Il primo punto trattato dal Presidente riguarda gli avvenimenti delle scorse settimane che, come afferma, hanno mischiato rivendicazioni legittime e una concatenazione di violenze inammissibili che non beneficeranno di alcuna indulgenza”.
Se guardiamo al comportamento tenuto dalle forze dell’ordine – che hanno provocato un morto a Marsiglia, numerosi feriti gravi anche tra giovanissimi, un numero inedito di interrogatori, fermi e “processi lampo” – quest’attitudine era ben chiara anche prima che Macron si esprimesse.
Se poi consideriamo la mobilitazione dell’esercito inviato all’Isola della Reunion e il congelamento degli aumenti delle accise dei carburanti per tutto il Quinquennat, il quadro è piuttosto chiaro.
L’involuzione autoritaria ha leso sia la libertà di manifestare, attraverso fermi preventivi e condanne esemplari, sia il diritto di cronaca: cioè la possibilità di documentare, come hanno denunciato rispettivamente alcuni legali e quattro sindacati di giornalisti, supportati dalla Federazione Europea e Mondiale della categoria.
Non va dimenticato che nonostante una delle leggi anti-terrorismo più liberticide dell’Europa, che ha mutuato molti aspetti dell’“Etat d’urgence”, la possibilità che quest’ultimo venga dichiarato – come auspicato da vari sindacati di polizia, da alcune forze politiche d’opposizione di destra come la LR e da alcune persone di spicco dell’entourage macroniano – rimane sempre sullo sfondo, specialmente dopo gli avvenimenti di Strasburgo.
Su questo dobbiamo essere chiari. Sebbene lo stato d’emergenza non sia stato formalmente dichiarato, praticamente viene applicato: la repressione è l’unico vero programma che Macron ha da offrire ai francesi, in alternativa alla sua “abdicazione”.
Lo confermano le sue parole, sempre all’inizio dei suoi dieci minuti scarsi d’intervento: “Sono dunque la calma e l’ordine repubblicano che devono regnare. Noi ci metteremo tutti i mezzi”.
Mettiamo in evidenza: tutti i mezzi.
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Due altri aspetti dell’intervento che vogliamo mettere in luce sono: l’intransigenza nel volere perseguir i propri fini in termini di “riforme” programmate e il tentativo di aprire un “ampio dibattito” su due temi che spiano la strada all’opposizione di destra, in specie al RN (ex-FN) di Marine Le Pen.
Afferma Macron: “noi dobbiamo condurre una riforma profonda dello Stato, dell’indennità di disoccupazione e delle pensioni. Sono indispensabili”.
Il leader di En Marche! – di cui, stando ai sondaggi, poco meno del 20% dei francesi gradisce l’operato, mentre più della metà pensa sia giusto chiederne le dimissioni e circa 7 francesi su 10 appoggiano i GJ – è intenzionato ad andare avanti per la sua strada: in pratica non intende semplicemente amministrare l’esistente, ma “incidere in profondità” su alcuni aspetti fondamentali del patto sociale, pur non avendo una minima base di consenso e con una economia, precedentemente in sofferenza, che le più di tre settimane di mobilitazione stanno mettendo a dura prova.
Questo è il cuore della scommessa politica macroniana: governare senza consenso in un Paese in cui la protesta non accenna in alcun modo a placarsi.
Di suicidi politici sull’altare delle imposizione della UE ne abbiamo visti già altri, e non ci stupisce il fatto che una pedina possa essere sacrificata dalle oligarchie ordoliberiste, in questo caso però occorre chiedersi quale sarà la sua capacità di tenuta.
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Gli ultimi due nodi del discorso macroniano tolgono ogni dubbio sulla contrapposizione fittizia che Macron avrebbe voluto imporre come asse della sua narrazione, in previsione delle prossime europee – mutuata, tra l’altro, anche in Italia – tra “progressisti” e “nazionalisti” o, per usare i termini in cui è stata riproposta in UE e nel Bel Paese, tra “liberali” e “illiberali”.
“Voglio anche che noi mettiamo d’accordo la nazione con sé stessa su ciò che è la sua identità profonda, affrontando la questione dell’immigrazione”.
Questo è un tentativo di stravolgimento semantico del discorso pubblico per come si è sviluppato con le mobilitazioni iniziate il 17 novembre, è un assist al partito della Le Pen, che Macron ha scelto come “falso antagonista” per togliere terreno alla France Insoumise e alla vera opposizione al suo progetto.
Un opposizione al momento “unitaria”, che in un documento molto duro firmato da FI, PCF e PS, depositato insieme alle firme per chiedere la “motion de censure” (cioè la mozione di sfiducia), lancia il suo “j’accuse”.
In un primo momento, la mozione, doveva essere depositata lunedì, ma è slittata – per volontà del PS – a dopo il discorso di Macron; verrà probabilmente discussa sabato, in coincidenza con lo svolgimento dell’“Atto Quinto” della protesta, giorno successivo dello sciopero indetto dalla CGT e delle relative manifestazioni locali.
Il documento afferma esplicitamente che “il legame di fiducia tra il nostro popolo e il governo è reciso, rotto, e non si vede alcuna possibilità per quest’ultimo di rinnovare tale relazione. Il divorzio è attuato, bisogna cambiare radicalmente rotta”.
Le dimissioni di Macron sono, per il documento, l’unica exit strategy per superare l’attuale crisi politica ed attuare un programma alternativo che accolga le istanze propugnate dal movimento che si è manifestato.
Va altresì detto che giorno dopo giorno le forze di destra si stanno oggettivamente smarcando dal movimento. Il leader di LR, Laurent Wauquiez, ha detto espressamente di non sostenere l’“Atto Quinto” della protesta – e tutti ricordano che aveva proposto la promulgazione dell’“etat d’urgence” temporaneo in prossimità della mobilitazione di sabato scorso – mentre la Marine Le Pen ha ribadito la sua contrarietà all’innalzamento del salario minimo intercategoriale (lo Smic) e al ripristino della patrimoniale (l’ISF) cancellata da Macron, entrambe misure in testa alle richieste dei Gilet Jaunes, per incrementare il potere d’acquisto e la giustizia fiscale.
Appare chiaro che, al di là della retorica sulla “Francia dei dimenticati” cara alla leader del RN, quello che la preoccupa maggiormente la destra è non alienarsi l’establishment economico, considerando che la possibilità di cooptare le forze “populiste di destra” nella governance della UE è considerato il “male minore” per le oligarchie europee, rispetto all’apertura di uno spazio politico-sociale realmente alternativo di cui il movimento in Francia è forse la più pericolosa incarnazione agli occhi della borghesia continentale.
Un’ipotesi, questa, sempre più probabile, considerato che l’ultimo enfant prodige della politica “europeista” è ormai un cavallo zoppo, su cui è davvero rischioso scommettere sul lungo periodo, e la destra è in grado di vendere una ricetta semplice che sposta la contraddizione principale (tra il basso e l’alto) sulla contrapposizione tra penultimi e ultimi.
Che Macron voglia fare dell’identità nazionale e dell’immigrazione – i soli punti su cui, programmaticamente, le destre di ritorno dalla pausa estiva avevano dichiarato di voler centrare la propria propaganda elettorale in vista delle europee – i nodi principali di un ampio dibattito sotto la sua direzione, significa tentare di introdurre un “discorso pubblico” completamente diverso da quello imposto dal movimento dei Gilets Jaunes.
Significa ribadire il concetto dell’“Unione Sacrée”, cioè di una comunità nazionale fintamente unitaria proprio quando le fratture prodotte dalla polarizzazione sociale, dallo sviluppo ineguale, dalla crisi ecologica, vedono ormai contrapposta una élite ed un “blocco sociale” in via di coagulazione, in grado di esercitare una egemonia reale sul corpo sociale complessivo dei subalterni.
Il primo stadio di una ricerca collettiva, iniziata su stimolo delle ricercatrici del Centre Emile-Durkheim di Bordeaux all’indomani dello scoppio del movimento del 17 novembre (composto all’oggi da una settantina di ricercatori), invita infatti, sulla base dei dati raccolti nei loro questionari, a “riconsiderare le analisi che fanno del movimento una emanazione dell’estrema destra”.
Questa inchiesta, i cui primi risultati sono stati pubblicati sul numero di martedì 12 ottobre di “Le Monde”, suffraga abbondantemente l’interpretazione del movimento che fin dall’inizio avevamo fornito, contribuendo a fare terra bruciata di alcune narrazioni tossiche circolate particolarmente sui media nostrani, che riferivano si trattasse di un bacino sociale “orientato a destra”.
Citiamo integralmente la parte finale di queste prime indicazioni dello studio appena citato.
“Riassumendo, questa rivolta è proprio quella del «Popolo» – come rivendicato da numerose persone intervistate – nel senso delle classi popolari e delle fasce basse delle classi medie, quelle dei redditi modesti. Dal momento che più elementi fanno dei «Gilets Jaunes» una contestazione singolare in relazione ai movimenti sociali degli ultimi decenni. Oltre alla sua ampiezza, la forte presenza di occupati, di una bassa percentuale di diplomati, di coloro che sono alla prima manifestazione e soprattutto, la diversità dei rapporti con la politica e le differenti preferenze “di parte” dichiarate fanno delle rotonde e delle stazioni di pagamento del pedaggio [Cioè i luoghi dove si svolgono prevalentemente i presidi dei GJ, NdA], dei luoghi di incontro di una Francia poco abituata a prendersi lo spazio pubblico e la parola, ma anche dei luoghi di scambio e di costruzione collettive dalle forme raramente viste nelle mobilitazioni”.
Un movimento che, come dice la ricerca in base alle risposte date dagli intervistati, non ha tra le sue richieste – a parte casi più unici che rari – la questione della gestione dell’immigrazione.
La risposta migliore al discorso di Macron l’hanno data gli studenti delle medie inferiori, che hanno dato vita al “martedì nero” promosso dall’UNL, finora la più riuscita giornata di mobilitazione studentesca quanto a numero di blocchi degli istituti effettuati, mobilitazioni svolte ed impatto come risposta sempre più massiccia alla repressione, che proprio contro gli studenti degli istituti superiori aveva fatto il suo “salto di qualità”.
E le mobilitazioni dei “medi” hanno fatto da volano a quelle degli universitari, che hanno svolto nelle facoltà delle varie città assemblee generali molto partecipate e che giovedì avranno un loro specifico momento di mobilitazione.
Allo stesso tempo, non si riscontra alcun segnale di smobilitazione da parte dei Gilets Jaunes, che hanno compreso la il carattere di “recita” del discorso macroniano e rifiutato lo scambio tra “noccioline” (come sono state definite) e pace sociale.
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La crisi francese diventa così un vero rompicapo per l’UE, come riporta a chiare lettere il Sole 24 Ore di mercoledì 12 dicembre.
La Francia già messa sotto i riflettori della Commissione Europea per il vecchio budget 2019 – che dovrà essere ritoccato a causa delle misure promesse in queste settimane – “per il rischio di non compliance” – aggrava la sua situazione.
Al di là dei margini di ipotetico sforamento economico messi sotto accusa, il nodo è soprattutto politico: un movimento sociale non deve poter imporre ad un singolo esecutivo di attuare misure che relativizzano i rigidi parametri d’austerity fissati dalla gabbia dell’UE.
Se salta il dispositivo coercitivo per un paese, oltretutto importante, salta tutto...
Quello francese è il terzo “fronte” di crisi apertosi nella UE, dopo quello dell’incertezza sugli esiti della Brexit e del “contenzioso” con l’Italia.
Nell’analisi che ne fa Beda Romano in un articolo di prima pagina, dal significativo titolo “i tre rischi per la stabilità europea”, viene espressamente affermato:
“le crisi francese ed italiana sembrano relativamente simili. Nei due casi, la dirigenza politica intende aumentare la spesa pubblica per rispondere alle pressioni sociali. Per il governo Conte sarà gioco facile usare la sponda francese per tentare di ammorbidire le risposte comunitarie. Con quale successo? Non solo le due procedure sono strutturalmente diverse – l’italiana in parte ex ante; la francese tendenzialmente ex post; ma la Francia ha margini di manovra superiori. Tutto sarebbe più facile per Bruxelles se in maggio non si votasse per il parlamento europeo”.
Ribadiamo: “Tutto sarebbe più facile per Bruxelles se in maggio non si votasse per il parlamento europeo”.
E’ qui il sotto-traccia di tutto del ragionamento che ci aiuta a mettere in evidenza un nodo cruciale omesso dagli analisti del quotidiano di Confindustria: e se il movimento iniziato dai GJ, oltre ad essere divenuto il punto di “rottura” più alto tra élites e popolo nell’Esagono, fosse l’incipit della creazione di uno spazio politico-continentale in grado di travalicare la Francia ed estendersi alla vecchia Europa, a qualche mese della prossime elezioni europee, come ottimisticamente lascerebbero presagire alcuni segnali in Belgio, Germania e Catalogna?
Vi ricordate quello striscione nel punto più alto d’Atene esposto nel fulcro della crisi greca: “Peoples of Europe Rise Up!”?
Beh, forse ieri era troppo presto, ma senz’altro domani sarà troppo tardi...
Fonte
Credo ci si stia facendo un po' fuorviare dall'evoluzione accelerata dei tumultuosi eventi francesi.
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