Tra il 22 e il 24 marzo si è tenuta a New York la seconda Conferenza Mondiale ONU sull’acqua. La prima si è svolta più di 45 anni fa, e questo fa capire come il tema sia stato molto poco al centro delle preoccupazioni e delle collaborazioni internazionali, pur essendo sulla bocca di tanti politici.
Lo scenario delineato nell’incontro è decisamente peggiore di quello che si aveva fino a poco tempo fa. L’allarme era già stato dato dell’organizzazione di ricerca World Resources Institute, che aveva elaborato una mappa della carenza idrica, con 17 paesi a rischio altissimo entro il 2040.
Le Nazioni Unite danno dati ancora più allarmanti. Entro il 2030 la domanda di acqua dolce supererà l’offerta del 40%, e già oggi più di 2 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, favorendo la diffusione di diverse malattie (colera, tifo, poliomelite, dissenteria).
Sono invece 1,2 milioni le morti causate dall’uso di acqua non sicura, e a complemento di questi dati un rapporto UNICEF conta circa 190 milioni di bambini messi in pericolo di vita dalla mancanza di acqua in dieci paesi dell’Africa. Sei di questi hanno da poco vissuto un’epidemia di colera.
Lo sviluppo di conflitti per l’accesso all’acqua è una realtà conclamata da tempo: ne sono stati censiti 94 tra il 2000 e il 2009, e sono diventati 263 tra il 2010 e il 2018. Il risultato è un circolo vizioso in cui gli scontri rendono ancora più difficile ottenere servizi idrici e igienici dignitosi.
La siccità causata dalla crisi climatica è anche all’origine di sostanziosi flussi migratori. L’IPCC, il gruppo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, ha calcolato in quasi 90 milioni le persone fuggite da terre non più vivibili nel solo 2021. Entro la metà del secolo se ne stimano più del doppio.
Il rapporto prodotto dall’ONU in occasione della conferenza punta il dito innanzitutto verso le realtà più ricche del mondo, dove avviene la maggior parte del consumo e degli sprechi. Nel rapporto si delineano ben sette raccomandazioni chiave per affrontare il problema.
Si chiede di cancellare circa 700 miliardi di sussidi agricoli mal indirizzati. Il settore rappresenta il 70% dei prelievi mondiali, a cui si accompagnano anche le attività minerarie nel consumo eccessivo di acqua. Questa, viene detto, deve invece essere gestita come bene comune globale, essendo i vari paesi legati ai propri vicini nell’approvvigionamento.
Nel rapporto si fa anche esplicito riferimento alla necessità di lavorare con l’industria per indirizzare al meglio gli investimenti. Proprio questo sembra essere il punto più debole del testo: è proprio dall’aver dato al privato e alla sua ricerca di guadagno il ruolo determinante nel determinare lo sviluppo sociale ad averci portato dove siamo ora.
La contraddizione tra la garanzia dei profitti e la garanzia dell’ambiente l’abbiamo osservata diverse volte. È piuttosto ingenuo credere che le cose cambieranno per l’acqua, solo per l’incipiente crisi: il capitale non ha la capacità di ragionare sul lungo periodo, o almeno non così tanto.
Ha però la capacità di ragionare sulle occasioni più redditizie nel breve e medio termine, e l’acqua è una di quelle. Puntare sulle infrastrutture e nella gestione della risorsa potrebbero portare il privato ad avere 6,35 dollari ogni dollaro investito oggi, dice l’ONU stessa.
Ma soprattutto, «l’oro blu» ha un giro d’affari in crescita di un 5% annuo, che attira gli operatori finanziari. Al di là delle speculazioni dei fondi con vari strumenti attraverso le società del settore, dalla fine del 2020 esistono veri e propri futures sull’acqua della California, e il fenomeno sembra destinato ad espandersi.
Se siamo arrivati ad avere dei titoli derivati (ricordiamolo, all’origine delle peggiori bolle speculative che abbiamo vissuto) sull’andamento del prezzo dell’acqua, è innegabile che ormai ogni cosa sia diventata una merce.
La nostra vita è probabilmente quella che vale di meno, in questo mercato.
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