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06/08/2025

Disastro urbano e insignificanza dell’arte nella società di crescita secondo Latouche

di Gioacchino Toni

Serge Latouche, Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea, traduzione di Cristina Cecchi, elèuthera, Milano 2025, pp. 104, ed. cartacea € 14,00, ed. digitale € 6,99

Se la città produttivista, con tutti i suoi disastri ambientali e sociali, vanta ormai una lunga storia, è con il processo di globalizzazione scatenatosi alla fine del vecchio millennio che, sostiene Serge Latouche, si assiste all’esplosione dell’urbano. Pur distruggendo con l’industrializzazione ottocentesca una parte importante delle città storiche (come hanno raccontato Émile Zola e Charles Dickens), la modernità ha comunque mantenuto o strutturato un qualche equilibrio urbano, sociale e valoriale grazie anche alla lotta di classe che, con le sue rivendicazioni e le sue lotte, ha saputo imporre il mantenimento di un minimo di vivibilità e socialità.

È con la mercificazione e la finanziarizzazione – con la deregolamentazione della società salariale e dello Stato sociale, con la disintermediazione finanziaria e con la disarticolazione delle barriere economiche e mercantili – imposte dalla globalizzazione inaugurata dal duo Reagan-Thatcher che si assiste alla omnimercificazione del mondo. Tutto diviene commerciabile in una società che sembra fare della crescita il suo scopo primario. Alla luce di tali premesse, il recupero dei centri storici che ha caratterizzato gli ultimi decenni si è spesso risolto in gentrificazione e museificazione inaugurando un’espulsione nelle periferie dei ceti popolari, espulsione ultimamente portata avanti anche attraverso il meccanismo degli affitti brevi.

Il disastro urbano, scrive Latouche, «non è tanto il risultato del fallimento degli architetti o degli urbanisti, quanto il risultato di una crisi di civiltà», dunque, per ricomporre il tessuto sociale locale e urbano, continua lo studioso, occorre uscire «da questa società di crescita che atomizza la società e perde di vista il bene comune»; la realizzazione di una società di decrescita, che abbandoni una volta per tutte «il culto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita» appare a Latouche come l’unica possibilità di ricomposizione.

Non si tratta, però, mette in guardia lo studioso, di «fare un’inversione caricaturale che consista nell’esaltare la decrescita per la decrescita». Anche alla luce del fatto che oltre due miliardi di persone, non ammesse nelle città, si trovino a vivere in bidonvilles e in favelas autocostruite, occorre saper contrapporre alla società di crescita un’utopia radicale, sistematica e ambiziosa che preveda di: «rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare». Insomma, secondo lo studioso, serve un altro modo di abitare la città. Per quanto l’utopia della decrescita implichi una visione globale, per attuarla, però, puntualizza Latouche, non si può che partire dai territori.

Rifacendosi al pensiero di autori contemporanei come Cornelius Castoriadis e Jean Baudrillard e riprendendo le idee e le sperimentazioni dell’utopista ottocentesco William Morris, Latouche giunge a ritenere che il disastro urbano e l’insignificanza dell’arte contemporanea abbiano le medesime origini. La società di crescita «con la sua pervasiva artificializzazione della vita lacera il territorio, divora lo spazio, rode il senso dei luoghi, disintegra il tessuto sociale» compromettendo «ogni capacità di meravigliarsi, a favore di quella replica infinita dello stesso che è il segno distintivo dell’arte contemporanea».

Occorre prendere atto, sostiene Latouche, che la generazione dei grandi maestri dell’architettura come Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe e Walter Gropius, e persino quelli di loro più attenti alla questione ecologica, come Frank Lloyd Wright, Alvar Alto e Hassan Fathy, così come la generazione successiva che vanta personalità del calibro di Renzo Piano, Paolo Portoghesi, Frank Dehry, Ricardo Bofill e specialisti dell’abitare ecologico come Philippe Madec, Christian de Portzamper e Jacques Ferrier, non sono riusciti ad andare oltre alla realizzazione di singole unità, non hanno insomma saputo/potuto “fare città” ed evitare la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio e, in generale, l’aumento della bruttezza.

Il trionfo del mercato e della globalizzazione, sostiene Latouche, «dissolve l’arte nell’ossimoro dell’industria culturale», in tale contesto la finanziarizzazione dell’arte ha finito per imporre su scala globale una sorta di pensiero unico. Baudrillard aveva saputo anticipare sin dai primi anni Settanta del secolo scorso quel processo di annientamento dell’arte operato del mercato sviluppato dall’industria cultuale che avrebbe condotto, come sostiene Castoriadis, alla condanna dell’opera d’arte a divenire prodotto destinato, al pari di tutti gli altri prodotti contemporanei, alla smania della novità e alla rapida obslolescenza.

Per quanto anche prima dell’avvio di quella che è stata definita l’era della globalizzazione si avesse a che fare con un’economia di crescita, la società di allora, puntualizza Latouche, non era ancora stata del tutto fagocitata dall’economia. «La cultura non era ancora completamente industrializzata e mercificata» e ancora si avevano artisti operanti in maniera genuinamente critica nei confronti della società. Nel frattempo persino la critica artistica radicale alimentata in Francia dai Situazionisti è stata ampiamente recuperata dal nuovo spirito del capitalismo che si è dimostrato particolarmente abile nell’utilizzare «le resistenze messe in atto per mantenere in vita il mito dell’arte e della cultura, mentre ne distrugge la realtà».

Convinto che al fallimento della politica urbana e all’insignificanza dell’arte contemporanea abbia contribuito la crisi della cultura, Latouche ritiene che insieme alla ricostruzione del tessuto locale e urbano, il progetto della decrescita possa fornire gli strumenti e l’immaginario per ricostruire anche il senso del bello, per «re-incantare il mondo».

Per quanto la soluzione della decrescita proposta da Latouche sollevi perplessità e critiche anche nell’ambito della critica anticapitalista, lo studioso ha indubbiamente il merito di denunciare efficacemente la follia produttivista a partire dalle sue fondamenta.

L’analisi di Latouche andrebbe comunque aggiornata alla luce dell’incidenza che la rivoluzione digitale e l’introduzione dell’intelligenza artificiale stanno comportando a livello sociale e culturale, con tutto ciò che ne consegue a livello del fare società, di costruzione identiaria e di immaginario. Un mutamento che riscrive l’idea stessa di crescita indirizzandola verso forme inedite. Se, anche alla luce di ciò, è difficile immaginare come possa essere avviato e praticato un tale programma di decrescita coinvolgendo attivamente una popolazione che ha sedimentato atomizzazione e individualismo, di certo resta viva l’urgenza sociale, ambientale e culturale di fermare la deriva produttivista, prima che sia davvero troppo tardi.

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16/05/2025

Consumi della Gen Z: pochi e poco green. Ma è un problema di sistema

Il 12 maggio è comparso un interessante articolo su Il Sole 24 Ore, riguardante le tendenze dei consumi della Gen Z, ovvero coloro nati tra la fine degli anni Novanta e il 2010. In sostanza, quella fascia di popolazione che va dagli adolescenti a, in questo studio, i giovani fino ai 27 anni.

È il servizio NIQ Discover di NielsenIQ, società per indagini di mercato, che ha integrato in un’unica piattaforma i dati riguardanti circa 16 mila persone, analizzando le novità nelle abitudini di consumo degli italiani. Il primo nodo che viene messo in evidenza è che si è più inclini a spese emergenziali e al refill che allo stoccaggio domestico.

La motivazione è individuata in acquisti fatti con molta attenzione al budget familiare, evitando sprechi. Il consumatore si reca magari più volte nei negozi, ma per acquisti inferiori e immediatamente necessari. Le abitudini cambiano anche a seconda della dimensione del centro abitato in cui si vive.

Nelle grandi città si comprano soprattutto prodotti pronti al consumo. Un sintomo di come non ci sia tempo da dedicare, ad esempio, alla cucina, perché i tempi di lavoro e del ciclo capitalistico sono molto più serrati. Questo nodo sistemico porta con sé un inevitabile impatto sull’alimentazione, e dunque sulla salute delle persone.

Ancora più interessante è poi quando la ricerca si concentra, appunto, sulla Gen Z. I giovani italiani sono concentrati in famiglie dal basso potere d’acquisto, e quando fanno la spesa ricercano prodotti che garantiscano una gratificazione immediata, semplifichino la vita quotidiana e soddisfino il bisogno di evasione da una realtà oppressiva.

Come nella differenza tra coloro che vivono in centri abitati di piccole o grandi dimensioni, sono i nuclei familiari più anziani e, spesso, senza figli, a trainare i consumi con prodotti salutari e con le eccellenze del territorio. Sono gli unici che hanno la disponibilità economica per affrontare consumi che si allineano ai bisogni della salute e dell’ambiente.

Al contrario, i più giovani, spesso associati a una più profonda coscienza green, fanno acquisti dalla dubbia sostenibilità. Fa specie che tra gli incrementi nelle abitudini di spesa degli italiani ci sia ai primi posti l’avocado (+317%), frutto che ha creato molti dibattiti riguardo al proprio impatto ambientale.

La realtà è che, come molte altre cose, anche i consumi sono espressione di particolari status sociali, e sono alimentati dalla loro ‘mediatizzazione’, come è il caso dell’avocado per i più giovani. E questo non significa che ci sia disinteresse per il futuro del pianeta, ma solo che bisogna comprendere il ruolo del consumo responsabile in questo sistema.

Esso è un’opzione che, in un certo senso, può essere associata al boicottaggio di alcuni prodotti, e può risultare utile quando si vuole denunciare un problema, o raccogliere consensi intorno a determinate lotte. Ma il problema di fondo rimane nei meccanismi di mercato e nel modo in cui trasformano in un business anche il consumo responsabile.

Quello che viene indicato come tale è spesso solo un privilegio economico. Inoltre, in questo caso appare evidente come l’attuale modello di sviluppo sia così segnato dalle sue contraddizioni che sono le generazioni che, in generale, più di tutte sono interessate al futuro del Mondo in cui devono ancora passare decenni e decenni che finiscono con l’adottare consumi poco salutari e non sempre ‘sostenibili’.

Una società che ha spacciato come valori fondanti l’individualismo e la soddisfazione personale in contrapposizione ai bisogni collettivi non poteva che produrre un modello di consumo in cui, pur di sfuggire a un presente povero e senza speranza, finisce ad acquistare ciò che dà sollievo immediato, ma apre profonde ferito sul futuro. Un fallimento totale.

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14/02/2025

The Substance. Il massacro dello show business

di Roberta Cospito

Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti.

In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio interessante.

Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film ruota attorno all’assunzione di una “sostanza” reperita sul mercato nero da parte dell’attrice cinquantenne Elisabeth Sparkle (fisico e volto sono di Demi Moore), ormai in declino e relegata a fare lezioni di aerobica per la televisione, nonostante in passato sia stata premiata anche con un Oscar.

L’imperativo dello show business è però impietoso e, così, lo spiacevole produttore del programma – Harvey, stesso nome di battesimo di Weinstein, il tristemente noto produttore cinematografico statunitense –, con le fattezze dell’attore statunitense Dennis Quaid, decide che ormai Elisabeth ha fatto il suo tempo ed è ora che lasci il campo a una sostituta più avvenente.

L’essere licenziata proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno perché non ha più lo splendore della gioventù – curiosamente il suo cognome, Sparkle, in inglese significa scintillare –, fa precipitare la diva nella depressione più totale per cui, di fronte alla possibilità di ritornare ai fasti del passato, cede rapidamente alla tentazione d’inocularsi una sostanza che le darà la possibilità di creare – in pratica, partorire non dal grembo ma dalla schiena – una versione migliore di se stessa, dove per migliore in questo caso s’intende più giovane e bella.

Le regole del procedimento sono poche, semplici e ben spiegate: il siero è inoculabile una sola volta e le due donne, la “diva matrice” e la “diva altra sé”, dovranno alternarsi ogni sette giorni, l’una andando in una specie di letargo mentre l’altra resterà libera di agire: Elisabeth potrà così rivivere per interposta persona un’altra giovinezza con tutti i suoi benefici, percependo nello stato “vegetativo” tutto quello che l’altra – interpretata da Margaret Qualley, battezzata Sue – vivrà direttamente.

L’esperimento pare funzionare. Sue riesce a essere la protagonista dello spettacolo che prima era condotto da Elisabeth riscuotendo un successo strepitoso ed entrando rapidamente in un vortice di impegni, conoscenze, opportunità, ormai precluse all’altra che si ritroverà, invece, ad affrontare settimane di solitudine e inattività a cui non era abituata.

Ben presto, a Sue il tempo a sua disposizione non basta più e – contravvenendo alla regola dell’alternanza e dimenticando l’imperativo che le viene fornito insieme al kit di (ri)generazione di tenere ben presente il fatto che l’identità è una sola, seppur in qualche modo sdoppiata – decide di non lasciare più possibilità di vita all’altra innescando, così, un meccanismo di devastazione del corpo (matrice) di Elisabeth da cui pare impossibile ritornare indietro.

Ogni momento rubato alla vita dell’altra crea a questa un terribile invecchiamento del corpo, un po’ come succede ne Il ritratto di Dorian Gray per cui Dorian venderà la sua anima per garantirsi che sarà un’immagine dipinta e non il proprio corpo a invecchiare.

L’aspetto più rilevante e apprezzabile del film è la denuncia che fa la regista: è evidente la critica allo show business, al mondo degli affari che alimenta quello dello spettacolo per cui bisogna massimizzare i guadagni e buttare via ciò che viene considerato obsoleto, persone incluse; un mondo in cui bisogna vincere a ogni costo e pazienza se si lasciano delle vittime sul campo.

L’altra forte critica è nei confronti di una società in cui la mercificazione del corpo delle donne è all’ordine del giorno, decisa a farci credere che l’esteriorità, la bellezza, sia l’unico obiettivo che valga la pena perseguire nella vita.

La regista, con decise inquadrature sul corpo giovane e sodo di Sue, stringendo l’occhio della telecamera su glutei, cosce, seni e labbra, restituisce alla perfezione lo sguardo che alcuni uomini posano senza il minimo rispetto sui corpi femminili ignorando (o facendo finta di ignorare) quanto sia offensivo e doloroso per chi li riceve. Ma assieme si sviluppa una critica anche nei confronti di chi non riesce ad accettare i segni che il passare del tempo lascia inevitabilmente sul nostro corpo, segni che dovremmo imparare, se non proprio ad apprezzare, almeno ad accettare con serenità, lasciando che la natura segua il suo corso.

A un certo punto del film Elisabeth incontra un suo vecchio compagno di scuola che, incantato dal suo aspetto – stiamo parlando di Demi Moore, una bellezza decisamente fuori del comune –, riesce a vincere la timidezza lasciandole il suo numero di cellulare; in un primo momento, lei lo liquida velocemente, ma quando i morsi della solitudine iniziano a farla sanguinare decide di telefonargli e accettare un suo invito a cena. La sera stabilita si prepara con cura e, con il suo attillato vestito rosso, si appresta a uscire, ma il suo sguardo si posa sull’immagine di Sue ritratta in un enorme poster visibile dalla finestra del suo appartamento e, a quel punto, corre in bagno ad aggiustarsi il trucco, i capelli, una, due, tre volte, finché alla fine rinuncerà a uscire non considerandosi nemmeno abbastanza bella da poter farsi vedere dal suo ex compagno di scuola, un uomo che definirlo ordinario è un complimento, o da eventuali avventori del ristorante dove i due si sarebbero incontrati.

Chi come me in quel momento faceva il tifo per lei, una donna che finalmente avrebbe potuto ricevere i complimenti cui era stata abituata e di cui aveva un bisogno disperato per ricominciare a sentirsi viva, resta delusa dalla sua scelta di non uscire ma, d’altra parte, quando una persona è abituata a essere osannata, idolatrata, ammirata quotidianamente la vita “normale” è dura da gestire, l’equilibrio con se stessi difficile da raggiungere.

La maturità, il vissuto da cui Elisabeth dovrebbe o potrebbe ricevere forza, non riesce a evitarle l’arenarsi in poltrona davanti alla televisione; fa riflettere il fatto che, nonostante i tanti soldi guadagnati in una vita da prima donna, le varie frequentazioni con altre celebrità, i riconoscimenti di vario tipo (addirittura la stella sulla Hollywood Walk of Fame) non resti traccia né di felicità né di rapporti umani su cui poter contare.

The Substance mi ha lasciata perplessa per qualche momento eccessivamente didascalico come, per esempio, il sottolineare più volte e da subito l’unicità delle due versioni femminili – peraltro, ponendo lo spettatore in uno stato di allerta per cui si può immaginare che sarà proprio questo l’aspetto che creerà problemi nella gestione della sostanza – e qualche esagerazione di troppo; per esempio, molti hanno ritenuto eccessivo il finale in cui viene versato sangue a ettolitri – scene, in effetti, molto splatter che però possono essere giustificate dal voler farci riflettere sulla mostruosità della bellezza a ogni costo – ma, personalmente, ho trovato più fastidioso il fatto che Sue riesca a ricavare dal suo bagno una sorta di sgabuzzino non visibile all’esterno, con l’abilità di una carpentiera d’esperienza quando, invece, si sta parlando di una star della tv che nulla c’entra con fiamme ossidriche e martelli.

Durante la visione del finale, mentre le immagini del corpo in disfacimento di Elisabeth riempivano il grande schermo, continuavo a pensare al saggio di Jude Ellison Sady Doyle Il mostruoso femminile edito da Tlon, un’opera che indaga – analizzando miti, letteratura e anche cinema horror – la primordiale paura che il patriarcato nutre da sempre nei confronti delle donne: “La donna è sempre stata un mostro. La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto: sirene carnivore, Furie che con artigli affilati come rasoi dilaniano uomini, leanan sídhe che incantano mortali per poi prosciugarne l’anima. Queste figure – di una bellezza letale o di una bruttezza intollerabile, subdole o traboccanti di furore animale – rappresentano tutto ciò che gli uomini trovano minaccioso nelle donne: bellezza, intelligenza, rabbia e ambizione. Nel mito cristiano, a essere donna è l’apocalisse. Nella Bibbia, infatti, si profetizza che la fine dei tempi sarà dominata da una regina lussuriosa con in mano un calice d’oro «colmo delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione”.

Mi piace chiudere così, con la letteratura, a mio avviso sempre poco citata quando si scrive di cinema, benché nelle numerose recensioni a The Substance abbondino, anche giustamente, gli accostamenti con film quali The elephant man di David Lynch, Shining di Kubrick, Crash di David Cronenberg, Titane di Julia Ducournau, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, Alien di Ridley Scott, Carrie. Lo sguardo di Satana di Brian De Palma e molti altri ancora.

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24/09/2024

Ultima trincea: il corpo

La Guerra Mondiale in atto vede analisti e intellettuali dividersi sui meccanismi geopolitici che la hanno scatenata. Confini geografici, ingerenze politiche, dinamiche neo colonialiste, blocchi economici. Dal basso, invece, la sensazione è che questa Guerra Mondiale abbia, molto oltre le dinamiche belliche tradizionali, un unico obiettivo: l’annientamento del corpo umano.

In tal senso, oltre i conflitti tra nazioni, abbiamo conflitti dentro le nazioni: la trincea del Lavoro, con oltre due milioni di morti in tutto il mondo all’anno, è emblema di un conflitto tra profitto e Uomo. Tra Ultimi e padroni.

Il braccio di Satam Singh, il bracciante indiano morto a 31 anni, consegnato alla famiglia in una cassetta della frutta è simbolo, scultura vivida, di una guerra invisibile tra la casta feudale dei nostri imprenditori e la nuova schiavitù afona e invisibile. Il migrante visto, dunque, come macchinario che perde pezzi, esattamente come un trattore che si rompe. A Striano, un ragazzo marocchino di 23 anni, ha perso una gamba: amputata perché schiacciata da una colmatrice durante una lavorazione agricola.

Ma ai corpi mutilati dalla cultura del cottimo e a quelli assassinati dalla logica del profitto, vanno aggiunti i corpi che, per motivi diversi, diventano scarto, rifiuto umano non riciclabile, sia per la danza del tempo e un invecchiamento che li vede inservibili, che per le malattie che l’uso improprio della vita altrui causa nella psiche o nella salute fisica degli Ultimi. L’esubero da inviare nelle discariche di questa contemporaneità malata.

Il corpo che va nutrito, amato, curato diventa involucro vuoto di anima, macchina da utilizzare nelle dinamiche di un capitalismo criminale. I pezzi di ricambio, che siano le vagine delle prostitute o le braccia degli operai, parte del macchinario di profitto che li sfrutta, fintanto che può sfruttarli. Poi?

La trincea del corpo come cosa, oggetto, numero freddo per il quale i bambini morti a Gaza hanno lo stesso peso Etico dei goal di Dybala.

Ed è esattamente la scomparsa del valore della Vita e la comparsa del parametro corpo, che spinge la Pubblica Opinione a non cogliere la mostruosità intrinseca nelle aggressioni “a distanza” fatte da Israele nella sua ultima diavoleria tecnologica di inserire micro bombe nei walkie-talkie o nei cerca persone. Colpire indistintamente corpi nemici, intendendo per nemici “gli altri”, che siano i corpi dei poveri, i corpi dei lavoratori, i corpi visti come buchi erotici: corpi senza identità ne, tantomeno, la Dignità che ha evoluto il genere umano fino a questo punto di non ritorno.

Così a Napoli, a Piazza Nazionale, vedi di notte corpi a fine corsa in fila per aspettare una cura che renda più lieve il loro trapasso. Migranti con malattie terminali che non trovano nemmeno quella pietas che spetta al sole dei morenti. Un fascismo della freddezza, della Indifferenza che tollera, giustifica, discetta su una mostruosità che sta trasformando le nostre città in lager.

Il corpo come ultima trincea di una guerra, dove persino il cibo o l’acqua vengono trattati dai nostri amministratori come strumenti di profitto per sé stessi, i propri amici e i marci eserciti della bontà terzosettoriati. Così la distribuzione degli “avanzi” del nostro consumismo diventa ennesimo business dei baroni, del loro consenso e della loro sciagurata inutilità.

Ai due milioni di morti da Lavoro, bisogna quindi aggiungere milioni di morti da non lavoro, da fame, da malattie non curate, da abbandoni causati esattamente dalla perdita di qualche pezzo di sé, lasciato in un macchinario tessile o sotto un trattore. Il corpo in trincea della sopravvivenza, che sia in un fronte inventato per difendere qualche statista cocainomane o quello sventrato nelle nostre contrade è sempre quello del proletario, qualunque sia il colore della sua pelle.

Ed è esattamente da questo che l’autunno di Lotta che ci aspetta deve partire: la Vita, il suo unico e insostituibile peso specifico. Altrimenti è ennesima esercitazione da salotto, un comunismo da happy hour che serve solo a divertire i potenti.

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16/08/2024

La tv è stanca

Il modello di sviluppo industriale del calcio è in profonda crisi: la difficoltà nel piazzare i diritti tv per le partite del massimo campionato francese, è la prima avvisaglia di un complessivo ridimensionamento degli investimenti dei maggiori broadcaster. Ma la crisi non riguarda soltanto la Francia: il rialzo continuo dei prezzi di abbonamento, la corsa allo sfruttamento intensivo del prodotto attraverso la proposta di una programmazione molto discutibile per contenuti e qualità, la fatica nel conservare il parco abbonati sono tutti segnali che per il business i margini di crescita si siano esauriti. Ce ne parla, con la solita lucidità, Pippo Russo.

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La prima notizia è che l’inizio della catastrofe è stato evitato in extremis. La seconda notizia è che quell’inizio di catastrofe è soltanto rinviato. Succede tutto a Parigi, dove tra il mese più pazzo di sempre nella storia elettorale nazionale e l’avvicinarsi della trentatreesima olimpiade estiva ha trovato posto la risoluzione di uno psicodramma nazionale: la cessione dei diritti televisivi per la trasmissione delle partite di Ligue 1. L’inizio della nuova stagione, fissato per il 18 agosto, è stato accompagnato da un’angoscia di tipo nuovo, e per questo ancor più destabilizzante: l’angoscia che il calcio nazionale diventasse uno spettacolo invisibile. Il vecchio contratto è scaduto a giugno e in genere ciò avviene quando un nuovo contratto per il periodo successivo è stato già firmato. E invece la Ligue 1 si è ritrovata scoperta. Le settimane passavano, l’inizio del campionato si avvicinava e il rischio che il calcio transalpino sprofondasse in un ambiente mediale da anni Ottanta si faceva sempre più probabile. Né era soltanto una questione di copertura televisiva. Perché il punto massimamente critico stava (e rimane) nel fatto che i denari delle tv sono, e di gran lunga, la principale voce di ricavo per le società calcistiche del massimo livello, in Francia come altrove. Dunque, non firmare un contratto per la cessione dei diritti televisivi sarebbe stato un disastro per le casse di tutti i club.

Il problema nasceva da una richiesta della Ligue 1 che le emittenti televisive ritenevano eccessiva. I club speravano di spuntare 700 milioni di euro a stagione per il periodo 2024-29. E le emittenti rigettavano questa richiesta non tanto perché volessero tirare sul prezzo, ma perché, semplicemente, la Ligue 1 non vale quei soldi. Delle cosiddette Big 5 (le cinque principali leghe europee, gruppo di cui fanno parte, oltre al torneo francese, la Premier League inglese, la Liga spagnola, la Bundesliga tedesca e la nostra Serie A) è quella di livello tecnico inferiore e dal richiamo mediatico più debole. E non è nemmeno questo l’aspetto più penalizzante. Il vero, gigantesco handicap della Ligue 1 è che è un non-campionato; nel senso che si sa già chi lo vincerà prima che venga dato il via. Da quando il Paris Saint Germain è passato sotto proprietà qatariota non c’è più stata partita per nessuno. Scontato il rodaggio iniziale, il PSG ha lasciato per strada soltanto due campionati, ma giusto perché l’ossessione di vincere la Champions League ha indotto distrazione rispetto al torneo domestico, che i parigini pretendevano di poter vincere anche viaggiando col pilota automatico. Ma una volta imparata la lezione, il PSG non ha più sbagliato colpi. Né regge più di tanto il paragone con la Bundesliga (dove però il Bayern Monaco ha appena mancato il colpo al termine della scorsa stagione, cedendo il passo al Bayer Leverskusen), perché il livello medio del campionato tedesco è nettamente superiore a quello del campionato francese, come testimoniato dagli esiti delle coppe europee. Tenuto conto di tutto ciò, la richiesta della lega professionistica francese era irricevibile. E infatti non è stata recepita dai broadcaster, che nel braccio di ferro hanno dato da subito l’impressione di non essere quelli pronti a cedere.

E così è stato. I club hanno dovuto accettare un’offerta nettamente al ribasso di quasi il 30%: 500 milioni di euro. Una somma che non dice nemmeno tutto sull’umiliazione che i club della massima serie francese hanno dovuto ingoiare pur di non sparire dagli schermi televisivi. E per capire il senso della cosa basta guardare chi e come ha messo a disposizione quella somma. A pagare sono stati infatti due broadcasters, che si sono divisi il pacchetto delle 9 partite a giornata. Uno dei due è Dazn, che nelle lunghe settimane dello scontro aveva mandato a dire chiaramente di poter fare a meno della Ligue 1 senza particolari remore. Per chiudere l’accordo, l’emittente che detiene anche i diritti della Serie A ha accettato di elevare l’offerta da 375 a 400 milioni di euro. Una mancetta da 25 milioni di euro che per i club del massimo campionato francese è stata quasi più umiliante della precedente intransigenza. Grazie a quei 25 milioni di euro supplementari, Dazn si è assicurata un pacchetto di 8 delle 9 partite per ogni turno di campionato. La nona partita di ogni turno è stata aggiudicata a beIN Sport, che in cambio ha accettato di versare 100 milioni di euro a stagione. Una somma che, parametrata a quanto versato da Dazn per ottenere 8 partite a giornata, è del tutto spropositata. Ma proprio qui sta l’ulteriore aspetto di umiliazione per la Ligue 1. Perché beIN è un’emittente di proprietà di Qatar Sports Investments, il fondo sovrano che controlla il Paris Saint Germain. E perché entrambi i soggetti (PSG e beIN) sono guidati da Nasser Al-Kehlaïfi, plenipotenziario dell’emirato per le questioni sportive. Di fatto, la proprietà del PSG ha concesso al resto della Ligue 1 un’elemosina da 100 milioni di euro. E a questo punto la situazione è grottesca, perché i parigini non si limitano ad ammazzare la competizione, ma ne tengono pure in piedi il simulacro foraggiando le altre 17 società del torneo. Che dunque possono anche detestare i parigini per il loro strapotere sportivo e economico, ma intanto devono baciarne umilmente la pantofola perché dal PSG ricevono il pane e pure le brioches.

Ogni lega è infelice a modo suo

Si dirà che il caso francese è troppo peculiare perché se ne possa ricavare indicazioni di carattere generale. Vero. Ma è altrettanto vero che anche dai casi peculiari è necessario trarre lezioni di portata generale. In tal senso, le indicazioni che provengono da questa vicenda vanno lette con proiezione su un piano più complessivo perché il caso francese potrebbe essere l’avanguardia dell’esaurimento di un modello di sviluppo industriale del calcio. Si tratta del modello che ha puntato forte sulla massimizzazione della risorsa televisiva. Ciò che è all’origine di tutti gli squilibri e le iniquità che, dall’inizio degli anni Novanta, hanno preso ad attraversare il calcio a tutti i suoi livelli, da quelli nazionali a quello globale. La dinamica è nota ma è bene riepilogarla, specie adesso che si ha possibilità di collocarla in una prospettiva di medio periodo e darle un minimo di storicità.

Con l’avvento dei canali digitali a pagamento si apre la possibilità di trasmettere in diretta e in esclusiva tutte le partite di calcio di una giornata di campionato. Ciò determina che il vero botteghino sia quello virtuale e che la principale fonte d’incasso per le società calcistiche giunga proprio da quel botteghino. Che di suo ha enormi possibilità di espansione. Le tv anticipano alle società calcistiche i proventi di quel botteghino e poi si incaricano di rivendere quel prodotto di cui sono non soltanto distributrici, ma anche e soprattutto produttrici. Ma da qui inizia la sperequazione, la dinamica che rende i grandi e grossi sempre più grandi e grossi, e i piccoli e fragili sempre più piccoli e fragili.

Questa dinamica si manifesta su piani diversi e con modalità intersezionale. A farne le spese per primi sono i campionati nazionali dalla seconda divisione in giù, soffocati dalla televisizzazione del rispettivo campionato di prima divisione (che drena pubblico sugli spalti) e dalla spalmatura del suo calendario. Ma la direzione di questo processo si espande oltre i confini nazionali, seguendo la medesima logica darwiniana. La principale coppa europea per club mette in ombra quelle di grado inferiore, e i suoi ranghi vengono riempiti da club dei campionati di più elevato ranking (che sono anche i campionati più ricchi, mentre i club dei campionati di ranking inferiore si ritrovano cacciati ai margini, fino a vedere come un miraggio la partecipazione alle fasi che contano).

Ma poi anche all’interno dei tornei del massimo livello, sia sul piano nazionale che su quello internazionale, ci sono club che diventano troppo più forti degli altri, e che oltre ad ammazzare la concorrenza nei loro tornei prendono a sognare tornei ulteriormente elitari come le superleghe. E per queste superleghe del calcio la principale risorsa è ancora una volta quella: i diritti televisivi. E così il cerchio si chiude, per circoscrivere una politica della dipendenza dalla risorsa televisiva che si è trasformata in un nodo scorsoio ormai soffocante. Con in più la peculiarità che, nonostante la piena consapevolezza di tale dipendenza, nulla si fa per porvi rimedio e anzi si cerca di rafforzarla. Nel senso che si alimenta l’illusione di un’infinita munificenza da parte degli imprenditori televisivi, di una loro disponibilità a iniettare illimitate risorse nel calcio. E confidando in ciò si spende già quello che si prevede di incassare senza che ve ne sia garanzia alcuna.

Rispetto a questo andazzo il caso francese ha lanciato un avviso forte: la tv è stanca. E questa stanchezza manifesta una misura diversa in ciascuna lega nazionale. In Francia la manifestazione è avvenuta in modo perentorio. Altrove, come in Italia, avviene in modi diversi: c’è la fatica nel conservare il parco abbonati, il rialzo continuo dei prezzi di abbonamento, la corsa allo sfruttamento intensivo del prodotto attraverso la proposta di una programmazione molto discutibile per contenuti e qualità, e infine la certezza che per il business i margini di crescita si siano esauriti. Anche qui una paura che incombe, ma con una modalità diversa rispetto a quanto succede in Francia. Per dire che in ogni Paese il calcio è infelice a modo suo.

Se ripensare significa ridimensionare

Si dirà che la conclamata crisi francese e la prossima crisi italiana siano comunque due casi nazionali, da prendere come tali senza avere la tentazione di ricavarne indicazioni generali. Una considerazione di comodo, forse l’ultima risorsa per chi prova a esorcizzare la crisi. Perché invece le due vicende convergono verso un indizio univoco. E quell’indizio dice che la tv comincia a ridimensionare l’investimento. Sta esaurendo i propri margini di crescita, come avviene nella storia naturale di ogni cosa. E nella storia naturale di ogni cosa non esistono cose che crescono in modo illimitato. Invece il mondo del calcio, a ogni latitudine, ha creduto proprio questo: che i denari delle tv fossero disponibili senza limiti. Ma c’era anche un altro peccato originale a sorreggere questa credenza d’inesauribile crescita: il fatto di sottrarla ad altri, di campare non soltanto al di sopra delle proprie possibilità, ma anche sulle spalle di altri che invece erano costretti a subire una dinamica dell’immiserimento. E quando si sta dalla parte giusta della catena dell’immiserimento (cioè, la parte di chi ne giova incrementando la propria ricchezza a scapito di chi impoverisce), ci si ritrova come in uno stato di alienazione positiva. Che è uno stato complicato da spiegare, e che per di più contiene in sé il destino di una successiva espulsione dall’enclave del privilegio verso il vasto territorio degli have nots. Perché anche dentro l’enclave qualcuno lavorerà ancora per essere più ricco fra i ricchi e più privilegiato fra i privilegiati. E quell’accrescimento di status non avverrà per acquisizione di risorse nuove, ma per ulteriore erosione delle risorse presenti.

Questo è stato il meccanismo innescato dall’avere assunto la risorsa televisiva come leva principale per la produzione di una ricchezza drogata. L’arricchimento smisurato di alcuni crea continue fratture alimentate dalla brama di ulteriore arricchimento. E poiché le risorse si concentrano ormai dentro l’enclave, sarà una corsa a razziarsele fra coloro che la popolano. Le conseguenze di questo meccanismo che finisce per divorare se stesso sono evidenti. In Europa i campionati nazionali sono stati suddivisi in fasce la cui gerarchia è dettata dalla forza economico-finanziaria, con ripercussioni sull’accesso alle coppe europee (a loro volta suddivise per fasce gerarchicamente squilibrate). Ma all’interno delle stesse competizioni privilegiate (campionati nazionali e coppa europea di fascia superiore) si scatena un’ulteriore corsa alla predazione delle risorse altrui, da parte dei soggetti che ritengono di essere l’élite dell’élite e per questo chiedono privilegio fra i privilegiati.

La conseguenza di tutto ciò ha una logica brutale. Dentro ogni lega nazionale i club di fascia superiore manifestano una voglia di Superlega molto più vasta di quanto le versioni ufficiali lascino credere. E ciò si ripercuote sul fascino di molte leghe, che del resto mostrano squilibri competitivi palesi. Della Ligue 1 si è detto. Ma le cose non vanno in modo granché diverso nelle altre leghe di prima fascia. In Italia si è assistito a una dittatura juventina durata 9 anni, cui sta facendo seguito un lento riequilibrio. In Bundesliga il Bayer Leverskusen ha interrotto una striscia di 11 campionati vinti dal Bayern Monaco (che a sua volta, dalla stagione 1998-99 alla 2022-23, ne ha vinti 19 su 25). In Spagna succede di tanto in tanto che l’Atlético Madrid rompa la diarchia Barcellona-Real Madrid. E anche nella fascinosa Premier League il Manchester City ha portato a casa 6 delle ultime 7 edizioni. Il pubblico televisivo si stanca, fa selezione fra le stesse leghe del massimo livello e ne privilegia alcune. Le tv e gli sponsor colgono i segnali e agiscono di conseguenza, spostando le risorse da una lega a un’altra. E così, d’incanto, alcuni ricchi si ritrovano a rischio impoverimento senza essere pronti a vivere questa condizione. La Ligue 1 è il primo vagone a essere stato sganciato. La Serie A sarà il prossimo. E chi rimarrà nella corsa dovrà guardare a una prospettiva di sopravvivenza anziché di espansione.

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04/08/2024

Anni Ottanta: la chimera e la memoria ai tempi della devastazione

Partendo da una rilettura del film La chimera di Alice Rohrwacher (2023), Paolo Lago e Gioacchino Toni riflettono sulle trasformazioni avvenute a partire dagli anni Ottanta, periodo in cui, per citare Paolo Virno, è iniziata la «controrivoluzione capitalistica» che cambia la vita comunitaria del paese e inaugura la spettacolarizzazione e l’economizzazione degli individui e degli spazi che li accolgono.

Per approfondire il tema, ricordiamo il libro Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, prima pubblicazione della cartografia dei decenni smarriti, ovvero la rilettura degli anni che vanno dagli Ottanta del Novecento ai Dieci del Duemila, che la redazione di Machina sta portando avanti.

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Con il film La chimera (2023) si conclude la trilogia, di cui fanno parte anche Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018), dedicata dalla regista Alice Rohrwacher al rapporto tra presente e passato. L’episodio conclusivo è ambientato in un importante momento di transizione per l’Italia: l’inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui – insieme a un’atmosfera che, soprattutto nelle aree di provincia, ancora risente degli anni Settanta – cominciano ad emergere in maniera evidente le tracce di una devastazione che, gradatamente, si sta estendendo sul Paese e sui suoi abitanti; una «mala-modernizzazione» che ha ridisegnato i territori cancellandone memorie, storie e legami, soffocando ogni altra opzione non allineata.

Sebbene il cambiamento in corso in apertura degli anni Ottanta sia stato un fenomeno internazionale – basti pensare ai risvolti sociali e di immaginario derivati dalla svolta impressa dal thatcherismo britannico e dal reaganismo statunitense –, per quanto riguarda l’Italia, il momento di passaggio fra il «prima» ed il «dopo» può essere indicato in tre eventi che segnano l’apertura del decennio: la marcia antisindacale dei quarantamila a Torino, il tragico terremoto irpino e l’avvento della neotelevisione.

Nell’episodio torinese è possibile scorgere non solo la fine di una stagione di protagonismo delle classi subalterne ma anche lo sgretolamento di un’identità di cui queste erano andate orgogliose, come tratteggiato dalla «trilogia working class» di Alberto Prunetti[1].

L’evento tellurico che ha colpito l’Irpinia nel 1980, invece, si è rivelato non solo un disastro naturale ma un vero e proprio terremoto sociale che ha dilaniato le comunità locali riducendo il dibattito politico e culturale attorno al Meridione italiano a una narrazione costruita ad arte sulle ruberie e sugli sprechi della «ricostruzione». Il romanzo d’esordio di Giovanni Iozzoli – che alla questione della crisi, nelle sue tante  declinazioni, e dello sradicamento che coglie i soggetti del nuovo fenomeno di migrazione interna al Paese degli anni Ottanta, ha dedicato diverse opere –, I Terremotati (2009), ha provveduto a raccontare questi eventi, coniugando sapientemente le piccole storie di altrettanto piccoli personaggi di paese con le grandi trasformazioni che hanno riscritto la vita sociale del Meridione nel ventennio Ottanta-Novanta, di cui il sisma ha fatto da amplificatore, con le sue storie fallimentari e di ennesima emigrazione forzata verso un Settentrione destinato ad essere  raggiunto a sua volta dalla crisi economica e sociale. 

L’avvento di quella che Umberto Eco ha definito «neotelevisione»[2], che si è imposta in Italia con l’arrivo delle emittenti private nei primi anni Ottanta, ha visto il progressivo abbandono, anche da parte delle reti pubbliche, della storica funzione pedagogica in favore di programmazioni facili e disimpegnate, segnate da risate e applausi a comando, interessate esclusivamente ad attrarre audience per vendere spazi pubblicitari. Si pongono qui le basi per quel processo di spettacolarizzazione e mercificazione dell’immaginario che, nel giro di qualche decennio, dal tubo catodico si espanderà all’universo digitale della rete dando luogo ai fenomeni di vetrinizzazione e datificazione che contraddistinguono la contemporaneità.

Tre eventi che, per quanto diversi, hanno dilaniato, ciascuno a modo suo, la vita comunitaria nel Paese inaugurando l’era della spettacolarizzazione e dell’economizzazione delle esistenze degli individui e degli spazi che li accolgono, dell’egoismo, dell’edonismo e del qualunquismo, della riscrittura dei sogni e dei desideri degli italiani e delle italiane in buona parte ad opera delle televisioni private. Con l’avvio di quel decennio si aprono gli anni dell’«Italia da bere», dei politici rampanti sempre più scollati dal tessuto sociale, della desolidarizzazione, del farsi strada di un nuovo tipo di malavita e di infinite colate di calcestruzzo utili a cementare nuovi rapporti di forza.

In questo momento di passaggio fra il «prima» e il «dopo», a mutare è anche il rapporto con la memoria, e di ciò riesce a dare mirabilmente conto il film La chimera. Una sequenza in particolare rappresenta in maniera evidente come si sia fatto oppositivo il rapporto tra passato e presente, tra un passato che vive in profondità, sotto terra, e un presente mortifero di superficie, alla luce del sole: in una costa della Tuscia ormai devastata da discariche e mostruosi impianti industriali, manifestazioni evidenti di quella «mala-modernizzazione» di cui si diceva, il protagonista Arthur (Josh O’Connor), insieme alla banda di tombaroli sottoproletari a cui si aggrega, scopre delle antiche tombe etrusche ancora intatte, con splendidi affreschi che si dileguano, come in Roma (1972) di Federico Fellini, al contatto con l’aria esterna, quasi ad evidenziare un presente incline a cancellare il passato. Se il passato appartiene alla sfera del sacro, il presente è lo spazio della devastazione paesaggistica e culturale: non si esita, infatti, a violare le antiche vestigia in nome del tornaconto economico. I contemporanei (l’Italia figlia della modernizzazione introdotta dal boom economico) hanno devastato con discariche ed imponenti impianti industriali un tratto di spiaggia considerato sacro dagli antichi, un luogo scelto per la sepoltura.

Arthur, come il poeta Andrej Gorčakov (Oleg Jankovskij) in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, giunge, angosciato da feroci nostalgie e malinconie, in un paesino italiano, intento a ricercare – sembra – unicamente la bellezza estetica del passato (tanto da cogliere prontamente nel profilo di alcune ragazze che incontra in treno un rimando agli antichi affreschi etruschi) fino a configurarsi quasi come un antico cavaliere, protagonista di altrettanto antiche canzoni popolari (di cui, in scorci di metacinema, un menestrello canta in ottava rima le gesta) oppure di una fiaba anacronisticamente ambientata nella contemporaneità. Lo straniero Arthur, apostrofato sbrigativamente dalla popolazione indigena come «inglese», dopo essere uscito di prigione ritorna nella piccola comunità di un paese italiano dove era stato tempo prima ed è considerato come uno «straniero» (nei secoli passati, in Toscana, a lungo si è fatto ricorso all’appellativo «inglese» come sinonimo di «straniero»); la sua diversità emerge anche in un particolare potere che lo caratterizza come personaggio per certi aspetti fantastico: quello, cioè, di riuscire a scoprire i luoghi dove si trovano le tombe antiche grazie ad un suo particolare rituale di rabdomanzia che lo fa sprofondare in un malessere fisico. Come il poeta russo del film di Tarkovskij, Arthur, perduto nella contemplazione del fumo languido di una sigaretta perennemente accesa, è quasi esiliato da sé stesso, preda di una lancinante nostalgia per un passato fatto di bellezza probabilmente pienamente vissuta. Ritornando nei luoghi italiani che conosceva, Arthur appare bloccato nella sua ricerca della bellezza, perché sembra non riuscire a riconoscere quegli spazi ormai definitivamente imbruttiti e deturpati. Sembra inoltre restio a partecipare allo spoglio delle tombe, rifiutando l’approccio economicistico che vige nella piccola comunità di tombaroli e, sulla lussuosa imbarcazione di Spartaco, getterà in mare la preziosa testa di una statua antica per non farla cadere nelle mani dei rampanti speculatori anni Ottanta. Ugualmente, Gorčakov, guidato da Eugenia (Domiziana Giordano), si rifiutava di entrare a vedere la quattrocentesca Madonna del Parto di Piero della Francesca, lasciando entrare solamente la donna nella chiesa dove era custodito il dipinto. L’affascinante affresco rinascimentale e la bellissima testa antica non possono essere guardati, non possono divenire oggetto di spettacolarizzazione ma devono essere oggetti di uno sguardo rispettoso e rituale, sottratti quindi all’occhio devastatore di affaristi e arricchiti. Arthur percorre, come il personaggio del film di Tarkovskij, antichi paesi italiani e antichi paesaggi, intrisi di passato e di bellezza ma anche inesorabilmente deturpati: e di fronte al dolore che lo avvolge non può opporre che un silenzio contornato da un gesto quasi rituale, l’accensione di un povero mozzicone di candela. Se Gorčakov accende e riaccende, compiendo un vero e proprio rito, la candela durante l’attraversamento della piscina termale di Bagno Vignoni svuotata dall’acqua, Arthur la accenderà in una delle ultime sequenze del film, compiendo un gesto molto simile a quello eseguito dal poeta russo, prima di entrare nella cavità sotterranea, uno spazio totalmente altro e sconosciuto, dove troverà forse le radici della sua nostalgia e del suo dolore, un filo rosso che lo lega alla perduta Beniamina (Yile Yara Vianello).

Arthur, l’inglese, lo straniero non a caso abita sulle mura medievali della città, in uno spazio liminale, né dentro né fuori, palesando anche così la sua alterità, il suo non appartenere fino in fondo né al luogo né alla comunità locale, i cui momenti di festa e di sincera convivialità esercitano su di lui notevole fascino. Come Gorčakov e un altro personaggio di Nostalghia, il «folle» Domenico (Erland Josephson) che vive in una casa senza porte a Bagno Vignoni, in Toscana, anche Arthur è un personaggio liminale, né dentro né fuori la realtà: è perduto nella contemplazione di una bellezza quasi irraggiungibile, incarnata adesso dalla sua fidanzata Beniamina, ormai inesorabilmente perduta, la quale appare in immagini velate di sogno e di immaginazione, simulacro incorporeo che finisce per assomigliare al personaggio di Hari (Natal'ja Bondarčuk) in un altro film di Tarkovskij, Solaris (1972), che tormenta il protagonista Kris Kelvin (Donatas Banionis) sulla stazione orbitante Solaris. «Quello che lui cerca non sono il guadagno, i soldi, l’avventura, ma qualche altra cosa che è difficile da condividere» – afferma Rohrwacher – «Come Orfeo che cerca Euridice, così Arthur sente che scavando può trovare qualcosa che ha perduto, fosse la famosa e tanto cantata “porta dell’aldilà”. E aldilà c’è Beniamina, la donna che ha perso molti anni prima, la sua radice»[3]. L’impossibilità di fare i conti con la perdita della ragazza, ormai ridotta a fantasma amoroso, a filo rosso che lo accompagna costantemente, preclude ad Arthur il possibile amore di Italia (Carol Duarte), una donna che, a dispetto del nome, sembra a sua volta essere stata catapultata in quelle terre dall’altro capo del mondo. Alla perdita di Beniamina non si rassegna nemmeno Flora (Isabella Rossellini), sua madre, che da anni attende invano il ritorno della figlia, così come si ostina a non prendere atto di come la sua signorile abitazione sia ormai fatiscente, a testimonianza di un mondo che, insieme all’amore per la bellezza, sta inesorabilmente scomparendo sotto la spinta della modernità, tanto che le figlie, del tutto insensibili al fascino del luogo segnato dal passare del tempo, vorrebbero al più presto disfarsene. Non a caso prelevano dall’abitazione, un pezzo alla volta, oggetti di cui non colgono il valore memoriale che invece è ancora vivo nella madre. Ben diverso è invece il rapporto con il passato di Italia ed altre donne che decidono di occupare una vecchia stazione abbandonata che, come suggerisce Flora, è al contempo «di tutti e di nessuno», come, del resto dovrebbe essere il passato da cui tanti ormai si vogliono semplicemente sbarazzare, cancellandolo o mercificandolo. Quella che decide di dare nuova vita alla vecchia stazione è una comunità composta da sole donne e bambini, disposta a fare un’eccezione offrendo ospitalità ad Arthur, forse in virtù dell’alterità che in qualche modo rappresenta nel suo essere straniero, personaggio, come detto, liminale che all’incessante erranza orizzontale sulla superficie della terra, dettata da uno schizofrenico impulso a cercare, accompagna movimenti verticali che lo conducono nelle viscere della terra, in luoghi colti nel loro vero valore soltanto da chi sa vedere e rapportarsi con l’aldilà del contingente.

Le stesse ambientazioni e gli stessi luoghi, indefiniti e tratteggiati in modo fantastico, sembrano del resto rimandare ad una fiaba cinematografica: il rituale paesano dei «befani», certi momenti di festa comunitaria ancora non imbruttita dallo stucchevole quanto falso spettacolo per turisti, spazi marginali e baraccopoli tratteggiate come regge, ville semiabbandonate e stupende intrise di oggetti desueti e lontani, comunità femminili che vivono come in un incanto, fuori dalla brutale società patriarcale italiana. È uno spazio indefinito e fiabesco ma pur sempre intriso fin nel profondo della realtà di quegli anni: Arthur percorre strade deserte e periferiche sulle quali si stagliano i cartelloni pubblicitari dell’industria (la stessa delle raffinerie e delle discariche) che sembra monopolizzare la zona anche sponsorizzando sagre popolari e concerti mentre, alla fine del film, le baraccopoli vengono demolite sotto il controllo dei vigili urbani. Le casette di lamiera vengono abbattute perché sta iniziando il tempo della «normalizzazione» degli spazi, che, «andando al massimo», come suggeriscono le note della celebre canzone di Vasco Rossi, uscita proprio in quel periodo, proseguirà per tutti gli anni Ottanta e Novanta per portare, nel nuovo millennio, a quella nuova forma di controllo urbano chiamata grottescamente «smart city»; le «terre di nessuno» e gli spazi liminali spariscono per fare posto a veri e propri «non luoghi» sottoposti al controllo tecnologico.

Sembra che stia iniziando anche il processo di gentrificazione dei piccoli paesi italiani, che verranno trasformati in veri e propri musei a cielo aperto, imbottiti esclusivamente di bed and breakfast, ristoranti e negozi di souvenir. Non c’è più posto, perciò, per uno «straniero» come Arthur, che vive in una dimensione liminale e non definita. Spariscono vecchi parcheggi abbandonati e sterrati, luoghi coperti di vegetazione negli interstizi urbani, zone di passaggio che sembravano ancora appartenere ad un’Italia postbellica: è lo stesso processo di distruzione e cementificazione cantato da Pier Paolo Pasolini già negli anni Cinquanta nella sua poesia Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (1957).

Alla fine degli anni Cinquanta le borgate e i borghetti romani sono stati abbattuti per costruire i palazzoni di periferia; per tutti gli anni Ottanta viene abbattuto tutto ciò che restava di un passato sentito come ingombrante dalle nuove classi dirigenti, tutto quello che apparteneva ancora ad un paese povero come l’Italia postbellica. Perciò, gli spazi dove abitavano e si fermavano tutti i marginali, i nomadi, i freaks lontani da un canone di riconoscibilità sociale all’interno del tessuto urbano, devono essere cancellati, preda di una crudele damnatio memoriae. 

Non esistono nemmeno più gli spazi periferici dove sostavano periodicamente i circhi e i luna park, aree sterrate che si trasformavano per un breve periodo di tempo in spazi magici e incantati; adesso vengono cementificati o «normalizzati» in luoghi dell’unico divertimento consentito nella attuale società del lavoro imposta dal capitalismo digitale: enormi centri commerciali dotati di spazi di intrattenimento e di squallidi bar che affacciano su ordinati parcheggi e su prefabbricati, il tutto sottomesso all’occhio vigile delle telecamere.

E oggi non potrebbero nemmeno esistere la villa decadente o la stazione abbandonata che vediamo nel film: sarebbero stati trasformati in luoghi ripuliti e ordinati, asettici e controllati da sguardi digitali. Federico Fellini, in Ginger e Fred (1986), aveva raccontato «in diretta» la trasformazione dello spazio e della società italiana negli anni Ottanta: la pubblicità e lo spettacolo si insinuavano persino negli ultimi lembi di periferia fatiscenti e desertici che sopravvivevano. Se nel film di Fellini, tutto è sponsorizzato dall’industriale Fulvio Lombardoni (evidente allusione a Berlusconi)[4], a capo di un’azienda di salumi, in La chimera è – come già accennato – la fabbrica a sponsorizzare perfino il tempo del divertimento, della festa popolare che si svolge non solo sotto le mostruose strutture di ferro e cemento che deturpano un bellissimo lembo di costa italiana, patrimonio archeologico e culturale, ma anche sotto il suo sponsor economico.

Il capitale, finita la grande abbuffata degli anni Sessanta del boom economico, mostra il suo turpe volto, quello più vero, fatto di industrie che devastano e inquinano gli spazi naturali. La devastazione del paese si sta allargando a macchia d’olio, una devastazione che non conosce alcun rispetto per la natura, il paesaggio, i beni culturali, il proprio passato; tutto ciò è visto esclusivamente come intralcio alla modernità che avanza di cui occorre disfarsi al più presto. L’immagine di un cartello indicante la presenza di un sito archeologico arrugginito e caduto al suolo tra sterpaglie e rifiuti racconta meglio di ogni altra cosa lo stato di abbandono a cui sono condannate le testimonianze dell’antico passato; un’incuria e un’indifferenza che, a ben guardare, non sono poi così dissimili dalle gesta dei tombaroli sottoproletari che non esitano a staccare a martellate la testa di una statua al solo fine di poterla trasportare meglio e venderla a colti e facoltosi collezionisti attraverso la mediazione di un ricettatore privo di scrupoli, il misterioso Spartaco che, sorprendentemente, si manifesterà ai loro occhi come un’elegante e raffinata donna tedesca (Alba Rohrwacher) soltanto sul finale del film, a bordo di una lussuosa imbarcazione da cui tratta la vendita del bottino dei saccheggi commissionati.

Che si tratti di irrispettosa profanazione delle antiche vestigia legate al sacro da parte della «mala-modernizzazione» del «nuovo che avanza», sotto forma di impianti industriali e discariche a cielo aperto, o da parte di tombaroli privi di scrupoli, interessati esclusivamente a ricavare qualche soldo, o, ancora, a soddisfare il vezzo di possedere reperti antichi riducendoli a decontestualizzati soprammobili per facoltosi altolocati, tutto e tutti, in questi primi anni Ottanta, concorrono all’azzeramento del passato.

Come sottolinea la regista, «coloro che decidono di diventare “tombaroli”, di varcare quel tacito confine tra il sacro e il violabile, lo fanno per dare una svolta al passato, per divenire nuovi, altro. Sono indiscussamente uomini, forzuti, giovani, maledetti. Loro non appartengono al passato, non sono figli dei loro padri che sono cresciuti vicino a quelle tombe antiche senza mai violarle. Loro sono figli di sé stessi. Il mondo gli appartiene: possono entrare in luoghi considerati tabù, possono spezzare i vasi, arraffare offerte votive, commercializzarli. Per loro sono solo anticaglie, cose vecchie. Non sono più cose sacre. L’ingenuità di chi ha seppellito quelle cose li fa ridere»[5]. Nonostante vadano fieri delle loro devastatrici avventure notturne nel sottosuolo, vissute come azzardo che potrebbe, da un momento all’altro, portare un’inaspettata ricchezza, questi tombaroli non sono che pedine e vittime al tempo stesso di una macchina molto più grande di loro, quella di un mercato dell’arte – che nel film assume le sembianze della lussuosa imbarcazione in cui opera Spartaco – che non esita a sfruttare manodopera a bassissimo costo e ricavare denaro cancellando storia e cultura.

Eppure, ed è questa una delle grandezze del film, non tutto appare perduto in questa distruzione perché sembrano ancora esistere sentimenti autentici, rapporti interpersonali ancora basati sulla fiducia reciproca. Molto intensi sono i momenti, già ricordati, in cui un poeta menestrello (Valentino Santagati), accompagnandosi con la chitarra, canta in ottava rima le avventure di Arthur, rivisitate e proiettate in una dimensione mitica e fiabesca. In questi attimi, la combriccola di amici pare unita da sentimenti autentici e genuini, ancora lontani dall’abbrutimento offerto dagli spettacoli televisivi e dal rampantismo della «Milano da bere».

Miscelando al 35 mm, utile alla regista per riprendere le grandi pagine illustrate dei libri di fiabe, sequenze girate in super16 mm ed in 16 mm, equivalenti rispettivamente ad una sorta di scrittura magica ed a piccole annotazioni, a rallentamenti, accelerazioni, dialoghi e canti, superficie alla luce del sole e buie viscere della terra, vitale mondo dei morti e mortifero mondo dei vivi, sorrisi e tragedie, la regista tesse una tela di suoni e immagini al fine di «rintracciare nella storia di un uomo la storia degli uomini» consentendo di chiedersi attorno ad un film «che cosa disgraziata e buffa, che cosa commovente e violenta sia l’umanità»[6] e di quali brutture e sopraffazioni sia capace quando si affida al cinismo economicista.

Rohrwacher ci proietta in una fiaba capace di mostrare anche il volo degli uccelli come un evento magico e misterioso scrutato con gli occhi antichi degli aruspici richiamante diverse sequenze di Uccellacci e uccellini (1963) di Pier Paolo Pasolini. Al di fuori della fiaba c’è però la realtà e, in quei primi anni Ottanta, la devastazione e la distruzione del Paese non hanno davvero conosciuto nessun momento magico o incantato.

Note

[1]    La cosiddetta «trilogia working class» di Alberto Prunetti è composta dai romanzi: Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, Milano 2012 – Alegre, Roma 2014; 108 metri. The Working Class Hero, Laterza, Roma 2018; Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia, Laterza, Roma 2020.

[2]    Cfr. Umberto Eco, Tv: la trasparenza perduta, in «L’Espresso», 1983, ora in: Umberto Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, pp. 163-179.

[4]     Cfr. Alessia Ricciardi, After “La Dolce Vita”. A Cultural Prehistory of Berlusconi’s Italy, Stanford University Press, Stanford 2012, p. 61.

[5]    Pressbook del film La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, cit.

[6]    Ibid.

Fonte

22/06/2024

Estetiche inquiete. Rifugiarsi negli ultracorpi

di Gioacchino Toni

Francesca Marzia Esposito, Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione, minimum fax, Roma 2024, pp. 387, cartaceo € 19,00 – ebook € 11,99

A partire dall’esperienza autobiografica che l’ha vista, sin da ragazzina, alle prese con la danza, con un fratello appassionato di body building, in Ultracorpi Francesca Marzia Esposito indaga l’immaginario legato al corpo e alle sue trasformazioni prendendo in esame le due direzioni estreme della materialità ultradilata e della tendenziale smaterializzazione. Votati alla ricerca di una forma tanto più astratta e irreale, quanto più definita e anatomicamente controllata, i corpi plasmati dalle discipline del body building, della danza e della ginnastica sembrano dare rappresentazione estetica a forme di disagio opposte e complementari.

L’atto di pompare il corpo fino a iperdilatarlo o di castigarlo smagrendolo fino a renderlo trasparente, secondo l’autrice del volume tradisce l’illusione di «sentirsi al sicuro dagli attacchi esterni»; il corpo confinato funge da isola protetta in cui trovare rifugio. «Due corpi corazzati in modi diversi che proteggono la stessa debolezza. Iperprotetti da noi stessi, ci illudiamo di trovare un po’ di pace. Un po’ di quiete».

Si tende a guardare chi pratica il body building come a un individuo vanitoso e superficiale ma, sottolinea Esposito, è interessante notare come nei suoi confronti i giudizi negativi vengano espressi senza remore ricorrendo a un linguaggio ruvido e diretto. È come se il politicamente corretto fosse riservato soltanto ai soggetti ritenuti deboli e, a quanto pare, chi ha pompato il proprio corpo fino all’inverosimile «non ha nessun motivo di soffrire, quindi non ha senso proteggerlo. Nel suo caso si può dire esattamente quello che si pensa, usando parole cariche di connotazioni negative, sfogando così quella voglia repressa di giudizio che il bon ton linguistico ci ha compresso nella mente».

Nella società contemporanea, si chiede l’autrice di Ultracorpi, quando si assiste a una performance di ginnaste cosa di vuole realmente vedere? «Ci basta la famosa leggiadria romantica tradizionale? O esiste un bisogno estetico contemporaneo, che spinge alla ricerca del weird, del mondo al limite, del superamento del quotidiano?». È forse da tale ricerca del limite estremo, della extra-ordinarietà che deriva il bisogno di distruggere il corpo ordinario per modellarne uno perfezionato.

Questo discorso riguarda tutto il contesto sociale nel quale siamo immersi, scandito da una persistente tendenza al corpo inarrivabile, che al suo interno contiene non solo le vittime e i carnefici – intenti ognuno a perpetrare il proprio ruolo – ma anche quella indignazione che ogni tanto viene alla ribalta sul caso del momento. Non è uno scandalo. Sono cose risapute. È solo che ciclicamente finiscono nel tritarifiuti della comunicazione. […] Lo scandalo tirato fuori ogni tanto fa gioco al sistema perché permette di accogliere la crepa della disapprovazione, crepa che, anziché spaccare il meccanismo, mira a dargli aria. E in questa esternazione liberatoria da una condizione costrittiva, il pubblico si identifica, diventa protagonista passivo in forma di massa-quantità vessata. Il singolo caso diventa capro espiatorio e ognuno rivive nel suo anonimato la sofferenza di una condizione che gli appartiene ma che fino a quel momento era inenunciabile perché considerata normale. Lo scandalo crea un senso di rivalsa teoricamente possibile. Quello che fino a poco prima esisteva come vergogna privata, personale, viene finalmente rivendicato da una sofferenza analoga arrivata alla ribalta. Brevi catarsi momentanee del vivere. Piccoli movimenti simbolici senza reale estensione, o perlomeno, non strutturali. Non sto dicendo che non serva a nulla parlarne, anzi. Ma i mutamenti di un canone egemonico hanno tempi lunghi e devono grattugiare un bel po’ di storie individuali prima di permettere un reale salto quantico. Per agire su un immaginario dominante occorre rinunciare a tale canone, e rinunciare a una certa astrazione fisica è difficile soprattutto se quest’ultima è stata assorbita da un settore che usa il corpo come strumento per scrivere e disegnare nell’aria. La danza, ma anche la ginnastica ritmica, sono delle astrazioni e, in quanto tali, usano il corpo alla stregua di un prototipo in 3d. Un manichino leggero, ipersnodato, in grado di potersi piegare e muovere in forme assolutamente eccezionali, nella più assoluta e conclamata innaturalità. [...]
È la società di riferimento che detta legge sul valore e la delimitazione di un concetto. La nostra, al momento, è tarata su una leggerezza horror. Una leggerezza che si innesca su un doppio cappio, tra estremismo e disciplina, tra l’inquietante e l’apparentemente spontaneo. È questo che attrae. Questo che genera ossessione. La presenza di uno spazio paradossale sul corpo weird in grado di spingerci al di là dell’ovvia vita organica (pp. 229-231).

Se nell’affrontare la trasformazione a cui sono sottoposti i corpi Esposito si sofferma su alcune personalità di rilievo del body building (Ronnie Coleman, Arnold Schwarzenegger e Iris Kyle) e della danza (Carla Fracci, Rudolf Nureyev e Roberto Bolle), non manca di dedicare alcune riflessioni a Barbie. Su quanto questa bambola abbia rappresentato un nuovo femminile, emancipato e moderno, in cui si può essere adulte senza per forza essere mogli, madri e confinate nella realtà domestica, è stato detto tanto, ma, sottolinea Esposito, non si può non notare come tale promessa di emancipazione non venga mantenuta a livello formale. «Quello che tematicamente il totem Barbie simboleggiava, la libertà per le donne di vivere come meglio loro aggradava, formalmente viene tradito da un corpicino da pin-up che, nella sua astrazione, rappresenta ancora una volta il desiderio di piacere al mondo maschile». Ecco allora che per mitigare questa spinta all’ideale inarrivabile sono state realizzate Barbie in svariate versioni, «altrettante declinazioni dello stereotipo in versione inclusiva». Il politicamente corretto incontra il marketing. «Puro mercato che cerca di accalappiarsi una fetta di pubblico in più sfruttando un tema sensibile».

Iperespansi o smaterializzati che siano, gli ultracorpi indagati da Esposito sono corpi urlanti alla ricerca di quiete e di ascolto.

Estetiche inquiete. Serie completa.

Fonte

17/03/2024

Libere di vendere il proprio corpo a pezzi

di Carlo Formenti

Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio 18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.

A snocciolare questi dati è la svedese Kajsa Ekis Ekman autrice di un libro (Essere ed essere comprate. Prostituzione, maternità surrogata e identità divisa) appena uscito per i tipi di Meltemi che, oltre a documentare la cruda realtà appena evidenziata, demolisce gli argomenti con i quali quella che potremmo definire la santa alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne (compresa parte del movimento femminista) si batte per legittimare la prostituzione e maternità surrogata nei Paesi dove già sono legalizzate e per promuoverne la legalizzazione dove sono proibite.

Prostitute? No, lavoratrici sessuali

La tesi di fondo di liberali di destra e sinistre postmoderne (socialisti, verdi e femministe) che si battono per la legalizzazione è che la prostituzione è un lavoro come tutti gli altri. La vendita di servizi sessuali (sic.) non viola alcun diritto; al contrario si tratta di un diritto in sé, cioè del “diritto” di vendere il proprio corpo. I veri problemi sono altri: lo status lavorativo, la sindacalizzazione, retribuzioni adeguate, autodeterminazione, sicurezza sanitaria, ecc. Secondo questa narrazione il mondo della prostituzione non mette di fronte donne e uomini bensì venditori e clienti, per cui i proprietari di bordelli (privati o pubblici laddove esiste regolazione statale) diventano imprenditori e fornitori di servizi.

Le sinistre postmoderne contribuiscono alla narrazione costruendo l'immagine della lavoratrice sessuale come persona forte e indipendente, che sa quello che fa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre i teorici queer la esaltano in quanto soggetto che trasgredisce le norme, abbatte i confini e mette in discussione i ruoli di genere. Fra questi agit prop della “puttana eroica” Ekman cita, fra gli altri, gli attivisti del COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics) un gruppo americano fondato da una fazione liberale del movimento hippie. Tutta questa gente svolge, consapevolmente o meno, il lavoro sporco per un ordine neoliberale ben felice di sgombrare il campo dall'idea della prostituta come vittima, perché ammettere l'esistenza di vittime implica riconoscere la necessità di una società giusta e di una rete di assistenza sociale, eliminare il concetto significa viceversa legittimare lo status quo, le divisioni di classe e la disuguaglianza di genere: se non ci sono vittime non ci possono essere carnefici.

Accademici, giornalisti e critici impegnati nel costruire questa immagine eufemistica e glorificata della lavoratrice sessuale, si danno da fare per "dare voce" alle interessate e si eleggono a rappresentanti dei loro interessi, bisogni e punti di vista, identificandosi con loro anche se, commenta sarcastica Ekman, nessuno di questi soggetti si è mai prostituito, così come certi eroi da salotto inneggiano alla guerra senza avere mai visto il fronte. Che dire dei sindacati? Posto che in generale l'argomento della sindacalizzazione cattura il favore degli ambienti sindacali tradizionali e di certa sinistra, i cosiddetti sindacati delle lavoratrici del sesso, come l'autrice ha potuto constatare intervistandone vari esponenti, sono specchietti per le allodole creati per intercettare finanziamenti: gli iscritti, se e quando esistono, sono pochissimi, spesso di tratta di uomini e trans, a volte addirittura di papponi e maîtresse.

In poche parole le narrazioni appena evocate svolgono il ruolo di infiocchettare il mondo della prostituzione con immagini mutuate dal mondo delle escort d’alto bordo dei Paesi occidentali, mentre calano un velo di ignoranza su una realtà fatta di violenza, sopraffazione, disperazione che coinvolge milioni di persone e attinge livelli inimmaginabili nel Terzo mondo e in alcuni Paesi ex socialisti.

Tratta di bambini? No immacolata concezione

La maternità surrogata è un'industria legale in crescita negli Usa, Ucraina, Inghilterra, India, Ungheria, Corea del Sud, Israele, Olanda, Sudafrica ma il primato spetta all'India. Sul mercato di questo grande paese le cose funzionano così: gli ovuli di donne bianche vengono inseminati con lo sperma di uomini bianchi e l’ovulo viene impiantato nel ventre di donne indiane; i bambini non mostreranno traccia della donna che li ha partoriti, non porteranno il suo nome né la conosceranno; dopo il parto le donne firmano un contratto di rinuncia al bimbo e ricevono fra i 2500 e i 6500 dollari; i clienti sono tipicamente americani, europei, australiani, giapponesi o indiani benestanti, coppie etero, gay, lesbiche e uomini single. Cosa impedisce di considerare tutto ciò come una forma estesa di prostituzione, con l'unica differenza che viene venduto l’utero invece della vagina? Per eludere questa domanda, vengono mobilitate due narrazioni complementari: da destra si esalta il sacrificio della madre surrogata che si spende per fare la felicità di una unione sterile; da sinistra si celebra la pratica “trasgressiva” che rovescia lo stereotipo della famiglia tradizionale.

Dopo avere premesso che la gravidanza in questione non è una "vera" maternità, bensì un servizio e che, stipulando un contratto, la madre surrogata conferma il proprio status di persona dotata di libero arbitrio individuale (persona è chi possiede il proprio corpo!), gli apologeti liberali indorano la pillola presentando la madre surrogata come un’anima gentile, una fata madrina che aiuta i clienti a ottenere ciò che vogliono. I più arditi si spingono a scomodare la tradizione ebraico cristiana per "angelicare" il mercimonio citando la serva Agar che portò in grembo il figlio di Sara e Abramo o il sacrificio della vergine Maria che portò in grembo il figlio del Signore. Ma appena le argomentazioni si fanno più prosaiche vengono alla luce le contraddizioni. La maternità surrogata è un servizio come un altro? Ma qual è il prodotto? Un bambino, che diviene così paragonabile a un’auto o a un cellulare. Una coppia stabile alto borghese, si dice, non darà forse al bambino la migliore educazione possibile e una vita migliore di quella che potrebbe offrirgli una miserabile madre biologica? Con il calcolo economico si riaffaccia insomma lo spettro della tratta di minori.

Ma c'è sempre la possibilità di mobilitare gli argomenti di sinistra. Per i teorici queer e gli attivisti LGBTQ la maternità surrogata, come la prostituzione, è una pratica trasgressiva che sfida modelli conservatori e obsoleti; è la storia femminista di donne che si ribellano alla maternità tradizionale riscattando altre donne dall’inferno associato dall'impossibilità di avere figli. C'è persino chi (tale Kutte Jonsson citata dalla Ekman) paragona la lotta per la legalizzazione della maternità surrogata a quelle degli anni '70 per il salario al lavoro domestico, sostenendo che le donne non devono essere private dell’opportunità di usare il proprio corpo in cambio di un pagamento, per cui la maternità surrogata sarebbe, al tempo stesso, un diritto e una richiesta di emancipazione.

In poche parole: l'alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne funziona benissimo anche in questo caso ma, prima di entrare nel merito delle riflessioni teoriche con cui Ekman sostanzia il suo atto d’accusa, vale la pena di dimostrare quali mostri riesca a partorire questa unità di amorosi intenti fra destre e sinistre. Ecco perché, nel prossimo paragrafo, ho raccolto un elenco delle citazioni dalle argomentazioni degli apologeti di prostituzione e maternità surrogata che più mi hanno colpito leggendo il libro della Ekman.

Fior da fiore liberal femminista

"Queste donne (le prostitute) prendono il comando sugli uomini e agiscono secondo strategie di potere" (Petra Ostergren).

"Ogni tipologia non convenzionale di sesso è rivoluzionaria" (Gayle Rubin, antropologa americana).

La sociologa Lara Augustin definisce le vittime della tratta di esseri umani "Lavoratrici sessuali migranti".

A proposito della prostituzione minorile in Thailandia l'antropologa sociale Heather Montgomery scrive: "non credo che i modelli psicologici occidentali possano essere applicati ai bambini di altri paesi e risultare ancora utili" (cioè i bambini thailandesi si divertono un mondo nei bordelli per pedofili?).

"Vendere il proprio corpo è un diritto umano" (Jenness).

"I papponi non sono necessariamente il nemico, possono essere necessari alla protezione delle lavoratrici sessuali visto che la polizia non riesce a farlo" (Ana Lopes, sindacalista).

"La maternità surrogata dissolve l’idea “naturale” di maternità, di paternità e di cosa sia una famiglia" (Torbjorn Tannsjo, filosofo)

"Il divieto (della maternità surrogata) è la prova che abbiamo una visione biologica eteronormativa e orientata alla coppia della genitorialità" (Soren Juvas, attivista per la legalizzazione).

"Anche le differenze di classe e di razza sono messe da parte quando si tratta di infertilità" (Hélena Ragoné, ricercatrice; cioè: al committente bianco non fa schifo far crescere il proprio figlio nel grembo di una donna di colore povera).

"Ci sono dei vantaggi nell’essere sfruttati soprattutto quando si vive in totale miseria" (Wilkinson, filosofo inglese).

"Ciò che viene venduto è un pacchetto di diritti genitoriali non il bambino" (Wilkinson, filosofo inglese).

"La maternità surrogata non è vendita di bambini ma piuttosto costruisce famiglie attraverso il mercato" (Elly Teman, antropologa).

Reificazione

Le narrazioni che perorano la causa della legalizzazione, scrive Ekman, tracciano un confine netto fra bene e male. Dalla parte del bene mettono: la prostituta ribattezzata lavoratrice sessuale, il sesso libertario, il libero arbitrio, il diritto a disporre del proprio corpo, i diritti dei gruppi oppressi, i gay, l’economia di mercato, il progresso, la trasgressione, ecc. Dalla parte del male: le femministe e gli attivisti politici paleo marxisti, la moralità, l’ipocrisia, la stigmatizzazione del diverso, l’essenzialismo, il controllo statale, ecc. L’autrice è tuttavia costretta ad ammettere che anche le femministe che non appartengono all’ala liberal-progressista del movimento si lasciano ricattare da questa polarizzazione infatti, per non essere dipinte come megere moraliste e bacucche patriarcali, preferiscono tacere o allinearsi alla narrazione mainstream.

La trappola concettuale che impedisce alle femministe di prendere le distanze dalle narrazioni dell’ala liberal progressista del movimento è l'ingombrante eredità ideologica che si portano dietro dal '68, sintetizzata dallo slogan il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio. Slogan che, tanto nel caso della prostituzione quanto in quello della maternità surrogata, si ritorce contro le intenzioni di coloro che lo hanno coniato. Esso viene infatti utilizzato per legittimare un’altra asserzione: vendo una parte del mio corpo non il mio io. Il guaio è, commenta Ekman, che la vagina e l’utero sono legati a una persona per cui, nel momento in cui dico che vendo certe parti del mio corpo, rimuovo il fatto che nessuno possiede il proprio corpo perché tutti noi siamo i nostri corpi. Se la vagina e l’utero sono cose, la prostituta e la madre surrogata sono fatte di due parti: il soggetto che vende e l’oggetto venduto e la libertà del primo implica la schiavitù del secondo.

Per descrivere gli effetti psicologici di questo sdoppiamento, Ekman analizza le modalità di distanziamento che la prostituta, a partire dal momento in cui stipula un accordo con il cliente, è indotta a mettere in atto nei confronti del proprio corpo, nonché delle proprie sensazioni ed emozioni. Si tratta di una serie di pratiche di autodifesa che generano disagi e turbe psichiche e, alla lunga, possono causare veri e propri sdoppiamenti di personalità.

Per approfondire il tema l’autrice chiama in causa il concetto di estraniazione in Lukács (1) e quello di mercificazione in Marx. Per Lukács il concetto di reificazione descrive quell’aspetto della società capitalistica in ragione del quale gli oggetti appaiono dotati di vita propria a fronte di soggetti ridotti all’impotenza. Da un lato abbiamo l’individuo “liberato” dalla relazione immediata e diretta con la terra, i mezzi di produzione e i mezzi di sostentamento; dall’altro la sua forza lavoro, che assume la forma di merce, cioè di una cosa che egli possiede ed è indotto a vendere per potersi riprodurre. Questa relazione imprime la sua struttura all’intera coscienza umana: qualità e capacità non si connettono più all’unità organica della persona ma appaiono come cose che uno possiede ed esteriorizza al pari degli oggetti del mondo esterno.

Dal canto suo Marx, premesso che il capitalismo per durare deve costantemente cercare nuove aree di mercificazione, scrive che la mercificazione nasconde sempre la relazione sociale fra due parti. Nel caso della prostituzione, ma anche in quello della maternità surrogata commenta Ekman, ciò va inteso in senso letterale: la relazione è cancellata mentre resta solo la merce. Infine, per dimostrare ulteriormente la congruità delle categorie marxiane rispetto ai fenomeni sociali che analizza, scrive che la maternità surrogata potrebbe essere considerata come un caso particolare del tentativo di regolare il rapporto tra proletariato e classi superiori attraverso un contratto che consenta di mistificarlo come un rapporto fra “pari”.

L’eredità (sviata?) del '68. Considerazioni conclusive

Fin qui, fin quando cioè il discorso si mantiene sul terreno della denuncia e della critica filosofico culturale delle tesi di liberali e sinistre postmoderne, le argomentazioni della Ekman mi paiono impeccabili. Viceversa, quando la polemica si sposta sul terreno ideologico-politico, compaiono alcune aporie. La prima si manifesta allorché l’autrice cerca di dare una motivazione psicologica alla conversione delle sinistre all’ideologia liberale. Nel momento in cui il capitalismo conquista una incontrastata egemonia globale, scrive, parti della sinistra “reagirono mascherando come un trionfo la sconfitta”. Così la ricerca di ciò che è provocatorio, ribelle e sovversivo si sposta dall’esterno all’interno del sistema, fino a teorizzare (Ekman non li cita, ma qui le teorie di Negri e altri autori postoperaisti che blaterano di “comunismo del capitale” ci stanno a pennello) che l’ordine esistente è già di per sé sovversivo e/o a riconoscere in ogni manifestazione di insofferenza sociale, anche nelle più conservatrici e reazionarie, nuclei di resistenza e contropotere. La descrizione fenomenica è perfetta ma siamo sicuri che i motivi della svolta siano di ordine psicologico, una sorta di reazione autoconsolatoria per non sprofondare nella depressione?

La tesi mi pare debole, e ancora più debole mi pare il modo in cui Ekman descrive l’impatto dei movimenti libertari e anti autoritari del '68 sui sistemi di potere politici, economici, accademici e mediatici, i quali, scrive, “hanno dovuto ridefinirsi per giustificare la loro esistenza”. Così, dal momento che l’autorità non poteva più essere considerata come una cosa buona in sé e per sé né potendola più presentare come un dato “di natura”, l’unico modo per legittimare il potere sarebbe diventato quello di negarlo, o almeno eufemizzarlo. Da qui nasce la simbiosi fra destra neoliberale e sinistra postmoderna in ragione della quale capitalisti woke (2), media, intellettuali e politici fanno a gara per costruirsi un’immagine di diverso, dissidente o emarginato.

A una lettura superficiale potrebbe sembrare che la tesi di Ekman converga con quelle di Boltanski e Chiapello (3) e/o con quelle della filosofa femminista Nancy Fraser (4). Ciò è parzialmente vero nel caso della seconda, ma non lo è nel caso dei primi. Infatti costoro non sostengono che il neo capitalismo si sarebbe adeguato all’ideologia, ai principi e ai valori dei movimenti anti autoritari, sostengono assai più correttamente che l’ideologia, i principi e i valori di quei movimenti erano di per sé funzionali alle esigenze di autoriforma di un capitalismo in rapida trasformazione sul piano economico (finanziarizzazione) tecnologico (informatizzazione) e socioculturale (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali).

Una trasformazione che esigeva metodi e modelli organizzativi del tutto nuovi di gestione della forza lavoro qualificata, compatibili con le aspirazioni di quella classe media in formazione che nel '68 si era ribellata contro i vecchi dispositivi di potere politico, accademico e familiare. Esauritosi il ciclo di lotte operaie con le quali questi strati avevano brevemente condiviso obiettivi e parole d’ordine, costoro sono transitati dalla “critica sociale” alla “critica artistica” (5) rompendo il blocco sociale con i lavoratori manuali e arruolandosi nell’esercito neocapitalista che, per estendere il processo di mercificazione alla totalità delle relazioni sociali, esigeva che si facesse piazza pulita di tutto il vecchiume borghese (famiglia e costumi sessuali tradizionali compresi). Milioni di appartenenti alle classi medie “riflessive” erano pronti a marciare sotto le bandiere della libertà e dell'emancipazione individuali e ad aiutare il capitale a realizzare l’obiettivo descritto da Marx nel Manifesto: abbattere ogni barriera fisica, morale, ideologica, culturale che limita le opportunità di profitto.

Lo scoglio che impedisce anche alle femministe anticapitaliste come Ekman e Fraser di cogliere a fondo le radici di questa transizione storica, consiste nel fatto che non riescono a prendere atto che nel vecchiume borghese di cui il neocapitalismo ha bisogno di sbarazzarsi c’è anche quel paternalismo che continuano invece a rappresentare come il bersaglio principale. Queste autrici sono così costrette a fare salti mortali per dimostrare l’esistenza di un rapporto organico, strutturale, fra capitalismo e patriarcato (6). Ciò è del tutto evidente nel caso della maternità surrogata. Ekman parla di un nuovo tipo di mito patriarcale della creazione, nel senso che il padre non è l’uomo che genera un figlio ma colui che lo compra, e aggiunge che la maternità surrogata può essere vista come una forma estesa di prostituzione dal momento che qualcuno (spesso un uomo aggiunge) paga per usufruire del corpo della donna. Infine scrive che, da parte dei sostenitori della legalizzazione, il legame biologico del padre non viene messo in discussione: lui non viene accusato di difendere la biologia o la famiglia nucleare, la critica è rivolta solo a lei. Sono argomentazioni forzate, per non dire speciose. Qui è infatti evidente che è piuttosto la Ekman che cerca di attirare l’attenzione sul padre, rimuovendo il fatto che il desiderio di avere figli, nella stragrande maggioranza dei casi (fatta eccezione per le coppie omosex), vede come protagonista principale la metà femminile della coppia. Non è certo un caso se (vedi sopra) gli argomenti dei fan maschili della legalizzazione sono perlopiù economici, mentre quelli delle fan femminili (che sono larga maggioranza, a giudicare dalle citazioni scelte della stessa Ekman) esaltano il desiderio femminile di maternità che “sovverte” le regole della famiglia tradizionale. È la narrazione femminista che associa le donne che si ribellano alla maternità tradizionale alla sofferenza di non avere figli cui la maternità surrogata pone rimedio. È la storia di un desiderio che viene trasfigurato in bisogno perché lo si possa infine spacciare per un “diritto umano” che solo il mercato riesce a soddisfare (7). Mi pare ovvio che qui non è questione di dominio patriarcale bensì di dominio di classe e razziale, un dominio che le “leggi” del mercato capitalistico consentono a coppie benestanti bianche (donne e uomini) di esercitare a spese di donne povere e di colore.

Ovviamente mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive. Ciò detto, muovendo da questo punto di vita unilaterale si finisce per distogliere l’attenzione dalla forma specifica che il fenomeno della prostituzione assume nella società capitalistica. Una società che disintegra i legami comunitari e familiari, trasformando uomini e donne delle classi inferiori in atomi condannati alla povertà e alla solitudine, e generando quella miseria sessuale generalizzata di cui la prostituzione, con il suo corredo di violenza di genere, è uno dei corollari.

Ma la questione è più generale. Il rapporto fra il modo di produzione capitalistico e i residui antropologici, sociali e culturali delle società precapitalistiche è complesso, nel senso che il capitalismo sfrutta i residui in questione finché può metterli al servizio dell’accumulazione (vedi l’uso della schiavitù nell’America ottocentesca) mentre se ne sbarazza non appena entrano in conflitto con la sua vocazione di dispositivo di sovversione permanente di tutte le forme e relazioni sociali. Il salto di qualità associato ai fenomeni sopra elencati (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali, ecc.) è incompatibile con il permanere di strutture familiari di tipo patriarcale. Il capitale ha bisogno di spezzare queste strutture individualizzando e atomizzando la forza lavoro, uomini e donne, per renderla più ricattabile; ha bisogno di fare piazza pulita dei valori “machisti” dell’operaio tradizionale femminilizzandolo, spezzandone la combattività, l’orgoglio professionale (le donne della classe media hanno competenze che le rendono molto più adatte alla produzione terziarizzata).

La propaganda politicamente corretta (8) che media, intellettuali e politici spandono a piene mani è l’arma letale destinata triturare ogni residuo di ideologia patriarcale. Il fatto che le donne continuino a percepire stipendi in media più bassi, a occupare meno posti di responsabilità, ecc. non ha niente a che fare con il patriarcato: è il sistema usato dal capitale per dividere e mettere in concorrenza i lavoratori dei due sessi (la femminilizzazione del lavoro non è un fattore di equiparazione delle donne ai maschi, bensì di equiparazione dei maschi alle donne, è un gioco al ribasso). Ovviamente questo non toglie nulla allo straordinario contributo che il libro di Kajsa Ekis Ekman offre alla lotta contro due fenomeni disgustosi come la riduzione del corpo femminile a oggetto di piacere e a macchina riproduttiva. Nè toglie nulla alla sua denuncia della complicità delle sinistre postmoderne nei confronti del progetto neoliberale di mercificazione totale di ogni tipo di relazione umana. Queste mie glosse finali vogliono solo essere uno stimolo critico alla comprensione della sovradeterminazione di tutte forme di vita precapitaliste da parte del mercato.

Note

(1) Ekman si riferisce in particolare al Lukács di Storia e coscienza di classe (Tasco, Milano 1997) mentre non sembra conoscere l’opera “definitiva” del filosofo ungherese, quella Ontologia dell’essere sociale (4 voll. Meltemi, Milano 2023) che le sarebbe forse servita a superare alcune limitazioni presenti nella sua analisi filosofico politica (vedi l'ultima parte di questo articolo).

(2) Del fenomeno del cosiddetto capitalismo woke (vedi C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi, Milano 2023), vale a dire dei capitalisti “progressisti” che applicano i principi del politically correct alla gestione delle proprie imprese, mi sono occupato qualche mese fa su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html.

(3) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(4) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, New York 2013; vedi anche (con R. Jaeggi), Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(5) Boltanski, Chiapello definiscono critica artistica la cultura anti autoritaria, libertaria, anti sessista dell’ala intellettuale e studentesca dei movimenti del 68, distinguendola dalla critica sociale del movimento operaio.

(6) Tipica in questo senso l’analisi teorica di Nancy Fraser. La sua riflessione integra nel concetto di crisi capitalistica quello di “crisi della cura”. Sposta cioè le contraddizioni principali del sistema all’esterno del modo di produzione e delle relazioni di mercato, o meglio le disloca al confine fra produzione e riproduzione. Questo approccio, pur presentando certe analogie con le tesi di autori come Polanyi, Luxemburg, Laclau e altri, se ne distingue in quanto, da un lato sostiene che fin dall’inizio la società capitalistica ha separato il lavoro di riproduzione sociale, esterno all’economia, dal lavoro di produzione economica, dall’altro lato afferma che le attività non economiche rappresentano una precondizione dell’esistenza stessa del sistema economico. Perciò, dal momento che la tendenza capitalistica all’accumulazione illimitata destabilizza i processi di riproduzione sociale, è sul confine che separa produzione e riproduzione che nasce una crisi della cura di intensità inedita. Questa crisi è lo scenario che genera le condizioni della convergenza fra emancipazione femminile e mercificazione del lavoro riproduttivo, convergenza che è il terreno di coltura di quel “neoliberismo progressista” al quale il femminismo mainstream fornisce giustificazione ideologica. Fraser, pur duramente critica nei confronti di questo femminismo neoliberale, si incarta tuttavia nel tentativo di mettere sullo stesso piano giustizia distributiva e giustizia del riconoscimento ma, poiché si tratta di due discorsi che incarnano paradigmi teorici diversi, l’aspirazione a “riequilibrarli” si risolve inevitabilmente nell’egemonia dell’uno sull’altro. Ergo: anche la Fraser finisce per cadere a sua volta preda dell’approccio postmodernista, il che è inevitabile non appena si parte dal presupposto secondo cui le rivendicazioni di riconoscimento avrebbero, non meno delle rivendicazioni di giustizia distributiva, ragioni strutturali, in quanto le stratificazioni interne alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza risponderebbero a una precisa necessità del modo di produzione capitalistico. Contestando questa visione in un dialogo con la Fraser, Rahel Jaeggi (vedi nota 4) afferma che, da una analisi teorica di ispirazione marxista, non si evince alcun motivo strutturale per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza: “E se il capitalismo, si chiede, mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dell’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?”. Di fronte a questa obiezione Fraser è indotta ad ammettere che l’ipotesi è “logicamente possibile”, dopodiché cerca di cavarsela dicendo che la si può tuttavia escludere “per tutti gli scopi pratici”. Il punto è che il femminismo non può ammettere che sessismo e razzismo non sono di per sé strutturalmente necessari per il modo di produzione capitalistico, in quanto rischierebbe di apparire una lotta di retroguardia contro certi arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano. In poche parole: il grumo concettuale che penalizza le analisi di tutte le intellettuali femministe è quello della presunta necessità strutturale della discriminazione di genere ai fini della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico; un inciampo che rende loro impossibile emanciparsi del tutto dall’egemonia liberale.

7) Questo slittamento lungo l’asse desiderio-bisogno- diritto è stato il nodo che ha alimentato le critiche che il sottoscritto, assieme a Onofrio Romano e altri amici, ha sollevato nei confronti delle tesi sostenute da Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza, Roma-Bari 2012).

8) Sul carattere violento, autoritario e antidemocratico della cultura politicamente corretta cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018.

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