di Chiara Cruciati – il Manifesto
L’attacco aereo che giovedì in tarda serata ha ucciso almeno 33 soldati turchi nella
provincia siriana di Idlib ha una tempistica precisa. Appena 24 ore
prima il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva ribadito il suo ultimatum: Damasco deve ritirarsi dalle zone di de-escalation – previste dall’accordo tra Turchia e Russia, siglato a Sochi nell’autunno 2018 – o le truppe turche avanzeranno.
La risposta è stata il bombardamento. Per mano siriana, forse anche russa. Mosca
ha precisato ieri che la responsabilità è tutta della Turchia che non aveva informato della presenza di sue truppe tra i miliziani islamisti. Il ministro degli Esteri Lavrov ha addirittura offerto le sue condoglianze.
Ma è difficile pensare che il comando russo non ne fosse a conoscenza. Probabile
che abbia voluto ricordare a Erdogan i termini dell’accordo di
de-escalation: le 12 postazioni turche in territorio siriano (la maggior parte circondate oggi dall’esercito governativo) erano
ben accette in cambio del travaso di islamisti dalla provincia
nord-ovest siriana, l’unica ancora fuori dal controllo damasceno.
Erdogan si ritrova con il cerino in mano, dopo il lento ma proficuo
lavoro ai fianchi che gli ha fatto l’omologo Putin. Lo ha allontanato da
Nato e Stati Uniti, lo ha fatto entrare nella propria orbita e ora lo
mette all’angolo a Idlib, l’enorme contraddizione siriana, dove il
secondo esercito della Nato protegge qaedisti (l’ex Fronte al-Nusra,
apice della piramide di gruppi più o meno ampi e più o meno islamisti) e
che tenta di ritagliarsi il suo posto al sole in un paese disastrato.
Il gioco della parti lo sconta la popolazione civile, tre milioni di persone – almeno la metà sfollati da altre zone della Siria – che tentano da mesi la fuga in massa dagli attacchi aerei delle aviazioni governativa e russa.
Non tutti ne hanno i mezzi. Un milione di persone (di cui la metà
bambini) è riuscito a scappare per ammassarsi a nord, verso il Rojava
per metà occupato dai turchi e verso il confine con la Turchia. Le loro
condizioni sono terribili, denunciano le organizzazioni umanitarie:
mancano rifugi, tende, coperte, medicinali, mentre l’inverno fa scendere
le temperature e uccide.
Il governo turco li usa. Ordina di aprire le frontiere per
salvarli dai bombardamenti, quando l’obiettivo è un altro, fare
pressioni sulla fortezza-Europa perché lo appoggi. Ieri, dopo
l’annuncio della morte dei 33 soldati, Ankara ha promesso di rispondere
«in ogni modo» con attacchi mirati «a tutte le postazioni note» del
governo siriano.
Poco dopo il ministro della difesa Akar rivendicava l’uccisione in 200 attacchi di «309 truppe del regime» (non
confermate da altre fonti) e la distruzione di «cinque elicotteri
siriani, 23 carri armati, 10 veicoli blindati, 23 cannoni, due sistemi
di difesa aerea e tre depositi di armi». Tutto in poche ore, a sentire Ankara, numeri rivolti più alla propria opinione pubblica che al presidente siriano Assad.
Intanto la Russia spostava due fregate da Sebastopoli alle coste siriane. E così ieri, a
12 ore dal bombardamento, Ankara chiedeva alla delegazione russa nella
capitale turca un cessate il fuoco immediato mentre Erdogan e Putin si
sentivano al telefono.
Un incontro faccia a faccia sarà organizzato al più presto, fa sapere l’ufficio stampa della presidenza turca, per ristabilire il cessate il fuoco (mai realmente entrato in vigore) e fermare la corsa a una fase nuova e devastante del conflitto.
Il Cremlino indica una data, il 5 o il 6 marzo, lasciando così
intendere il rinvio (o la cancellazione) del vertice a quattro –
Erdogan, Putin, Merkel, Macron – previsto (ma mai ufficialmente
confermato) del 5 marzo.
I due si sono detti concordi, aggiunge in una nota il
Cremlino, sulla necessità di nuove misure per normalizzare la
situazione. Mosca pretende da Ankara un passo indietro, vuole che si
dissoci dai gruppi islamisti, che li porti via dalle zone di de-escalation e che gli impedisca di colpire l’esercito siriano impegnato nella reconquista.
Prima di chiamare il Cremlino il presidente turco si è rivolto alla Nato, probabilmente per invocare l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato atlantico, la difesa di un paese membro. A
rispondere è il segretario generale Stoltenberg che ieri ha chiesto a
Russia e Siria di fermare l’offensiva su Idlib e «gli attacchi
indiscriminati».
Ma non ha parlato affatto di intervento: è la Turchia con gli stivali
in un altro paese, difficile parlare di auto-difesa. Senza dimenticare
che a quel punto la Nato dovrebbe intervenire contro la Russia e a
sostegno – indiretto – della galassia qaedista arroccata da anni a
Idlib.
Poi Erdogan ha telefonato alla Casa bianca. Al
presidente Trump ha chiesto fatti e non parole. Ma l’amministrazione Usa
non pare intenzionata a rigettarsi nel conflitto, in un periodo in cui
le relazioni con Ankara sono al minimo storico. Né lo sono gli europei:
ieri Erdogan ha raccolto «solidarietà» da Francia, Germania, Gran
Bretagna, ma nessun reale sostegno.
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