di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Come una valanga,
l’omicidio Khashoggi sta per travolgere Mohammed bin Salman. A un giorno
dall’annuncio dell’invio di 10mila soldati della coalizione a guida
saudita nella città yemenita di Hodeidah, sul Mar Rosso, gli Stati Uniti
tolgono il cappello dalla guerra scatenata a marzo 2015.
Senza citare il ruolo statunitense nella devastazione dello
Yemen (Washington fornisce assistenza logistica, intelligence e
rifornimenti ai caccia, mai autorizzati dal Congresso), ieri il capo del
Pentagono James Mattis ha chiesto la fine del conflitto, «ormai troppo
lungo»: «Entro 30 giorni da oggi voglio vedere tutti seduti
intorno a un tavolo per un cessate il fuoco, basato sul ritiro (degli
Houthi) dal confine e poi dalla cessazione dei bombardamenti (sauditi)».
Una data di scadenza alla guerra saudita, rilanciata dal segretario
di Stato Usa Pompeo che poco dopo ha fatto appello ad Arabia Saudita ed
Emirati Arabi Uniti perché cessino le ostilità. Non prima, aggiunge, dello
stop delle attività militari dei ribelli Houthi, tra cui i lanci di
missili verso il sud del territorio saudita. Mattis ha fatto
sapere di aver chiesto alle varie parti di incontrarsi con Martin
Griffiths, l’inviato Onu per lo Yemen, a novembre in Svezia.
L’endorsement Usa alle politiche belliche saudite
scricchiola, non certo per ragioni umanitarie o per le stragi impunite
di civili: dal 2 ottobre, dalla scomparsa del giornalista
dissidente Jamal Khashoggi, la rete di alleanze che la petromonarchia ha
saputo costruirsi nell’ultimo mezzo secolo non è più così solida.
Nessun fuggi fuggi generale, ma prudenti prese di distanza di
chi vuole prima capire che piega prenderanno gli eventi. Ma soprattutto
se Mohammed bin Salman, il giovanissimo erede al trono (ma reggente de
facto della monarchia) sarà sacrificato sull’altare della ragion di
Stato.
Non mancano i segni di un suo possibile passo indietro, almeno nel medio termine: ieri,
da Londra, è rientrato in patria il principe settuagenario Ahmad bin
Abdulaziz, fratello di re Salman e noto critico del nipote. L’intenzione
è sfidare o individuare uno sfidante dell’egemonia di Mbs per
ripulire la faccia di una famiglia reale che si finge da decenni pulita. Abdulaziz gode della protezione di Gran Bretagna e Stati Uniti, ma
soprattutto del suo clan, tanto potente da non essere stato neppure
sfiorato dalle epurazioni del novembre 2017 volute del delfino. Dalla
sua ha l’appoggio di una buona parte dei vertici sauditi, più che
preoccupati dalle politiche e i metodi di Mbs.
Nelle stesse ore la Turchia proseguiva con il pressing:
la procura di Istanbul accusa i sauditi di impedire l’accesso al pozzo
della residenza del console, dove si ipotizza si trovi il corpo
smembrato di Khashoggi. E aggiunge: il giornalista è stato strangolato
non appena entrato in consolato. Ieri sera è poi intervenuto Omar Celik,
portavoce dell’Akp, il partito del presidente Erdogan: l’omicidio, ha
detto, non sarebbe stato possibile senza un ordine dai vertici sauditi.
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