evitare
accuse di “rossobrunismo” che oggi vengono diffuse con sconcertante
serenità, che: Morlacchi esprime con nitore la sua posizione politica
sul peronismo, sin dal primo capitolo: “Il fatto che Juan Domingo Perón
sia stata una figura compromessa sin dall’inizio con gli interessi del
grande capitale e che contribuì attivamente all’organizzazione della
repressione appare storicamente incontestabile” (p. 32) ma, allo stesso
tempo, suggerisce come sarebbe riduttivo leggere il legame tra classe
operaia e Perón semplicemente alla luce dell’aura antimperialista di
quest’ultimo, dimenticando come l’organizzazione stessa delle strutture
di difesa e rivendicazione operaia sia stata plasmata proprio da Perón,
che sostituì i vertici socialisti e comunisti della Confederazione
Generale del Lavoro, mettendovi i suoi uomini e aumentandone
notevolmente i tesserati.
È difficilmente confutabile quanto afferma, a tal proposito, Julio
Santucho nell’Introduzione: “Il fatto è che la costituzione del
proletariato come classe nazionale avvenne in condizioni di chiara
subordinazione ideologica, politica e organizzativa al progetto
nazionalista borghese di Perón” (p. 14). Qui è insita la spiegazione del
perché, da un lato, il peronismo sopravvisse anche all’interruzione –
lunga ben diciassette anni – della presidenza Perón e, dall’altro,
perché la classe operaia argentina debba essere definita “peronista”, ma
non “peroniana” in senso stretto. Che il lascito più cospicuo del
“bonapartista” Perón verso i lavoratori argentini sia stato un netto (ma
ahinoi effimero) miglioramento della qualità della vita oppure la
struttura organizzativa di una solida forza laburista diventa, a questo
punto, quasi secondario: che sia stato il pane oppure le rose, fatto sta
che proprio durante la prima presidenza Perón la forza lavoro argentina
si rende conto della possibilità di edificare una società diversa da
quella dominata da quel capitalismo assassino e rapace che il Latino
America conosce dal primo contatto con l’Occidente e che l’Europa sta
incominciando a conoscere solo nell’ultimo decennio. È altrettanto
secondario che ciò sia avvenuto per una sincera (ma assai improbabile)
vocazione progressista del Generale o per quel misto di casualità, di
contingenza internazionale e di “costrizione” politica interna, oltre
che di evidenti doti soggettive, che caratterizzarono il secondo
dopoguerra argentino. Fatto sta che accadde, in un processo storico che
si rivelò permeabile – e qui c’è il “cuore” del lavoro di Manolo
Morlacchi (o quantomeno la parte che più scalda il nostro, di cuore) –
alle istanze rivoluzionarie, simboleggiate (ma non esaurite) dalle
vicende della famiglia Santucho, quasi una copia anastatica, ma in
versione rivoluzionaria, dei Perón. Straordinario laboratorio di teoria e
di prassi politica, i Santucho hanno rappresentato la dimostrazione
vivente di come le particolari condizioni del contesto argentino
spingessero anche una parte di borghesia illuminata e benestante a
sposare la causa dei diseredati e degli sfruttati, organizzandoli in un
partito e in una compagine militare, arrivando a pagare un prezzo
altissimo, per quanto “giustificato” dal livello della sfida lanciata al
sistema politico argentino, che era quello – non dimentichiamolo – dei
militari, del potere clericale, dei latifondisti, degli interessi
economici nordamericani. Per questo motivo il libro di Manolo si pone
come una “restituzione” nei confronti dei militanti coinvolti nella
mattanza argentina, nel dissanguamento di un’intera generazione,
nell’ineffabile capacità occidentale di guardare da un’altra parte, di
non rinunciare ai Mondiali di calcio oppure di limitare il proprio
dissenso da Pinochet alle magliette rosse dei tennisti di Coppa Davis,
mentre il Latino America degli anni Settanta organizzava i pogrom e
provava ad azzerare geneticamente l’idea stessa di Rivoluzione. Non solo
i giovani, ma persino i loro figli, strappati alle famiglie dei
desaparecidos con una scientificità che va oltre il “pragmatismo del
male” e pare quasi un monito biblico: ‘Maledetto sia tu, i tuoi figli e i
figli dei tuoi figli’. Eppure La linea del fuoco (qui sta uno
dei più meritati motivi di vanto del volume) è attento a evitare la
narrazione dominante, rispetto a uno dei periodi più oscuri del XX
secolo, vale a dire il ricordo frammentato dei singoli e delle singole,
che finiscono di default – in questo modo – nella categoria
delle “vittime”, soffrendo una seconda e nuova “scomparsa”: quella della
dimensione di consapevole militante rivoluzionario. Manolo Morlacchi
non si presta alla narrazione per schegge (quebrantos, come da
titolo di un peraltro suggestivo volume per Nova Delphi, a cura di Delia
Ana Fanego) e riconduce a unitarietà la storia dell’Argentina
sovversiva del secondo dopoguerra, ribadendo l’organicità di un percorso
pure dipanatosi tra tanti rivoli e molteplici tentativi, vittorie,
sconfitte, errori. Senza mai abbandonare, però, una stentorea coscienza
di classe e una irriducibilità ad accettare lo stato di cose del tempo,
come testimoniato dal cartellino di prigioniero di Mario “Indio” Paz,
militante dell’ERP e comandante della Compagna del Monte, quando era
recluso a Campo de Mayo: ‘Irrecuperabile’.
La storia del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (PRT) e della sua
ala militare, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo (ERP), è una storia
collettiva, come è inevitabile che sia per la storia di un partito e di
un’organizzazione combattente: non è retorica da nobili perdenti, ma
parte di quella “restituzione” di cui sopra, citare una canzone dedicata
ad Ana María Lanzilotto, Domingo Menna, Benito Urteaga e Liliana
Delfino, riportata a p. 199: “Non cercate la mia tomba perché non la
troverete. Le mie mani sono quelle che vanno in altre mani sparando. La
mia voce è quella che sta gridando, in una rivoluzione, quando è vera, o
si trionfa o si muore. Il sogno è sempre intero. E sappiate che morirò
solo se voi mollerete, perché chi è morto combattendo vive in ogni
compagno”.
Il libro di Manolo non si ferma qui: si pone anche come insegnamento
per chi voglia fare ricerca su un contesto o un periodo storico lontano
dal proprio, senza per questo dover scegliere tra rigore scientifico e
passione militante. L’Autore vi è riuscito partendo dai fili della sua
memoria familiare, dal suo essere dentro la storia del movimento
rivoluzionario, dalla sua consapevolezza di costituire solo un
ingranaggio di quest’ultima. Per questo motivo La linea del fuoco
è anche un archivio da aggiornare quotidianamente e da moltiplicare,
rifiutando non solo il paradigma dei diritti umani (inevitabilmente
allergico a qualsiasi politicità, anche solo progressista), ma anche
quella vittimologia che, pur trovandosi spesso a essere la migliore
delle narrazioni mainstream possibili, non rende giustizia alla
forza delle idee e riduce all’incomprensibilità la frase meravigliosa
che chiude la nota dell’Autore, a firma di Lucia Volpi, militante di
Lotta Continua, impegnata ad accogliere gli esuli argentini in Italia
insieme al marito (Vito) e sorpresa nel sapere che quest’ultimo avesse
ricevuto la proposta di andare a combattere in Nicaragua con l’ultimo
gruppo sostanzioso di militanti del PRT/ERP. Vito declinò l’offerta, per
motivi familiari. “Gli chiesero di partire perché – anche se distanti
migliaia di chilometri dall’Argentina – per quello che avevamo fatto ci
consideravano parte del Partito”.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento