Puntuale come le sciagure, cieca e premonitrice come Tiresia, è arrivata l’ammonizione
della Banca Centrale Spagnola al neo insediato governo progressista di
Spagna. Il nuovo esecutivo una settimana fa, circa, ha varato l’aumento del salario minimo
e si appresta, nelle intenzioni, a modificare almeno in parte le
contro-misure del lavoro varate dai precedenti governi dopo la
drammatica crisi che ha coinvolto la Spagna e l’Europa intera. Noi
stessi abbiamo appena fatto in tempo a sottolineare l’ostilità istituzionale nel quale l’esecutivo rosso-viola si sarebbe trovato ad agire, che la prima intimidazione è giunta.
Preservare innanzitutto la competitività delle merci nazionali, dice il governatore del Banco de España, che tradotto significa tenere i salari bassi.
Se già l’approvazione dell’aumento del salario minimo avrebbe rischiato di far scattare la molla dell’inflazione, è la messa in
discussione delle riforme liberiste del mercato del lavoro che preoccupa
il Governatore Pablo Hernández de Cos. Egli ha così voluto mettere in
guardia l’esecutivo dal tornare a una contrattazione centralizzata
e di settore, abbandonando la contrattazione aziendale introdotta dal
precedente governo di centro destra. C’era da aspettarselo, ma crediamo
sia giusto spiegare la logica di questo intervento, perché esso rivela
quale sia il modello di crescita che ispira tutte le politiche europee
e, in generale, quale sia il modello di “cooperazione” tra gli Stati e
di relazioni sociali al loro interno. E questa logica ha almeno due
facce che meritano di essere indagate: quella che guarda alla strategia di crescita e quella che guarda all’idea di distribuzione del reddito.
Proviamo a muoverci in un circuito in cui, partendo dai rilievi della
Banca Centrale Spagnola, passeremo per la crescita dell’economia, la
distribuzione del reddito e torneremo alle parole del Gobernador.
Per iniziare, diamo un brevissimo sguardo
a pochi dati che ci aiuteranno a tracciare il contesto nel quale ci
muoveremo. Il tasso di disoccupazione in Spagna era pari al 15,3% nel
2018 e al 13,9% nel 2019, secondo solo a quello della Grecia
(rispettivamente 19,3% e 17,3%), più del doppio della media europea
(6,8% e 6,3%) e superiore persino a quello italiano (10,6% e 10%). In Spagna ci sono ben più di 3 milioni di disoccupati.
Lo scoppio della Grande Recessione, inoltre, ha imposto
un’accelerazione alle riforme del mercato del lavoro spagnolo, iniziate
già nel 1994. Se infatti si guarda all’indice di protezione del mercato
del lavoro calcolato dall’OCSE si può notare una flessione del 14% solo
tra il 2010 e il 2013. Si tratta di una riduzione enorme, che completa
una caduta complessiva da un livello pari a 3,65 nel 1994 al 2,31 del
2013. Peggio (per i lavoratori) ha fatto solo l’Italia, che a suon di
riforme del mercato del lavoro è passata da 3.76 a 2.34 nello stesso
periodo. Campioni di flessibilizzazioni e campioni di disoccupazione!
Ispirate e richieste da tutte le istituzioni internazionali e
comunitarie, le riforme del mercato del lavoro spagnolo hanno
comportato, ad esempio, più facilità nel licenziare, si è stipulato un
nuovo contratto a tempo indeterminato in cui le tutele dei lavoratori
sono ridotte ai minimi termini (il nome è emblematico: Contrato de Trabajo Indefinido de Apoyo a los Emprendedores vale a dire Contratto di lavoro a tempo indeterminato di sostegno agli Imprenditori) e, inoltre, tramite il cosiddetto Descuelgue salarial de convenio o “sganciamento generalizzato” si è permesso alla contrattazione aziendale di derogare praticamente a tutte le previsioni del contratto collettivo.
Il risultato occupazionale lo abbiamo già sottolineato, mentre quello
in termini di salari non è da meno: la quota salari sul reddito è caduta
tra il 2010 e il 2018 dell’8% (passando da 57,2 a 52,7). Dire che la
situazione, per i lavoratori spagnoli, non sia rosea sarebbe un mero
eufemismo. La realtà è che la crisi è stata scaricata interamente sulle
loro spalle e ora sono talmente deboli da non essere in grado neanche di
partecipare alla spartizione dei benefici di un’eventuale ripresa.
Anzi, puntualissima, è arrivata la voce dei padroni, per bocca della
Banca Centrale, che si è affrettata a sottolineare come il rischio che i lavoratori aumentino i propri guadagni vada assolutamente evitato.
Tornando dunque alle parole del
Governatore, il loro senso è facilmente riassumibile: facciamo
attenzione a stimolare le rivendicazioni e gli aumenti salariali perché i
conseguenti incrementi dei prezzi potrebbero rendere meno competitive
le esportazioni spagnole. La prima cosa che balza agli occhi è come, a
livello continentale, l’idea di crescita passi attraverso un aumento
delle esportazioni che richiede, in un contesto di libera circolazione
delle merci e di cambio fisso, continue riduzioni competitive dei salari.
In questa logica, i decenni di flessibilizzazione del mercato del
lavoro sono perfettamente coerenti: come abbiamo visto, infatti, lo
scopo di fiaccare la dinamica salariale, agevolato dall’altissimo livello di disoccupazione,
è stato ampiamente raggiunto. Nel contesto europeo, dunque, e questo
intervento ce lo conferma, non vi è nessuno spazio per una politica di
stimolo della domanda interna, né attraverso il ricorso al debito
pubblico, sostanzialmente impedito dai Trattati, né tramite aumenti dei
salari, pena la perdita di competitività.
Non resta, secondo i sostenitori dell’austerità, che sperare nelle
esportazioni e agevolarle proprio con una politica di deflazione
salariale, che non intacchi i profitti e mantenga stabile la dinamica
dei prezzi.
Il ventilato spauracchio dell’inflazione
(negli ultimi due anni, attestatasi all’1% circa), però, ci permette
anche di guardare a come la teoria dominante che permea le istituzioni
europee intenda la distribuzione del reddito. L’inflazione infatti,
secondo questo approccio, è intesa come manifestazione del conflitto
distributivo esistente tra lavoratori e capitalisti per la spartizione
del prodotto sociale. Fin qui, niente di male.
Su quest’idea, però, è stato elaborato un concetto pernicioso, quello di NAIRU, Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment (o NAWRU, Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment).
In italiano, il primo è traducibile come tasso di disoccupazione al
quale l’inflazione non accelera, mentre il secondo indica il tasso di
disoccupazione al quale il tasso di crescita dei salari non accelera. In
altri termini, secondo questa visione, esisterebbe un determinato
livello del tasso di disoccupazione al di sotto del quale si creerebbero
spinte inflazionistiche o salariali. Il NAIRU, dunque, è ben lungi dall’essere un tasso di disoccupazione basso e prossimo alla piena occupazione.
Piuttosto, esso è quel tasso di disoccupazione utile a domare le
rivendicazioni salariali dei lavoratori in modo tale che essi non
chiedano salari troppo alti. E, cosa forse più importante, esso
rappresenta il tasso di disoccupazione obiettivo delle politiche dell’Unione Europea.
La teoria economica neoclassica ritiene
che la natura della disoccupazione sia solo volontaria. Il concetto di
NAIRU, invece, concepisce l’esistenza di disoccupazione involontaria.
Ben diversamente, tuttavia, dall’approccio che ritiene che essa dipenda
da una carenza della domanda aggregata (la visione keynesiana), i
sostenitori del NAIRU attribuiscono la presenza di disoccupazione
involontaria a varie storture che impedirebbero al mercato di funzionare
adeguatamente. Il mercato del lavoro, affermano, senza rigidità sarebbe
in grado di condurre al NAIRU, che nella loro visione rappresenta il
miglior equilibrio possibile. E indovinate un po’ a quali rigidità fanno
riferimento questi teorici? A quelle del mercato del lavoro, che
tradotto vuol dire: tutele contro i licenziamenti, sindacati,
istituzioni. Stiamo tornando al punto di partenza: l’unica via infatti
per ottenere un NAIRU, dunque un tasso di disoccupazione di equilibrio,
più basso è ridurre le tutele dei lavoratori, renderli precari,
ridimensionare i sussidi di disoccupazione, circoscrivere il ruolo dei
sindacati, introdurre la contrattazione aziendale in luogo della contrattazione collettiva.
Solo così essi saranno disposti ad accettare i salari offertigli dai
datori e compatibili con la stabilità dei prezzi. Se invece, una
politica progressista provasse a ridurre la disoccupazione tramite altre
vie, ad esempio uno stimolo alla domanda aggregata, non appena essa
sfondasse la barriera del NAIRU si innescherebbe, meccanicamente, una
spirale inflazionistica. I capitalisti, infatti, per difendere i loro
profitti, reagirebbero con aumenti dei prezzi. Aumenti dei prezzi che,
compensando l’aumento dei salari nominali, riporterebbero il salario
reale al livello precedente e l’occupazione pure. Nessuna via, esiste, in questo quadro, per cambiare la distribuzione del reddito a favore dei salari.
Fuori dal paradigma dominante
dell’equilibrio di mercato c’è spazio per spiegare che l’inflazione è il
frutto del conflitto, ma che anche la lotta alla disoccupazione, ovvero
le politiche di piena occupazione, sono un pezzo di quel conflitto,
parte della storia, arena della contesa politica e sociale dove i
lavoratori devono dare battaglia. L’inflazione, in questa visione, è sì
sintomo del conflitto distributivo, ma è un fenomeno di tutt’altra
natura e non meccanico. Dato infatti il sovrappiù prodotto
dall’economia, lavoratori e capitalisti competono in un prolungato tiro
alla fune al fine di dividerselo. L’inflazione è il sintomo di questo
tiro alla fune; è il sintomo, cioè, di un conflitto distributivo non
risolto in cui ciascuna delle due parti tenta di accaparrarsi una quota
di sovrappiù più alta, gli uni contrattando un salario nominale
crescente, gli altri aumentando i prezzi al consumo. L’inflazione
può essere il sintomo che i lavoratori stiano vincendo la lotta di
classe e che i capitalisti tentino di difendersi e preservare i propri
profitti aumentando i prezzi. È questa una situazione che si
verifica, per altro, in corrispondenza della piena occupazione, quando
cioè i rapporti di forza pendono a favore dei lavoratori e non, come
invece la teoria dominante vorrebbe, in corrispondenza di un tasso di
disoccupazione immediatamente più basso di un certo livello, una
barriera, determinata aprioristicamente dai soli fattori di offerta e il
cui calcolo è a dir poco discutibile (si vedano, a questo proposito, questi tre lavori).
Basti pensare che la Spagna ha una ‘disoccupazione di equilibrio’
stimata per il 2018 al 15,8 e 15,3 nel 2019. Addirittura, se
confrontiamo i dati del tasso di disoccupazione effettivo (13,9%) e del
NAIRU (15,3%), sembrerebbe che nel 2019 in Spagna, nonostante 3 milioni e
200 disoccupati, sarebbe stata necessaria una politica restrittiva per
evitare che si innescasse una spirale inflazionistica che, a ben vedere,
non c’è stata.
Quello che i bollettini delle Banche
Centrali, le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale o gli
interventi dei vari reazionari di turno vorrebbero far passare come una scelta tecnica obbligata
per evitare che si dia il via a una spirale inflazionistica appare
dunque come qualcosa di totalmente diverso. È, anzi, la manifestazione
concreta di ben noti interessi di classe, vestiti artificiosamente e
mendacemente dei panni della scienza, per togliere il terreno sotto ai
piedi ai movimenti che chiedono redistribuzione della ricchezza e
giustizia sociale. Emerge chiaramente, dunque, quanto la struttura
istituzionale europea rappresenti la faccia più avanzata del liberismo
che su scala globale intende mettere i lavoratori gli uni contro gli
altri e come la teoria dominante armi, in maniera mendace, questa
situazione di fatto. Con ciò dimostrando come – per citare il grande
filosofo ed economista tedesco – in ogni tempo, le idee dominanti siano
le idee della classe dominante.
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