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17/10/2023

L’Iran non vuole la guerra, nel fronte sciita ha già vinto

di Alberto Negri

Una seconda guerra in Medio Oriente dopo quella in Ucraina è l’ultima cosa che vuole l’amministrazione statunitense.

Non è un caso che Biden, pur mostrando i muscoli e schierandosi completamente con Tel Aviv, cui promette ogni sostegno dichiarando di poter fare due guerre in una volta, abbia messo in guardia Israele dall’idea di occupare Gaza.

E forse anche l’Iran non ha intenzione di allargare il conflitto al nord del Libano facendo leva su Hezbollah.

Il rischio di una escalation con Israele è alto ma Washington e Teheran si parlano «in via privata», così sostiene il Financial Times.

Certo la diplomazia iraniana sta lavorando a tutto spiano per rinsaldare il cosiddetto «asse della resistenza», quella Mezzaluna sciita protagonista ormai da anni in Libano, Siria, Iraq, Yemen.

L’Iran, dopo la rivoluzione del 1979 e soprattutto dopo l’attacco subito a sorpresa nel 1980 da Saddam Hussein, è sempre sul piede di guerra o comunque pronto a sfruttare gli esiti di un conflitto nella regione: a volte non deve neppure fare troppo per cogliere il risultato, come nel 2003 quando l’invasione statunitense dell’Iraq ha regalato il Paese all’influenza sciita e iraniana.

Oggi i 240mila miliziani delle Forze di mobilitazione sciite, che hanno contribuito a sconfiggere il «califfato» sunnita, costruite sul modello delle guardie della rivoluzione iraniane, sono la forza predominante del Paese.

Per non parlare di Hezbollah in Libano, movimento di guerriglia e politico, dove il suo capo Nasrallah ha un coordinamento strategico con la Guida suprema Khamenei.

Hezbollah, dopo la guerra del 2006 contro Israele che lasciò il Libano distrutto e in ginocchio (come del resto lo è oggi economicamente), toccò il massimo della sua popolarità nel mondo arabo, per essere poi decisivo nel sostegno dal 2011 al regime dittatoriale siriano di Bashar Assad che si è tenuto in piedi grazie all’Iran e alla Russia (dal 2015).

Il ministro degli esteri iraniano Hossein Amirabdollahian da giorni sta facendo il giro dello sciismo militante a cui Teheran fornisce armi, addestramento e denaro. È stato a Baghdad, Beirut, Damasco.

Obbligato anche a qualche deviazione improvvisa quando Israele ha deciso di bombardare le postazioni Hezbollah e pasdaran in Siria tra Aleppo e Damasco.

Quando gli israeliani entrano in azione i rappresentanti della Repubblica islamica non sono mai al sicuro. Non è forse un caso che sia finito in questi giorni in terapia intensiva a Teheran l’agente iraniano Mohammed Akiki: l’ultimo attentato del Mossad era stato nel 2022, in un lunga lista di ufficiali iraniani eliminati in cui spicca nel gennaio 2020 il generale Qassem Soleimani, un’operazione congiunta tra Usa e Israele, che fece fuori il maggiore stratega di Teheran.

Il ministro iraniano ha fatto tappa anche a Doha dove ha incontrato il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh – esaltando l’operazione del 7 ottobre – ma ha anche visto i banchieri che in Qatar detengono quei sei miliardi di dollari iraniani scongelati recentemente dagli Usa.

Contrariamente a quanto dicono a Washington, gli iraniani si stanno preparando a incassarli insieme ad altri dieci miliardi di dollari depositati da Teheran nelle banche irachene.

In un Medio Oriente dove si è costretti a seguire i solchi tracciati nel sangue dei popoli, ogni tanto bisogna anche seguire altre tracce, come quelle lasciate dai soldi indispensabili a volte per fare la differenza tra la pace e la guerra.

Certo l’ambiguità sui piani di Teheran in Libano al riguardo di uno scontro con Israele resta assai marcata. Il presidente iraniano Raisi in un colloquio con il francese Macron ha affermato che «i gruppi della resistenza hanno preso le loro decisioni», però si è smarcato su un coinvolgimento diretto di Teheran.

Del resto quanto è ambigua la Russia e il rapporto stesso tra Putin e Netanyahu? Nonostante Putin abbia appoggiato la causa palestinese, la Russia continua, da anni, a fare finta di niente quando Israele lancia i suoi raid anti-iraniani in Siria, dove per altro Mosca ha le sue basi più importanti nel Mediterraneo.

Da questo conflitto Teheran guadagna già. Ha portato dalla sua parte Pechino nella solidarietà ai palestinesi; Hamas con lo scioccante e criminale attacco del 7 ottobre ha già fatto saltare l’accordo tra Arabia Saudita e Israele; e la Russia di Putin (di cui vedremo le ambiguità) è dalla parte dell’Iran.

La Cina che aveva gestito il riavvicinamento tra Riyadh e Teheran è in questo momento l’attore «nuovo» in Medio Oriente al quale non a caso si è rivolto anche il segretario di stato Blinken.

Pechino è il maggiore partner economico della Repubblica islamica, l’Arabia Saudita ha un giro d’affari annuo con la Cina di oltre 300 miliardi di dollari l’anno.

Con l’allargamento dei Brics deciso a Johannesburg, gli undici Paesi dell’organizzazione detengono oltre il 50% della produzione mondiale di petrolio. E nessuno di questi Paesi (pur magari condannando l’invasione dell’Ucraina) ha aderito alla narrativa occidentale sulla guerra, non imponendo neppure una sanzione a Mosca.

Si corre sul filo in Medio Oriente, come sempre, ma in uno scenario che ha visto prevalere il radicalismo e il fanatismo religioso sia nel mondo arabo che in Israele.

Come se – parafrasando il compianto amico Samir Kassir – l’infelicità degli arabi diventasse inevitabilmente anche quella degli israeliani, in un fallimento dello stato moderno e delle ideologie laiche e progressiste che non lascia molte speranze.

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