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21/07/2017

A Gerusalemme è guerra continua


Gerusalemme è una ferita aperta: divisa, occupata e poi riunificata dall’occupazione israeliana; dichiarata capitale dello Stato occupante, in barba alle risoluzioni ONU e al diritto internazionale, che non riconoscono la decisione israeliana né nella unificazione né nel considerarla capitale.

Ma i governi israeliani, che non hanno mai rispettato il diritto internazionale e le risoluzioni della comunità internazionale, continuano nei loro piani di sottrarre Gerusalemme allo status quo deciso dall’Onu nella spartizione della Palestina storica, e metterla sotto il totale controllo israeliano, in particolare subito dopo la guerra del 1967.

I governi israeliani, e non solo l’attuale governo di estrema destra, non hanno mai rinunciato al piano di ebraicizzazione della città santa. L’occupazione persegue la politica della ebraicizzazione urbanistica del territorio e della confisca urbana – confisca delle terre degli assenti e confisca delle terre per finalità militari/di sicurezza – che ha incluso la confisca delle terre di Gerusalemme Est, ed ha impedito l’espansione dei quartieri palestinesi, trasformando su larga scala le terre circostanti in aree verdi in cui, ai palestinesi, è vietata la costruzione. Ci sono piani strutturali volti ad incrementare la popolazione ebraica attraverso lo sviluppo demografico, e l’acquisto di terreni attraverso il Fondo nazionale ebraico.

Nel mirino dei governi israeliani ci sono i luoghi santi per la religione islamica, cioè la spianata e la moschea di Al Aqsa, terzo luogo sacro per l’Islam, dopo Mecca e la Medina. E’ da anni che si scava sotto i luoghi citati, alla ricerca di una traccia archeologica che provi l’esistenza del Tempio, con il rischio di far crollare la moschea di Al Aqsa.

Inoltre, va avanti la politica di colonizzazione dei territori occupati, compresa l’espansione di Gerusalemme, che ingloba la maggior parte dei villaggi arabi attorno alla città santa, divenuti ormai parte dell’amministrazione di Gerusalemme.

Le provocazioni dei coloni, dei parlamentari e politici israeliani non sono mai cessate dal 2001, quando Sharon, protetto dall’esercito, fece la sua prima passeggiata sulla spianata della moschea, incendiando la seconda Intifada. Sono anni che l’esercito israeliano presidia i luoghi santi e pretende di avere la piena responsabilità della sicurezza di essi.

Per questo Israele non ha bisogno di pretesti per chiudere le porte della Moschea e installare i metal detector e le telecamere fuori e dentro la moschea di Al Aqsa, come è avvenuto a seguito di un’azione armata di tre giovani palestinesi, provenienti dal villaggio di Um EL Fahem, in Israele, uccisi dalle truppe israeliane dopo che avevano sparato a due soldati israeliani nella spianata. I tre giovani non sono venuti né dai territori occupati della Cisgiordania né da Gaza, e nessuna organizzazione palestinese ha rivendicato la paternità di questa azione.

Ma il governo israeliano ha deciso una punizione collettiva con la chiusura dei luoghi santi di Gerusalemme, forse anche in risposta alla decisione dell’Unesco che ha riconosciuto questi luoghi come patrimonio dell’umanità appartenente ai palestinesi.

La protesta dei palestinesi non si è fatta attendere: hanno presidiato la moschea rifiutando di entrare dalle porte di controllo con metal detector, e da una settimana esercitano il culto nelle piazze adiacenti. Una giusta protesta in difesa dei luoghi santi e del diritto di culto.

La protesta dilaga nei territori occupati e anche fra gli arabi di Israele; a decine di migliaia si sono riversati a Gerusalemme, in difesa della moschea di Al Aqsa, in una giornata di collera palestinese, araba e islamica. Una protesta di rifiuto e di rigetto totale dell’idea israeliana di dividere i luoghi santi nel tempo e nel luogo, come è già accaduto ad Al Khalil, “Hebron”, dove la moschea di Abramo è stata divisa, a seguito del criminale attentato di un estremista ebreo che ha sparato ai fedeli in preghiera, uccidendo 43 persone. Malgrado questo orrendo crimine, il governo israeliano decise la divisione della moschea di Abramo.

I palestinesi temono che il governo israeliano intenda ripetere la stessa azione a Gerusalemme, per avere il totale controllo dei luoghi santi nella città. Inoltre, le autorità religiose hanno vietato ai fedeli di entrare nella Moschea di Al Aqsa sotto la protezione dell’esercito occupante, in quanto questo è umiliante per la dignità umana e offensivo per la stessa religione.

La risposta israeliana è molto violenta: arresti e maltrattamenti che hanno toccato le più alte autorità religiose nella Città Santa.

L’azione del governo israeliano viene vista come una gravissima provocazione contro i paesi arabi e islamici, che potrebbe far esplodere una violenza religiosa in tutto il mondo. Il re Abdallah di Giordania, riferiscono i giornali giordani, si è infuriato, in una chiamata telefonica, con il primo ministro israeliano, e gli ha chiesto di togliere di mezzo tutte le nuove installazioni e di ripristinare la situazione precedente all’attentato di venerdì scorso. Va sottolineato che la Giordania ha la responsabilità del ministero per gli affari religiosi nei territori occupati, in accordo con il governo israeliano e con l’Anp.

La gravità e il deterioramento della situazione dipendono unicamente dall’occupazione e dal governo israeliano.

Il quesito che i palestinesi, gli arabi, i musulmani, gli uomini e le donne liberi del mondo pongono è: perché la comunità internazionale non muove un dito per far rispettare il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu, e fermare così uno scontro che sembra inevitabile?

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