Neanche il tempo di cominciare i giochi intorno all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, ed ecco che sono già finiti.
Sergio Mattarella ha preso ad esempio Giovanni Leone – non proprio il migliore, certo il più bersagliato dei presidenti – per ribadire che un secondo mandato non è proponibile né accettabile, e che in proposito andrebbe semmai riformata la Costituzione esplicitando il divieto e sopprimendo di conseguenza anche il “semestre bianco” (gli ultimi sei mesi, in cui il Quirinale non può sciogliere le Camere e indire nuove elezioni politiche).
Così facendo si è tirato fuori dai giochi, lasciando in pista il solo Mario Draghi, circondato di nomi che servono solo a far polverone.
I media di regime, intossicati da decenni di servilismo e politica ridotta a gossip, si sono immediatamente lanciati alla ricerca di una nuova trama per il vecchio sceneggiato, sbizzarrendosi in interpretazioni sui silenzi di Tizio o la dichiarazioni di Caio, smarrendosi tra le speranze e le delusioni di questa o quella frazione di partito.
Com’è noto, noi non siamo cronisti parlamentari, e non viviamo di battutine rilasciate da qualche portaborse addetto alla “comunicazione”. Preferiamo perciò delineare il “rebus Quirinale” nei suoi termini oggettivi, come “problema politico”, lasciando perdere il toto-nomine.
Uscendo da Montecitorio, peraltro, il quadro è relativamente semplice. La classe dirigente di questo paese sa benissimo che ha bisogno di creare una governance stabile per i prossimi cinque anni. Quello è infatti l’orizzonte previsto dal Recovery Fund europeo, tradotto nel PNRR del governo Draghi.
Ogni milestone da qui ad allora è già stata stabilita: chiunque governi dovrà realizzare una serie di “riforme” indicate con certosina precisione dalla Commissione Europea (equivalente Ue del governo), altrimenti si interromperà l’erogazione delle rate di prestiti e riprenderà l’oscena danza dello spread, con tutte le sue conseguenze (miliardi in più per interessi sul debito pubblico).
Tutta la “diversità” tra i vari partiti potrà sfogarsi sui barconi dei migranti, i ddl pro o contro qualche minoranza; roba per memorabili scontri tra un Fedez e un Pillon, insomma.
Alla fine di quel percorso l’Italia dovrà essere un paese più povero, più diseguale, più vincolato nelle filiere produttive continentali (ma senza controllarne alcuna, come si vede dall’offerta franco-tedesca per Oto Melara, ossia l’industria militare), più autoritario e meno “paterno” nei confronti della sua popolazione.
Su questo sono tutti d’accordo. Confindustria, partiti di ogni “orientamento culturale”, sindacati complici, bottegai e archistar.
Il problema è però che non esiste una classe politica credibile rispetto all’establishment multinazionale europeo. Anche qui, lo sanno anche i diretti interessati, che continuamente ricordano – a tutti noi e a se stessi – che “Mario Draghi è una garanzia”.
Tradotto: è un membro di lunga data della élite multinazionale (fin dai tempi del Britannia, un club davvero esclusivo), e dunque “quel che va fatto” lo sa da solo e meglio di chiunque altro. Ha contribuito a “stilare il programma”. Non ha bisogno di suggeritori né, tanto meno, di dar retta a bisogni e richieste popolari.
Ma se l’orizzonte da tener fermo è collocato da qui a cinque anni – mentre la legislatura termina tra 16 mesi – allora sorge il problema istituzionale oggettivo: è meglio che stia a Palazzo Chigi per questo poco tempo, insufficiente a realizzare tutte le “riforme”, oppure è preferibile insediarlo al Quirinale, riconoscendogli poteri da “presidenzialismo di fatto”?
Messa così, l’unica candidatura possibile è la sua.
Perché le prossime elezioni politiche – in qualsiasi data avvengano entro marzo 2023, con questa o altra legge elettorale – consegneranno di certo un Parlamento rimpicciolito di presenze, ma egualmente “balcanizzato” per l’oggettiva inconsistenza di questa classe politica. Oppure con una maggioranza chiara, che dovrebbe in qualche misura realizzare almeno qualcuna delle mirabolanti promesse elettorali, sicuramente in conflitto con il “risanamento” in stile Ue.
Da quel Parlamento, insomma, potrà venir fuori un governo credibile per i poteri sovranazionali soltanto se ad averne la regia sarà lo stesso Mario Draghi, “garante internazionale” dell’Italia su una delle due poltrone più importanti.
Più complicato è invece l’altro percorso, quello che porterebbe al Colle una figura certamente di granitica “fede europeista”, ma di minor spessore internazionale (a meno di non rispolverare Prodi e Monti...).
A quel punto, però, ci sarebbe l’incertezza sulla formazione del governo nella prossima legislatura. Qualunque ne fosse la composizione partitica, infatti, non sarebbe lineare far accettare un Draghi-bis con le caratteristiche di quello attuale – un “governo vero” che si occupa di temi economici, e uno “di facciata” per far giocare nani e ballerine.
Il rischio che qualche componente imbizzarrisca, tra finto-”sovranisti” e veri maneggioni, è abbastanza elevato. Tra un anno e mezzo, infatti, i primi effetti mortiferi delle “riforme” draghiane saranno già avvertibili. Mentre lo sciocchezzaio no vax, e a maggior ragione no green pass, sarà verosimilmente un lontano ricordo.
Le manifestazioni, a quel tempo, saranno probabilmente su questioni molto più serie (pensioni, salari, diritti sul lavoro, scuole, università, welfare, sanità pubblica, reddito, disoccupazione, ecc.), socialmente condivise, non raccontabili come “irrazionalismi terrapiattisti”.
Davanti a un panorama sociale più segnato dalla sofferenza della maggioranza, le tentazioni di “guadagnarsi” qualche consenso facendo sponda – anche finta, come con “quota 100” – potrebbero diventare irresistibili. E dunque ostacolare l’azione dell’”uomo del destino”, “solo al comando”.
Meglio, molto meglio, fargli presidiare la cabina di regia dal più alto dei Palazzi.
Anche per questo il “No Draghi Day” del 4 dicembre, e gli appuntamenti successivi, diventano politicamente importanti.
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