Strano che nessuno si sia chiesto quale bandiera batte la “Costa
Concordia”. Strano che nessuno si sia chiesto chi stava sul ponte di
comando della nave al momento dell’incidente. Strano che nessuno abbia
ricordato che ai primi di ottobre del 2011 la nave portacontainer “Rena”
della MSC è andata a sbattere contro l’Astrolabe Reef in Nuova Zelanda,
uno dei più preziosi paradisi marini del globo, e che da allora (sono
passati tre mesi e mezzo) sputa petrolio su quelle acque incontaminate,
creando il più grave disastro ecologico in quell’emisfero. Strano che
nessuno ricordi come l’Italia abbia a che fare in questi incidenti, per
più motivi. Costa Crociere, nata italiana come dice il nome, è
controllata dal gigante americano del settore. Ma chi la gestisce? Le
navi, è bene si sappia, sono di proprietà, di norma, di una holding la
cui prima preoccupazione è di metterle al riparo dal fisco e dalle norme
sulle tabelle d’armamento presso certi paradisi fiscali ( da cui le
cosiddette “bandiere ombra” o flag of convenience). Ma sono gestite da
Ship Management Societies specializzate che decidono le assunzioni di
personale e lo fanno di solito in base al principio del minor costo.
Sulla
“Rena” c’erano 15 filippini su 20 uomini di equipaggio. I filippini
hanno pessima fama, ma ingiustamente, da “paria” del settore sono
diventati oggi tra quelli meglio preparati, perché negli anni hanno
imparato che la loro vocazione era quella ed hanno investito in scuole
professionali, che rilasciano i diplomi ed i certificati necessari per
l’imbarco. Purtroppo oggi il mercato dei certificati falsi è fiorente,
oggi i “paria” sono altri, ucraini, vietnamiti, turchi, bielorussi.
1. Sabato
c’è stata una manifestazione sul Canale della Giudecca a Venezia contro
il passaggio delle grandi navi da crociera. Stava uscendo in quel
momento la “MSC Magnifica”. MSC sta per Mediterranean Shipping Company
ed è la creatura di un geniale italiano di Sorrento, Gianluigi Aponte,
che ha trasferito le sue attività in Svizzera, a Ginevra, dove sembra
abbia preso moglie con tanto di banca in dote. Ha una flotta di circa
150 navi portacontainer (è la seconda al mondo) ed una flotta sempre più
consistente di navi da crociera. I suoi comandanti e, spesso, anche i
suoi ufficiali, sono di Sorrento o dintorni. Anche quello della “Costa
Concordia” viene da Sorrento, si legge, e con il suo comportamento ha
coperto di disonore una categoria di validissimi uomini di mare. MSC è
famosa nel mondo per la sua mancanza di trasparenza. Non comunica
informazioni relative ai suoi traffici, in particolare sui volumi di
merce trasportata, non conferma né smentisce le notizie che le
pubblicazioni insider sfornano ogni giorno sulle loro costosissime
newsletter. MSC si è fatta largo con una politica di prezzi assai
aggressiva, al limite del dumping, possibile quando si riducono i costi
al massimo e magari quando si dispone di grande liquidità (gli invidiosi
o i malevoli dicono di sospetta origine).
2. Ma
torniamo alla nave naufragata. Chi era sul ponte di comando? Il
comandante e, si suppone, qualche ufficiale erano a cena con gli ospiti
che si erano messi in ghingheri apposta. Che il personale fosse
addestrato all’emergenza è probabile, ma per quanto riguarda il core
manpower, il 10/15% del totale quindi, le centinaia di precari a bordo,
che spesso parlano un paio di parole d’inglese al massimo, certo non lo
erano. Chi aveva verificato il funzionamento dei verricelli delle
scialuppe di salvataggio? Nessuno. La “Rena” era una nave substandard,
sottoposta ad ispezioni almeno una quarantina di volte negli ultimi
anni, in genere era stata fermata e rilasciata solo dopo giorni. Troppo
costoso per il signor Aponte ritirarla dal servizio. Le navi da crociera
invece sono recenti, dotate delle più sofisticate apparecchiature di
bordo. Se causano disastri è per cause diverse da quelle destinate al
cargo. E quali sono queste cause?
3. La
principale è di carattere culturale, di costume si potrebbe dire. Non è
tanto problema di preparazione del personale, di controllo del
funzionamento delle apparecchiature, di competenza degli ufficiali, è
prima di tutto la cultura della “movida” a determinare certi
comportamenti irresponsabili. Una nave da crociera è un’oscena “movida”
galleggiante, che, a differenza di quella che ha devastato città come
Barcellona ed altre, coinvolge vecchi e bambini, donne incinte e suore,
paraplegici e malati cronici, tutti ammucchiati nella spensieratezza e
nello shopping, con cabine costruite per essere scomode in modo che i
passeggeri vadano in giro a comperare. Gli introiti all’armatore
provengono dallo shopping in egual misura che dalla tariffa di
passaggio. E poi lo spirito della “movida” è quello che fa avvicinare
questi mostri pericolosamente alle coste più belle, alle acque protette
dei pochi e non presidiati parchi marini. Chi abita a Camogli e dintorni
è ormai abituato a vedere le navi da crociera uscire dal porto di
Genova e puntare diritte sul parco marino di Punta Chiappa, passandoci
sfiorando le boe fatte per barche e motoscafi. Le sente lanciare l’urlo
delle sirene e allora la gente del posto spiega: “I comandanti sono di
Camogli ed è usanza che vengano a salutare le mogli e le mamme. Camogli
viene da Ca’ delle mogli”. All’inizio ci cascavo anch’io e magari
ripetevo questa sciocchezza a dei bagnanti inquieti per l’avvicinarsi
del mostro, ma oggi so che non è così. Perché le grandi navi passano per
il Canale della Giudecca? Per permettere ai passeggeri di scattare una
foto di piazza San Marco dal bacino. E questa “esperienza” pare che
valga l’intera crociera. Altrimenti perché i tour operator
minaccerebbero di boicottare Venezia se le navi non passano più per il
canale della Giudecca?
4. Era troppo tardi
all’Isola del Giglio per scattare le foto. La “movida” si era trasferita
ai tavoli delle mense. Ma la “movida” da sola non basta a spiegare le
modalità dell’accaduto. Un fattore strutturale è il cosiddetto
“gigantismo” navale. Perché si costruiscono navi da 100 mila tonnellate,
in grado di portare anche 6.000 persone? Per risparmiare sui costi,
punto. Non è che la vacanza è più bella se a bordo si è in 6 mila invece
di mille, anzi il servizio rischia di essere peggiore. Una simile nave
in caso di incidente è governabile assai meno di una nave più piccola,
fosse pure perfettamente esperto tutto l’equipaggio in evacuazioni
d’emergenza. E’ il gigantismo in sé la pura follìa, perché innesca il
circolo vizioso. Quanto più grande la nave, tanto inferiori i costi
unitari per l’armatore che può offrire prezzi a portata di tutte le
tasche. Tanto più basse le tariffe tanto più difficile la concorrenza da
parte di navi più piccole, con costi unitari maggiori. Le barriere
d’ingesso al mercato si alzano, la situazione diventa di oligopolio e
magari su certi segmenti di mercato diventa monopolio, allora le tariffe
possono riprendere a crescere, ma nel frattempo è il disastro. Nelle
navi portacontainer la logica è la stessa ed i danni all’ambiente sono
costanti. Oggi sono in ordine ai cantieri navi da 18.000 TEU, per
entrare in un porto hanno bisogno di alti fondali. Se chiedete a un
Presidente di un qualunque porto italiano, che non sia Trieste, in quali
attività investe le maggiori risorse, vi sentirete rispondere: scavare i
fondali. Anche a Venezia è così e se non ci si ferma in tempo sarà la
morte della laguna, che già è agonizzante. Con la costruzione del MOSE
le bocche di porto si sono ristrette ed i conducenti dei vaporetti vi
diranno che razza di velocità hanno preso le correnti in uscita ed in
entrata a seconda delle maree, roba da render difficile il governo di un
vaporetto.
5. La Ship Management Society della
“Rena”, la portacontaienr che sta ancora devastando il reef
neozelandese, è la Costamare, con sede in Grecia. Se andate sul sito,
troverete che si considera la migliore del mondo nel trattamento degli
equipaggi. Possiamo anche crederle ma il problema oggi è che ci si trova
ormai nello shipping in una situazione, come nella finanza, sfuggita ad
ogni controllo. Per disastri di proporzioni inimmaginabili le multe
pagate dalle società sono ridicole, qualche problema in più lo hanno
semmai le assicurazioni, la colpa comunque è sempre dell’uomo, cioè di
quel disgraziato a bordo che si è fatto magari un turno di 16 ore. Si
dice che il comandante della “Rena” fosse ubriaco, forse era fatto di
coca o forse il suo secondo al timone, chissà. Non esiste un’Autorità
Internazionale che abbia giurisdizione sulle acque, in mare ciascuno fa
il cazzo che vuole, l’International Maritime Office può fare solo
raccomandazioni e le sue Direttive debbono essere ratificate dagli
Stati…campa cavallo. La deregulation è totale ed è iniziata con la
deregulation del lavoro. Per questo sono nate le bandiere di comodo, non
tanto per pagare meno tasse ma per aggirare gli standard dell’organico
di bordo, cioè delle tabelle d’armamento. Le caratteristiche fisiche e
tecniche di ogni nave richiedono un organico ben definito in termini di
numero e di qualifiche, di ufficiali e di crew. Gli armatori registrano
la nave a Panama, alle Isole Caimane, in Liberia per poter avere la mano
libera sulle caratteristiche dell’equipaggio. Nel mirino si dovrebbero
tenere quindi non solo gli armatori ma le Ship Management Societies. In
Italia si è trovata una via di mezzo, il cosiddetto Secondo Registro
Navale, la nave rimane sotto bandiera italiana e le tasse l’armatore le
paga in Italia (non è il caso qui di soffermarsi sulle agevolazioni
fiscali concesse all’armamento, i sacrifici si sa debbono farli solo i
lavoratori, dipendenti, precari e freelance che siano). Ma l’equipaggio
può essere formato secondo pratiche che non sono molto dissimili da
quelle concesse alle flag of convenience.
Non esiste salvezza
dunque? Non è solo per antico operaismo, ma per una considerazione
fredda ed obbiettiva che ritengo l’unica possibilità di salvezza la
lotta multinazionale dei lavoratori. Purché se ne tenga conto. Nessuno
ci fa caso, nelle cosiddette pubblicazioni antagoniste o di sinistra
ancora non opportunista non c’è traccia di quel che accade nel mondo
della portualità e dello shipping. Invece ci sono fermate, scioperi e
proteste ogni giorno nel mondo, soprattutto nei porti. Forse qualcuno
ricorderà che un paio d’anni fa sui giornali è venuta fuori la notizia
che c’era un porto nuovo in Marocco che avrebbe stracciato tutti i
concorrenti, Gioia Tauro in primo luogo. Da mesi è semiparalizzato dagli
scioperi. Il problema non è quello di essere informati, ma quello di
esser presenti nell’opinione pubblica con ragionamenti che spostino
delle rivendicazioni dal terreno della pura sopravvivenza (di questo si
tratta e non di presunti “privilegi” dei portuali) al versante della
lotta per la salvezza dell’ambiente e di una civiltà del lavoro degna di
questo nome.
Fonte.
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