Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha cercato di
ricondurre a uno sgarbo più o meno personale la clamorosa decisione di
questa settimana di cancellare un cruciale accordo militare tra il suo
paese e gli Stati Uniti. L’impatto del provvedimento, se confermato, è
tale tuttavia da incrinare seriamente i rapporti tra i due storici
alleati, suggerendo perciò l’esistenza di ragioni di portata strategica
ben più importanti. Queste, com’è facile intuire, hanno a che fare in
primo luogo con la rivalità crescente tra Washington e Pechino in Asia
sud-orientale.
A inizio settimana, dunque, Duterte ha notificato alla rappresentanza
diplomatica americana a Manila la sospensione unilaterale del
cosiddetto “Visiting Forces Agreement” (VFA), il trattato bilaterale
entrato in vigore nel 1999 che permette e regola lo stazionamento di
militari USA sul territorio delle Filippine. In assenza di iniziative da
parte dei due paesi, l’accordo sarà ufficialmente sciolto alla fine di
un periodo di 180 giorni.
Lo stesso Duterte ha collegato la sua decisione al provvedimento
preso dal governo americano per revocare il visto d’ingresso negli Stati
Uniti del senatore del suo partito, Ronald dela Rosa. Ex capo della
polizia filippina, quest’ultimo è implicato in un numero imprecisato di
assassini extragiudiziari di presunti spacciatori nel quadro della
durissima guerra al narcotraffico e al consumo di droga lanciata dal
presidente dopo la sua elezione.
La misura adottata da Washington ha in realtà poco a che vedere con
scrupoli per le colossali violazioni dei diritti umani del governo
filippino. Infatti, l’amministrazione Obama aveva inizialmente
appoggiato la campagna repressiva di Duterte, per poi cambiare idea in
corrispondenza con il processo di distensione con la Cina avviato dal
governo di Manila. Trump, da parte sua, aveva avuto parole di
apprezzamento per la guerra alla droga di Duterte, ma gli Stati Uniti
hanno continuato a sfruttare i sanguinosi eventi a essa legati per
esercitare pressioni sulle Filippine in chiave anti-cinese.
La mossa di Duterte sul VFA segna fin qui il punto più basso del
processo di deterioramento delle relazioni tra gli USA e la loro ex
colonia asiatica. Al termine del mandato presidenziale nel 2016 del
fedelissimo di Washington, Benigno Aquino, le Filippine erano tornate a
guardare con interesse a Pechino, sulla scia delle politiche filo-cinesi
dell’altro presidente, Gloria Macapagal Arroyo, in carica tra il 2004 e
il 2010. La natura impulsiva dell’attuale presidente ha probabilmente
influito sugli alti e bassi dei rapporti con l’alleato americano in
questi ultimi anni. In gioco c’è però ben altro e la stessa
imprevedibilità di Duterte, puntualmente enfatizzata dalla stampa
ufficiale in Occidente, è in buona parte il riflesso dell’acuirsi delle
tensioni geopolitiche nel sud-est asiatico.
L’infiammarsi del clima in quest’area del globo è in primo luogo il
risultato del riorientamento strategico degli Stati Uniti, impegnati da
qualche anno a raddoppiare gli sforzi militari, diplomatici e, in misura
minore, economici per contenere la crescita e l’espansione
dell’influenza cinese. In questo quadro, le Filippine rappresentano un
nodo cruciale per Washington, così come per Pechino.
Il trattato sullo stazionamento delle forze armate USA nel
paese-arcipelago è uno strumento importantissimo che garantisce una
posizione strategicamente privilegiata per il controllo del Mar Cinese
Meridionale. L’alleanza storica con le Filippine e le contese
territoriali tra Manila e Pechino in quest’area hanno infatti permesso a
Washington di rafforzare la propria presenza e tenere alta la pressione
sulla Cina.
La decisione di liquidare il VFA è probabile sia stata presa in
accordo con la Cina e, comunque, favorisce potenzialmente questo paese.
Innanzitutto, l’eventuale smantellamento del trattato, come ha spiegato
il comandante delle forze armate filippine, generale Felimon Santos jr.,
mettere in serio dubbio l’esecuzione delle esercitazioni organizzate
regolarmente tra i militari del suo paese e quelli degli Stati Uniti.
Questi esercizi bellici sono da sempre visti con irritazione da Pechino,
perché considerati come prove generali di un’aggressione militare
americana.
Un’altra implicazione esplosiva della fine del VFA l’ha descritta il
ministro della Giustizia delle Filippine, Menardo Guevarra, per il quale
la decisione di Duterte rischia di “svuotare di significato” gli altri
due principali trattati che definiscono l’alleanza tra i due paesi. Il
primo, risalente al 1951, è quello di “difesa reciproca”, che obbliga
uno dei due paesi a intervenire in caso di aggressione militare ai danni
dell’altro, mentre il secondo, firmato nel 2014, aveva in sostanza
rafforzato la “cooperazione nell’ambito della difesa” e gettato le basi
per la costruzione di basi militari USA nelle Filippine.
A spingere il governo di Rodrigo Duterte verso un evidente
riallineamento strategico a favore della Cina è in larga misura
l’attrazione rappresentata per un paese come le Filippine dai piani di
sviluppo, di investimento e di integrazione economico-infrastrutturale
di Pechino. Sia pure nei modi eccentrici con cui spesso si esprime,
Duterte ha frequentemente parlato in maniera più o meno razionale in
questi anni dei vantaggi per Manila del consolidamento di una
partnership multilaterale con la Cina, assieme ai rischi di un muro
contro muro col potente vicino, in contrapposizione a quelli decisamente
meno fruttuosi offerti da Washington.
Il percorso verso lo svincolo dagli Stati Uniti resta comunque
estremamente incerto e accidentato per le Filippine, non solo per via
dei trattati che resteranno in vigore anche in caso di cancellazione del
VFA. Nella classe dirigente filippina ci sono forti resistenze alla
possibile rottura dell’alleanza con gli USA, tanto che anche
l’iniziativa di questa settimana di Duterte potrebbe essere ostacolata e
forse ribaltata nelle prossime settimane. In molti, ad esempio, hanno
già sollevato la legittimità della decisione in assenza di un voto del
parlamento. Altri ancora, anche dentro il governo del presidente, si
sono affrettati a mettere in guardia dai rischi di una misura che
potrebbe andare a tutto beneficio della Cina.
In particolare, le forze armate filippine hanno tradizionalmente legami
molto profondi con Washington e il governo americano, fin dall’arrivo al
potere di Duterte, ha puntato proprio sui vertici militari del paese
asiatico per bilanciare e contenere gli impulsi filo-cinesi del
presidente. Le ansie degli alti ufficiali filippini sono evidentissime,
tanto che stanno già circolando voci non confermate di piani allo studio
per rimuovere Duterte con la forza.
Per il momento sarà la retorica degli oppositori del presidente a
tenere banco sui media e negli ambienti di potere a Manila. La
minacciata cancellazione del VFA conferma ad ogni modo e di per sé il
livello raggiunto dal conflitto interno prodotto dalle manovre
anti-cinesi di Washington. Soprattutto, gli sviluppi di questi giorni
mostrano ancora una volta come sia sempre più complicato, per le
Filippine come per altri paesi coinvolti nella rivalità USA-Cina,
conservare una politica estera autonoma ed equilibrata a fronte
dell’intensificarsi dello scontro tra le due principali potenze
economiche del pianeta.
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