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15/07/2025
Il Mondiale per Club: prove di lifting per il ‘capitalismo globale’
Il Chelsea ha vinto la prima edizione a 32 squadre del Mondiale per Club, battendo in finale per 3 a 0 “gli ingiocabili” del PSG. Ma non sarà questa la scena che rimarrà impressa di questo Mondiale, così come non lo saranno le giocate dei tanti campioni presenti negli Stati Uniti, né tanto meno i gol di questo o quel calciatore.
L’immagine che resterà impressa sarà quella della premiazione con Donald Trump che consegna il trofeo al capitano dei Blues, mentre Gianni Infantino applaude al suo fianco, con i due che rimarranno al centro della scena per tutti i festeggiamenti.
Una scena che, ai più, sarebbe sembrata paradossale solo pochi anni fa ma che oggi appare quasi del tutto naturale, nonostante i tanti fischi dei presenti al MetLife Stadium e la reazione del man of the match, Cole Palmer, facciano pensare il contrario.
Perché il calcio contemporaneo, sempre meno sport e sempre più strumento geopolitico, ha cessato da tempo di fingere di essere territorio neutro. È diventato una delle forme più efficaci di legittimazione del potere politico ed economico.
Il torneo, ospitato dagli Stati Uniti come anticamera di quella che sarà la Coppa del Mondo del 2026, ha messo in mostra in modo quasi spudorato la piena integrazione dello sport nel ciclo capitalistico della valorizzazione più sfrenata. La FIFA si è mostrata per quello che ormai è: non più un’organizzazione sportiva, ma una piattaforma globale di gestione di interessi finanziari, politici e mediatici.
Infantino, da tempo alleato trasversale di monarchie del Golfo, oligarchie dell’est e poteri transnazionali, ha trovato in Trump il partner simbolico ideale per chiudere il cerchio. Il trofeo consegnato dal presidente americano è stato più che un semplice gesto cerimoniale: è diventato un atto di normalizzazione.
Mentre Trump durante tutto il torneo ha messo in scena una serie di performance da degno padrone di casa, la FIFA ha cancellato silenziosamente ogni traccia visibile delle sue campagne contro il razzismo e l’omofobia. Slogan come “No to Racism” o “Football Unites the World” sono scomparsi dai maxischermi e dai video ufficiali per non “infastidire” l’entourage trumpiano.
Una resa senza condizioni, perfettamente coerente con il contesto e con gli obiettivi della stessa FIFA. Fuori dagli stadi, nel frattempo, la polizia ICE intensificava i rastrellamenti nei quartieri popolari, colpendo in particolare comunità di migranti centroamericani, Trump dichiarava guerra all’Iran con la Juventus a fare da sfondo, confermava il suo sostegno al genocidio del popolo palestinese e rilanciava le sue politiche transfobiche.
Eppure, questa relazione tra potere e pallone ha una lunga genealogia. Nel 1978 la giunta militare argentina usò il Mondiale per mascherare il terrore, i voli della morte, le torture e le centinaia di migliaia di desaparecidos. Nel 2022, il Qatar ha messo in mostra la sua modernità apparente costruita su manodopera migrante sfruttata, regalando al mondo l’estetica rassicurante di uno sport “universale” che nascondeva, sotto i tappeti rossi, disuguaglianza e violenza strutturale.
Oggi, con il Mondiale per Club 2025, il calcio non serve più a nascondere il potere, ma a celebrarlo. Non maschera, bensì esalta. Non cela, ma abbellisce.
Trump, con il suo sostegno esplicito al genocidio in Palestina, le sue politiche transfobiche, la retorica suprematista e l’agenda repressiva contro migranti e minoranze, viene messo al centro della scena sportiva globale. Non solo accettato, ma riconosciuto, legittimato, addirittura premiato.
Il calcio diventa così uno strumento attivo di ricostruzione dell’immagine pubblica, in grado di trasformare una figura divisiva in un protagonista globale. Nessuna ambiguità, nessuna distanza, nessuna contraddizione. Il pallone è, ancora una volta, uno strumento nelle mani del potere politico e mediatico.
Il capitalismo – come oramai è noto – non ha più bisogno di occuparsi soltanto della produzione materiale. Ha imparato a produrre consenso, estetica, spettacolo e simboli. Il calcio, in quanto fenomeno sociale di massa con la sua capacità unica di generare identità, emozioni e appartenenza, non poteva fare eccezione.
Oggi viene impiegato per legittimare leader politici, pacificare masse, disinnescare conflitti sociali e normalizzare guerre e sfruttamento. Non più solo per “intrattenere”, ma per incorporare dentro di sé l’ideologia dominante. I tifosi diventano customers, gli stadi spazi dove generare ulteriori profitti, le squadre brand globali.
Questo Mondiale per Club, in questo senso, non è stato un’eccezione ma un nuovo modello esportabile. Il calcio contemporaneo, del resto, agisce come apparato ideologico di Stato postmoderno, capace di produrre forme di consenso e neutralizzazione ben più efficaci della propaganda novecentesca.
Non ci si può più limitare a parlare di “contaminazione” tra sport e politica. È il calcio stesso, nella sua attuale forma, a essere politica: non solo perché si schiera, ma perché viene messo a profitto nel ciclo della valorizzazione capitalistica come ogni altro prodotto culturale.
Il calcio oggi è uno strumento di legittimazione e spettacolarizzazione del dominio. Produce affetto, partecipazione, identità collettiva, ma canalizza tutto dentro la logica capitalista: le passioni vengono catturate, semplificate, digerite e rivendute come prodotti culturali ad alta redditività. E il tifoso, oggi, è consumatore di simboli e spettatore del potere. Non si tratta solo di soldi – diritti TV, sponsor, scommesse – ma di valore simbolico da convertire in consenso e potere.
Serve allora una rottura radicale. Non una nostalgia di un calcio “puro” che non è mai esistito, ma una critica lucida e sistemica del ruolo che lo sport gioca nella riproduzione del dominio. È fondamentale rivelare le strutture che governano il calcio globale, smascherare il teatro, rompere la fascinazione.
L’immagine di Trump che alza la coppa non è un unicum, ma un manifesto. Un manifesto del presente che ci viene imposto e contro cui occorre, oggi più che mai, organizzare resistenza culturale, politica e sociale.
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