“Qui non c’è posto per gli anziani: perché in Russia non amano i pensionati”, titola MK (Moskovskij Komsomolets), scrivendo che nella classifica mondiale sul livello di vita della popolazione pensionata, stilata da Natixis-Global asset management sui migliori paesi per i pensionati,
la Russia è venuta a trovarsi “a livello spazzatura”. Dei 43 paesi
esaminati, peggio della Russia stanno solo Brasile, Grecia e India,
mentre Turchia, Cina e Messico la sopravanzano. I criteri per la
graduatoria sono: livello di assistenza sanitaria, di pensione, qualità
di vita e benessere materiale. Per fare un pur astratto raffronto, su
una graduatoria stilata da una banca d’affari per la propria esclusiva
clientela, l’Italia è posta al 29° posto, dietro Estonia, Singapore e
Polonia e prima di Ungheria, Lituania e Portogallo. In testa alla
classifica Norvegia, Svizzera, Islanda e Svezia; la Germania è al 7°
posto; USA, Gran Bretagna e Francia rispettivamente al 17°, 18° e 19°.
Secondo Natixis,
sulla bassa aspettativa di vita in Russia incidono le cattive
condizioni ecologiche e il basso livello di assistenza sanitaria;
proprio ciò che un tempo costituiva il fiore all’occhiello del “welfare”
sovietico. Le basse pensioni fanno il resto. Negli ultimi due anni e
mezzo, nota MK, la pensione reale si è ridotta del 2% ed è di una
volta e mezzo inferiore ai salari medi. La pensione media era di 12mila
rubli nel 2016 e, benché superiore al minimo di sopravvivenza (stimato a
9.956 rubli), il 45% dei pensionati non ha potuto permettersi le
medicine. Insieme alla prospettiva, da tempo annunciata,
dell’innalzamento dell’età pensionistica, le generazioni dei nati negli
anni ’80 e ’90, scrive MK, già temono di non vedere affatto la pensione.
Non nasconde la realtà il presidente della Commissione lavoro della Duma, Jaroslav Nilov, che ammette a Interfax
che “Le pensioni sono misere. Siamo finiti tra i cinque peggiori paesi
del mondo: al livello di India, Grecia, Cina, e questo già da qualche
anno”; e aggiunge che, grazie a manovre speculative, molti perdono
quanto accumulato nel passaggio da un fondo non governativo a un altro o
anche dal fondo pensionistico statale a uno non statale. Già qualche
mese fa, la stessa MK scriveva del congelamento, dal 2014, dei fondi accumulati
per la pensione, pur se, a inizio 2017, sono cresciuti del 5,4% (pari
all’inflazione del 2015) gli assegni di 31 milioni di pensionati non più
occupati e di altri 15 milioni di invalidi, veterani di vari fronti,
persone esposte a radiazioni, eroi dell’Unione Sovietica, della Russia e
del Lavoro socialista, ecc.
Sull’altro versante, scrive Anastasia Vlasova ancora su MK,
l’avvocato Jurij Kačan ha fatto causa al Ministro del lavoro Maksim
Topilin, chiedendo spiegazioni circa la colossale disparità di
trattamento pensionistico tra i deputati della Duma e i comuni
cittadini. Nella querela, Kačan chiede su quali basi “sussista una
legislazione separata” che pone i deputati in posizione privilegiata.
L’avvocato si è rivolto al tribunale, dopo che ripetute richieste di
chiarimenti ai competenti organi erano rimaste senza risposta.
Come che sia, secondo il Rosstat,
il Servizio federale di statistica, nei primi cinque mesi del 2017 il
saldo negativo tra nascite e decessi è stato di circa 112.000 unità
(791mila morti e 679mila nascite) quasi triplicando il saldo negativo
del 2016 (41,6mila). Secondo Denis Sukhov, che riporta il dato su KP (Komsomolskaja Pravda)
in 28 regioni del paese i decessi hanno superato le nascite di 1,5-2
volte, mentre la caduta demografica è stata compensata per il 72,2% da
poco più di 80mila migranti nel periodo gennaio-maggio. Anche se non
viene specificato da quali aree questi provengano, si deve supporre che
siano originari di altre Repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Insomma,
sembra che il venir meno della “sicurezza nel domani” – biglietto da
visita della politica sociale sovietica – e anche l’insicurezza
nell’oggi, siano alla base di tali risultati.
Forse
anche per queste ragioni, e per la carenza di sicure e precise proposte
politiche di alternativa al sistema sociale erede dei “malvagi anni
’90”, secondo il non ufficiale Centro Levada negli ultimi tre
anni sarebbe diminuita della metà la popolazione atea, anche se è
precipitata dal 42% del 2005 al 28% attuale la percentuale di chi
ritiene che la chiesa debba esercitare la propria influenza sulle
decisioni governative. Il 58% degli intervistati (purtroppo, non si
evidenziano dati su appartenenza sociale, età, professione, ecc.) la
pensa comunque in modo opposto. Il 92% si dice ben disposto verso la
tradizione ortodossa; a cattolica, protestante, musulmana, giudaica e
alle religioni orientali vanno rispettivamente il 74, 61, 59, 55 e 57%
delle preferenze.
Il
62% degli intervistati rispetta l’opinione degli atei; ma, secondo i
sociologi, continua a crescere il numero di coloro che si dichiarano
“credenti” o “in qualche misura religiosi”: dal 35% al 53% negli ultimi
tre anni. Dal 2014 a oggi si sarebbe dimezzato (dal 26 al 13%) il numero
di coloro che si dichiarano apertamente atei. “Come per il passato,
siamo convinti che la religiosità sia direttamente legata al senso di
stabilità e di sicurezza nel domani... La religione continua a conciliare
l’individuo con il fatto che il nostro ordinamento sia giusto e dato da
dio”, chiosa il sito rotfront.su.
E al quadro aggiunge forse qualcosa anche un’altra statistica: secondo l’ufficiale VTsIOM,
il 62% dei russi è favorevole all’apposizione di targhe, lapidi,
citazioni, busti, che ricordino i successi ottenuti durante l’epoca di
Stalin. Alla domanda sul perché si sia favorevoli, il 57% risponde che
“ciò fa parte della nostra storia e i giovani la devono conoscere”; per
il 18%, “grazie a Stalin, abbiamo vinto nella Grande Guerra
Patriottica”. Per il 9% la ragione è che Stalin ha fatto molto per il
bene del paese; lo ha elevato e reso grande (8%); infine il 5% ricorda
l’ordine che c’era con Stalin, grande leader e grande personalità. Il
65% si è detto contrario all’apposizione di targhe relative agli
insuccessi e alle colpe di Stalin. Il VTsIOM evidenzia una
discreta percentuale di indifferenza: il 33% degli intervistati non
manifesterebbe né chiara soddisfazione né evidente insoddisfazione per
l’apposizione di targhe o lapidi sulla facciata delle abitazioni vicine;
il 42% sarebbe a favore e il 21% contrario.
Ciò ha qualche attinenza con il fatto che, sempre secondo il VTsIOM,
nella Russia di oggi il 10% dei cittadini non ha sufficienti entrate
per gli alimenti e il 29% per i vestiti; complessivamente, allo scorso
maggio, era considerato povero il 39% dei russi (il 54% tra i pensionati
e il 46% tra gli abitanti delle zone agricole). A inizio anno, lenta.ru
scriveva che circa 20 milioni di persone vivevano al di sotto della
soglia di povertà. Da tempo il PCFR denuncia che 72 persone su 100
vivano con un reddito di 15.000 rubli mensili, a fronte di una media
salariale ufficiale che nel 2016 era di circa 36.700 rubli; ma, sembra
che 5 milioni di persone percepiscano salari di 7.500 rubli.
New World Wealth
pone la Russia al primo posto, tra le maggiori economie mondiali, con
il più alto grado di disuguaglianza sociale: sembra che il 10% dei russi
(ma il vice presidente della Commissione lavoro della Duma, Nikolaj
Kolomejtsev, parlava mesi fa del 3%) detenga il 90% della ricchezza
nazionale. Se nel 1931, al termine della prima pjatiletka
staliniana, l’URSS dichiarava scomparsa la disoccupazione, oggi la vice
primo ministro Olga Golodets può tranquillamente ammettere che, su una
popolazione in età lavorativa di circa 87 milioni, “nei settori a noi
noti, sono occupati 48 milioni di individui. Non è chiaro dove siano
occupati, in cosa siano occupati e come siano occupati tutti gli altri”.
Questa è la nuova Russia.
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