di Sandro Moiso
Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro
Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso a far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.
Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi, ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.
Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.
Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.
Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.
La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.
È soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.
Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.
L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.
Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi.
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.
Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.
Infatti, anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio sui popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.
In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)5.
Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. È successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi6, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.
Così, per continuare con l’ultimo esempio, oggi la narrazione mediatica, pre e post fatti del 7 ottobre e successivi, continua a insistere sulla necessità indiscutibile di fornire armi e appoggio politico-militare allo stato colonizzatore, mentre chiunque fornisca armi, assistenza o semplicemente supporto umanitario agli “indigeni” della striscia di Gaza è dipinto come i terribili comancheros (trafficanti di armi e traditori) che nei western d’antan fornivano armi ai nativi fuggiti dalle riserve per spingerli alla guerra contro l’”uomo bianco” e minare la pace imperitura del suo ordine (mortifero).
Eppure, eppure... è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:
questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] essa ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo7.
Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.
Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»8 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza9.
Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon10. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite11.
Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato già post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:
con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)12.
Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.
Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano13.
Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono però fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.
Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati14.
Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrilevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel15 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.
Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata16. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero degli affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese17. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”18.
Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo19. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta cruciale.
Note
Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13
Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci.
Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.
Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.
Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22
A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997
Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23
Ivi, p. 22
cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023
Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.
“L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
“Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30
Ivi, pp. 25-26
Ivi, pp. 36-37
“La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”
La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.
Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.
Somdeep Sen, op. cit., p. 16.
“Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.
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