Una
delle non molte funzioni utili dei processi giudiziari sta
nell’evidenziare il distacco abissale tra il lavoro di approfondimento
“scientifico” e la divulgazione narrativa, spesso – ma non
inevitabilmente – impressionistica, acchiappa-lettori, immaginifica,
tendenzialmente mitopoietica. Anche le indagini della magistratura si
trovano infatti nella condizione di dover trovare e valutare “indizi”
all’interno dei fenomeni e quindi cercare di risalire a prove, cause,
moventi, ipotizzando che un certo fatto sia classificabile come una
determinata “fattispecie” (un reato con caratteristiche fisse e
ricorrenti, al di là del caso specifico). La disgrazia
dell’investigatore è l’avere a che fare con gli esseri umani, che
cambiano idea, posizionamento, attività, comportamento, fingono,
mentono, nascondono. Insomma, al contrario delle “cose” della fisica o
della chimica, non stanno “fermi” e non si lasciano osservare senza
interagire.
La
disgrazia del giornalista (il “divulgatore”) è invece quella di dover
tradurre in termini narrativi “facili” e al tempo stesso “evocativi” una
serie di fatti e fenomeni, “popolarizzando” una complessità che quasi
sempre sfugge anche a lui. Il povero giornalista ha anche una seconda
disgrazia: dipende da un editore, rappresentato fisicamente da un
direttore e un desk redazionale centralizzato, che pretendono un
narrativa standard e riconoscibile, che usa “parole chiave” valide per
faccende completamente diverse e che dunque non richiedano più una
spiegazione. Che siano
in qualche modo dei “dati acquisiti” su cui non vale la pena di
interrogarsi e, all’atto pratico della scrittura, non diventino uno “spiegone” che annoia un lettore sempre meno capace di concentrazione.
Nella
storia del giornalismo italiano abbiamo una valanga di queste
parole-chiave talmente abusate che ormai non significano più nulla di
concreto. Che funzionano come tag, segnali utili a far scattare il
riflesso condizionato di approvazione o ripulsa: terrorismo, black bloc,
forze dell’ordine, pubblico (negativo) e privato (buono, efficiente),
imprenditore, società civile, classe politica, ecc. E naturalmente
mafia.
“E’
tutta una mafia”, sintetizza il cittadino debole alle prese con
l’assenza di risposte da parte dell’amministrazione cui si rivolge,
oppure davanti alla similitudine dei comportamenti in cui coglie un
pericolo di truffa nei suoi confronti.
Intorno all’inchiesta e alla sentenza per Mafia Capitale
questa distanza tra “lavoro scientifico” e “narrazione popolare”
(mediatica, insomma) è balzata agli occhi in modo solare. Costringendo
tutti – magistrati, giornalisti, opinionisti, classe politica (di ogni
tipo e livello) – ad accorgersi che la parola “mafia” non è usabile per
qualsiasi fenomeno criminale “associato”. Con reazioni decisamente diverse e al limite dell’isterismo (chi ha visto Livio Abbate, de L’Espresso,
nella trasmissione di Enrico Mentana, ha chiaro di cosa parliamo),
perfettamente contrapposte a quelle dei maiali che finalmente possono
ghignare profferendo la frase rivelatrice: “la mafia non esiste”.
Perlomeno a Roma...
Tutto sbagliato, tutto strumentale, tutto giocato sull’uso di parole al posto dei concetti.
Con
la definizione di mafia deve fare i conti anche il capo della Procura
di Roma, che aveva ipotizzato l’aggravante dell’associazione mafiosa per
Buzzi, Carminati e altri coimputati. E dobbiamo dire che con molta
serietà Giuseppe Pignatone ha affrontato il problema davanti alle
domande di alcuni giornalisti di prima fila (Bonini di Repubblica, Bianconi del Corriere, ecc), prendendo il mitico toro per le corna.
“E’
vero. Con questa indagine intendevamo proporre un ragionamento avanzato
sul rapporto tra mafia e corruzione. Per altro, muovendoci nel solco
della più recente giurisprudenza di Cassazione sull’articolo 416 bis.
Ora, il tribunale ha espresso un parere diverso e dunque aspettiamo le
motivazioni per comprendere quale è stato il percorso logico della
decisione. Se si tratta di questioni che riguardano l’interpretazione
del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, o, al
contrario, di una diversa lettura e qualificazione del fatto storico che
il dibattimento ha provato.”
La
contestazione dell’aggravante mafiosa, spiega dunque Pignatone, non
derivava da una incontestabile e conclamata corrispondenza tra il tipo
di associazione messa in piedi da Buzzi e Carminati e la “mafia storica”, ma ha rappresentato il tentativo di “proporre un ragionamento avanzato sul rapporto tra mafia e corruzione”. Perché
nella pratica quotidiana di molte amministrazioni pubbliche – dal
governo centrale all’ultimo ufficio periferico – l’”interesse pubblico” è
stato messo ufficialmente al servizio degli interessi privati. E questo
può avvenire in forme “alte” (privatizzazione di aziende strategiche o
semplicemente redditizie, salvataggio di banche fallite, costruzione di
infrastrutture inutili o sovradimensionate rispetto alle esigenze, gli
acquisti centralizzati dello Stato, ecc), ma anche in forma assai
“basse”, locali, in settori marginali come rilevanza economica e budget
pubblico disponibile (ricordiamo che questo processo ha riguardato
soltanto una fetta del “terzo settore”, incaricato di gestire
“accoglienza” e campi rom, non certo i business centrali della
Capitale).
Ed
effettivamente, dal punto di vista giuridico, si è creata la necessità
di aggiornare l’elenco delle “fattispecie di reato”, delineando quella
più adatta al rapporto perverso tra interessi privati e corruzione di
funzionari o autorità pubbliche. In un certo senso, Carminati e Buzzi
facevano al loro livello (il “mondo di mezzo”) quel che nel “mondo di
sopra” si fa con le attività di lobbying, le pubbliche relazioni, i
finanziamenti alle fondazioni, il passaggio veloce dalle cariche
societarie a quelle politiche (e viceversa). E per cifre assai minori,
pur se decisamente rilevanti ai nostri occhi di poveri lavoratori.
Di
fronte a questo fenomeno diffuso, mortifero per la capacità produttiva
del paese, certamente criminale e da sopprimere, il procuratore
Pignatone e gli altri membri della procura romana hanno proposto di
qualificarlo come mafia.
La corte giudicante di primo grado ha sentenziato che non può essere
inquadrato in questo modo, mazzolando comunque gli imputati con condanne
consistenti.
Lo stesso Pignatone in qualche misura ammette di non esser completamente sicuro della sua “proposta”, perché «Io
stesso ho più volte sottolineato che era una organizzazione ridotta non
in grado di condizionare il governo di Roma Capitale; la costruzione
mediatica di quel presunto dominio non ci appartiene. L’abbiamo
qualificata come associazione mafiosa e continuo a ritenere che quella
costruzione fosse aderente alla realtà». Ma evidentemente i margini di incertezza esistevano anche per lui, ed erano di grande ampiezza.
E’ insomma un
problema giuridico e di legislazione. Se ci fosse una classe politica
meno corrotta la vedremmo probabilmente già al lavoro per redarre una
legge adeguata al fenomeno. Ovviamente, questo immondezzaio preferisce
“cogliere il risultato” immediato: “farsi corrompere non è mafia, dunque
possiamo continuare a farlo, perché rischiamo un po’ meno (e comunque
non il 41bis, quell’orrida tortura carceraria che noi stessi abbiamo
approvato perché fosse applicata ad altri)”.
Ma
la mafia, quella vera e “certificata” dal codice penale, ovviamente
esiste. E sta anche a Roma. Detto fra noi, da quel che vediamo, è anche
in Parlamento e nel governo.
Questa
necessità di distinguere tra livelli e tipi di attività criminali è
però decisamente superiore alle capacità del giornalista medio. Che
dunque riempie pagine e pagine per costruire la più stupida delle
contrapposizioni binarie: o c’è la mafia anche nel caso Buzzi-Carminati,
oppure la mafia non esiste. Oppure, aggiungiamo noi, tu non capisci
cos’è.
Ridurre
i fenomeni a parole-tag è gioco pericoloso. E’ disinformazione pura. E’
costruzione di un immaginario e un vocabolario miserabile, che facilita
il gioco di mestatori, “populisti” e aspiranti dittatori.
Vi sembra eccessivo?
Bene, allora facciamo un parallelo con la parola-demonio per eccellenza: terrorismo.
Se ogni fenomeno violento, in qualsiasi parte del mondo, viene
qualificato come tale – come se la violenza dei bombardamenti
occidentali fosse invece un lancio di caramelle sui civili – si perde la
possibilità di distinguere e dunque di capire (“la distinzione è la potenza dell’intelletto”, spiega Il filosofo).
Il “pensiero unico” neoliberista ha cancellato categorie storiche come guerriglia (addirittura in diverse forme: urbana, di montagna, ecc), guerra di popolo (in un numero pressoché infinito di varianti), lotta partigiana, ecc. Tutto è stato fatto rientrare nel termine terrorismo.
Che a quel punto serve solo ad identificare le azioni violente commesse
dai “nemici”. Anzi, le azioni di quei nemici che non vogliamo nominare e
far riconoscere come tali (sarebbe un “riconoscimento politico”, no?).
Dopo qualche decennio di questo andazzo “narrativo”, ecco che la Storia si vendica proponendo
alcuni esempi emblematici:
a) l’Arabia Saudita che qualifica come
“amico dei terroristi” il Qatar che intrattiene rapporti economici con
l’Iran;
b) Erdogan
che chiama “terroristi” non solo i curdi e gli oppositori interni, ma
anche gli attivisti tedeschi dei diritti umani che inscenano pacifiche proteste in terra turca.
In altri termini, se il giornalismo diventa propaganda genera (o facilita) mostri...
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