Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni

14/08/2025

USA costretti alla tregua commerciale con la Cina

Contrordine: i dazi fanno crescere la Cina

Clamorosa la portata politica del gesto. Un vero e proprio schiaffo in faccia a chi in Europa (il cancelliere tedesco Friedrich Merz) chiedeva sanzioni contro Mosca aggiuntive, prima del vertice in Alaska, in nome e per conto dell’Ucraina. Si pensava che gli Usa fossero decisi a trattare Xi Jinping come Narendra Modi, per ‘punirlo’ a causa dei cospicui acquisti di greggio russo. Ma, evidentemente, la Casa Bianca e i suoi advisor stanno facendo altri calcoli, almeno per ora. La verità è che mentre l’Europa, sull’orlo di una crisi di nervi, è tutta assorbita dalla crisi ucraina, il cui controllo (che non ha mai veramente avuto) le sta sfuggendo definitivamente di mano, Trump fa le sue mosse, guardando più lontano. È vero, parla solo di Kiev e di Mosca, ma intanto la testa ce l’ha da un’altra parte. E agisce di conseguenza, senza troppo clamore. Tutti gli specialisti sanno che il suo chiodo fisso è la Cina e il relativo progetto geopolitico, che la ‘contenga’, cioè che argini il suo straripante espansionismo, prima di tutto economico, a cominciare dall’Indo-Pacifico.

L’oscillante America di Trump non piace

La filosofia dei dazi doganali è l’arma principale voluta dalla sua squadra, per sfidare Pechino sul terreno minato dell’export. Tuttavia, la strada scelta dal team guidato da Scott Bessent e Howard Lutnick (i Segretari al Tesoro e al Commercio) è molto scivolosa, perché non basta migliorare i numeri della bilancia commerciale nel breve periodo, per garantire un ciclo espansivo stabile. La competizione con la Cina è una maratona e basta poco per vedere i fondamentali dell’economia fibrillare paurosamente. Il che, tanto per cominciare, significherebbe per Trump perdere le elezioni di Medio termine, l’anno prossimo, cruciali per il controllo del Congresso. Nell’ordinanza pubblicata lunedì sera, si spiega che «la Cina ha adottato misure significative per porre rimedio ad accordi commerciali non reciproci e affrontare le preoccupazioni degli Stati Uniti in merito a questioni economiche e di sicurezza nazionale». Una formuletta in politichese per giustificare l’indulgenza di Trump, che ha ritirato all’ultimo momento la ‘tassa-Putin’ che avrebbe dovuto imporre anche alle merci cinesi. Portando addirittura l’importo del dazio fino al 100%. Il nuovo ultimatum è fissato al 10 novembre e fino ad allora resterà in vigore l’attuale tariffa “reciproca” del 10%.

I dazi Pechino-Washington

Da aprile, Washington ha aumentato i dazi sulle importazioni cinesi fino al 145%, mentre Pechino ha replicato con aliquote che arrivavano al 125%. Ma i cinesi hanno colpito selettivamente anche la catena di approvvigionamento delle materie prime, introducendo controlli sulle esportazioni, specie per quanto riguarda le cosiddette ‘terre rare’. Si tratta di pregiati metalli con qualità speciali, che entrano nella produzione di beni ad altissimo valore aggiunto, come quelli di sofisticata tecnologia. C’è stato un vero e proprio braccio di ferro tra Usa e Cina, che si sono scontrati utilizzando come ‘armi’ microchip e terre rare. A giugno, a Londra, finalmente è stata siglata un’intesa che ha ammorbidito le rispettive burocrazie commerciali, favorendo gli scambi di semiconduttori e metalli pregiati. Così Nvidia ha ripreso a spedire i suoi semiconduttori di fascia alta, indispensabili per l’intelligenza artificiale, in Cina. Tutto questo anche se la Casa Bianca mantiene una dura politica di chiusura ‘tecnologica’, per quanto riguarda prodotti destinati all’intelligenza artificiale e, più in generale, alla microelettronica.

L’illusione di isolare la Cina

Inoltre, gli Stati Uniti stanno conducendo una politica di relazioni internazionali (non solo commerciali) molto aggressiva in tutto il Sud-est asiatico, cercando di fare terra bruciata attorno alla Cina. Recentemente hanno siglato un accordo col Vietnam, per evitare l’escamotage della ‘delocalizzazione’ dei prodotti, che in pratica vengono trasferiti da Pechino ad Hanoi, per essere assemblati e rivenduti col marchio vietnamita. Questa triangolazione, che aggira il blocco americano, viene resa sempre più difficile dagli stretti controlli a cui sono ora sottoposte tutte le merci che entrano negli Usa. «Durante questo periodo di tregua commerciale – scrive il South China Morning Post di Hong Kong – Washington farà pressione su Pechino affinché effettui ‘grandi acquisti’ di beni statunitensi per ridurre il deficit, anche se i dati doganali mostrano che le importazioni cinesi di molte materie prime americane sono crollate – o in alcuni casi, si sono fermate del tutto – negli ultimi mesi. Alcuni analisti – aggiunge il giornale – sostengono che Pechino si considera in vantaggio nei negoziati, grazie alle esitazioni di Trump e alla spinta per maggiori ordinativi di soia. La Cina ritiene, inoltre, che il suo controllo sulle esportazioni di minerali di terre rare continui a rappresentare una forte leva nei confronti degli Stati Uniti nei negoziati commerciali in corso. Secondo William Yang, analista senior per l’Asia nordorientale all’International Crisis Group, «Pechino continuerà a usare la sua influenza per ottenere ulteriori proroghe o fare pressione sugli Stati Uniti, affinché facciano concessioni senza farne a loro volta».

Ma l’export della Cina intanto cresce

Certo, la Cina e la torta del mercato globale rappresentano solo uno dei problemi economici epocali sul cammino ‘MAGA’ di Trump. Il mondo è un boccone troppo grosso per tutti, anche per lui. Gli osservatori che contano (quelli finanziari) hanno i fucili puntati sui suoi azzardi, commerciali prima ancora che politici. Ieri, la prima pagina del Wall Street Journal sembrava un bollettino di guerra. Nel senso che spaccava il capello in quattro, a cominciare dal tasso di inflazione (per ora stabile al 2,7%) e proseguiva con il mercato del lavoro, la Federal Reserve e le ‘aspettative’. Di qualsiasi tipo. Il senso è chiaro: sono tutti convinti che la sconclusionata filosofia da ‘racket’ dei dazi di Trump, prima o dopo provocherà sconquassi. Basta solo attendere che gli scivoli il piede. Intanto, è stato costretto a rimangiarsi tutte le minacce rivolte al formicaio cinese. I numeri sono come pietre e inchiodano sia lui che i ‘nobili statisti europei’, che da un lato indicano la Cina come ‘avversario strategico’ e dall’altro continuano ineffabilmente a comprarci di tutto: dalle padelle, alle mutande, fino ai microchip.

«Le esportazioni cinesi – annuncia il quotidiano di Hong Kong – hanno continuato ad accelerare a luglio, poiché il calo delle spedizioni verso gli Stati Uniti è stato compensato dalla crescita in una serie di mercati, tra cui Africa, Europa e America Latina, con le esportazioni di chip in aumento di quasi il 30% su base annua. Il mese scorso, le esportazioni verso l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico sono aumentate del 16,6% su base annua, in linea con la crescita del 16,8% registrata a giugno. Le spedizioni in uscita verso l’Unione Europea, invece, sono aumentate del 9,2% su base annua a luglio, rispetto al 7,6% di giugno.

Business is busines. Lo comprendiamo persino noi, poveri peones. Ma a Bruxelles, per favore, abbiano almeno la decenza di smetterla una volta per tutte di dare lezioni di ‘bon ton’ politico. E si guardino allo specchio.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento