Qualche giocoliere della parola, decine di anni fa, scrisse “l’elogio dell’assenza di memoria”. Sembrava quasi un discorso rivoluzionario, perché registrava la rottura della continuità storica del movimento operaio otto-novecentesco e invitava a guardare il futuro senza l’ingombro degli schemi intellettuali passati. Sembrava, appunto.
Era invece un discorso disarmante, complice, assecondante il potere. Il quale, al contrario, conserva attentamente “memoria” di tutto quel che è accaduto in passato, specie sul fronte della lotta sociale e politica. Lo fa con gli archivi, le istituzioni culturali e con quelle repressive; lo fa con le scuole di polizia, le “università” per servizi segreti, con gerarchi capaci di affrontare le soggettività nascenti forti di un’esperienza consolidata, “scientifica” perché depurata di qualsiasi tratto soggettivo o caratteriale. Con il controllo di ogni nuova tecnologia applicata alla schedatura di ogni singolo cittadino, dalla culla alla tomba (i social network stanno lì anche per questo).
Questo saggio di Alexik, pubblicato in questi giorni da Carmilla, ricostruisce il filo conduttore delle prassi repressive italiche emerse quasi “improvvisamente” – sproporzionate e abnormi rispetto al tasso di “rivoluzionarietà” del movimento No Global – in occasione di Genova 2001. Prassi consolidate imprintate dalla monarchia sabauda, sviluppate in controllo di massa dall’Ovra fascista, ereditate senza epurazioni – neppure “culturali” – dalla Repubblica nata dalla Resistenza e oggi implementate, appunto, dalle infinite possibilità messe a disposizione da informatica, social network e big data. Tutti strumenti “tecnico-scientifici” la cui funzione sociale non è in sé positiva o negativa, ma “dipende” – marxianamente – dal loro utilizzo. Ovvero dal tipo di soggetto che se ne serve e dal tipo di obiettivi che si vogliono realizzare.
La ricostruzione di Alexik è paradigmatica di quel che accade quando un “movimento nascente” – senza strutture, gerarchie, memoria, istituzioni indipendenti, visione, strategia, tattica – va al confronto con un potere che possiede tutto quel che all’avversario manca. “Arrivarono a Genova nel luglio 2001 pensando che bastasse la forza dei numeri per contrastare quella dei potenti, o che si trattasse ancora una volta della simulazione di uno scontro.
I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco”.
Immemori, ossia nudi e indifesi fin dal momento in cui – per l’insopportabilità del presente – si è costretti a dire “basta, è ora di fare qualcosa”. Nudi e indifesi perché si entra in un mondo di cui si ignorano le strutture fondamentali, si agisce un conflitto ignorando le regole eterne di ogni conflitto (politica e guerra sono compresenti in ogni momento, in proporzioni che “dipendono” dal contesto), si affronta un nemico (che sa di essere tale) come se fosse un normale avversario politico obbligato a comportarsi secondo i princìpi del bon ton. Un nemico che ha invece alle spalle, anche se ben occultate, centinaia di repressioni di massa, decine di migliaia di omicidi, torturati, imprigionati.
C’è insomma di che riflettere. Ma se incontrate qualcuno che vi preferisce “senza memoria”, che sogghigna mormorandovi all’orecchio che “così non ricordate le sconfitte e sarete più radicali”... beh, vedete voi come allontanarlo. Definitivamente.
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“Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“.
Erano andati al macello inermi, chi con una bandiera rossa, chi con una A cerchiata, chi con la testa piena di fantasticherie democratiche.
Alcuni indossavano una tuta nera, altri patetiche protezioni di gommapiuma, tutti drammaticamente inadeguati a fronte della violenza che gli avrebbero scatenato addosso.
Arrivarono a Genova nel luglio 2001 pensando che bastasse la forza dei numeri per contrastare quella dei potenti, o che si trattasse ancora una volta della simulazione di uno scontro.
I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco. Pochi avevano memoria diretta della gestione della piazza dei tempi di Cossiga, o delle violenze poliziesche di Voghera1.
La quasi totalità non aveva mai conosciuto il carcere, o non aveva fatto sufficiente attenzione a ciò che si muoveva dietro quelle mura.
Dopo l’esecuzione di Carlo, dopo la ‘macelleria messicana’ della Diaz, duecentocinquantadue (ma la stima è incerta) vennero portati alla caserma di Bolzaneto, consegnati nelle mani di polizia, carabinieri, ma soprattutto del GOM (Gruppo Operativo Mobile) della polizia Penitenziaria.
Qui varcarono le soglie di un incubo:
Torturato n° 38, straniero. Offeso, mentre era nudo, rivolgendogli domande sulla sua vita sentimentale e sessuale, veniva costretto a spogliarsi nudo e a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania costretto con la minaccia di percosse con la cintura presa ad altro detenuto, a fare delle giravolte sul pavimento; percosso e ingiuriato con sgambetti e sputi da due ali di agenti mentre transitava nel corridoio.
Torturato n° 47, straniero. Percosso nel corridoio con calci e pugni, percosso nell’infermeria mentre veniva perquisito e sottoposto a visita medica con un pugno al torace, in conseguenza delle percosse riportava la frattura della costola destra, percosso, ingiuriato e minacciato in bagno da due agenti che lo costringevano a mettersi davanti al wc e gli dicevano “orina finocchio”, e minacciavano di violentarlo con un manganello, con lo stesso manganello lo percuotevano all’interno delle cosce procurandogli ematomi, percuotevano ancora con pugni alla testa e alle spalle.
Torturata n° 60, italiana. Accompagnata dalla cella al bagno, costretta a camminare lungo il corridoio con la testa abbassata e le mani sulla testa, colpita da altri agenti con calci, derisa e minacciata, costretta con violenza e minacce a chinare la testa all’interno della turca; insultata con: “puttana”, “troia” e a subire da altri agenti frasi ingiuriose con riferimenti sessuali del tipo “che bel culo”, “ti piace il manganello”, costretta a fare il saluto romano e a dire: “viva il duce”, “viva la polizia penitenziaria”.
Lo stesso incubo vissuto nelle carceri di questo paese.
Fuori dalla caserma le telecamere di tutto il mondo erano puntate sul G8.
Se tale era la fiducia dei torturatori nell’impunità, in un contesto di così forte attenzione politica e mediatica, quali violenze potevano essere capaci di attuare nel chiuso delle galere, lontano da sguardi indiscreti, e su persone completamente in loro potere per lunghissimi periodi di tempo?
Da quale ‘scuola’, da quale ‘brodo culturale’ provenivano quegli agenti?
Su quali corpi si erano allenati prima di arrivare a Genova?
Tradizioni: la violenza nel carcere ‘sabaudo’
“Sono da poco le sette del mattino, passi cadenzati si odono nella sezione, la terza superiore del penitenziario di Volterra... Odo i passi arrestarsi di fronte alla mia cella, la n. 23, lo scatto del pesante passante che blocca la porta, che viene spalancata, innanzi a me due brigadieri ed una decina di guardie, vengo invitato ad uscire, obbedisco, ed in mezzo al plotone mi incammino verso l’uscita.
Faccio una domanda, mi viene risposto che non sono tenuti a darmi delle spiegazioni, replico la domanda, mi informano che debbo essere isolato...
Vengo introdotto in una cella, con un letto di contenzione al centro, mi spogliano completamente nudo intorno ci sono una ventina di guardie. In un istante mi sono addosso con calci e pugni, cerco di coprirmi, grido, chiedo il motivo di quel linciaggio, ricevo altri calci, pugni, con una cattiveria ed una selvaggità mai veduta…”2
Volterra, 19 settembre 1970. Sono passati più di 23 anni dal varo della Costituzione repubblicana, quella che prevede che ‘le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Ne mancano più di trenta ai fatti di Bolzaneto, e gli agenti ‘di custodia’ (così venivano chiamati i secondini prima di essere elevati al rango di polizia penitenziaria) non sono certo gli stessi, ma ciò nonostante il loro modus operandi presenta notevoli analogie.
Non si tratta semplicemente di esercizi di sadismo da parte di personalità frustrate, di deliri di onnipotenza e vigliaccherie gratuite esercitate nel comodo rifugio dell’impunità.
La violenza sui corpi e sulla psiche, anche quando appare immotivata e gratuita, assolve sempre una sua funzione. L’annientamento della personalità del prigioniero è funzionale all’interiorizzazione dei rapporti di potere.
E’ una tecnica disciplinare i cui effetti devono estendersi al di là e al di fuori della permanenza nelle patrie galere.
Nel vecchio carcere ‘sabaudo’, sopravvissuto fino alla metà degli anni ’70 con le sue segrete medioevali e il suo regolamento fascista, la violenza sui prigionieri era connaturata alla filosofia retributiva della pena, dove la pena è considerata un fine in sé, un valore assoluto che non necessita di altre motivazioni. Il carcere non era stato ancora toccato da filosofie trattamentali di recupero del condannato.
“Non esistevano mediazioni o ammortizzatori rieducativi. L’essenziale era punire. Punire e indurre alla rassegnazione quella fetta di popolo che, per una ragione o per l’altra, aveva deragliato dai binari della disciplina sociale”.3
L’uso della violenza sui detenuti era un metodo indiscusso di neutralizzazione della devianza. Indiscusso fino a quando proprio quella violenza non fece da innesco a una lunga stagione di rivolte carcerarie.
“A Poggioreale si pativa la fame, e alla fame c’era da sopportare inoltre un rigore da campo di concentramento di tipo nazista. Alle celle di punizione, per dare un esempio, fui legato sul letto di forza e malgrado dei dolori acutissimi che mi presero allo stomaco non fui visitato da nessuno... Mentre mi legavano ridevano e tiravano le fasce più che potevano.
Il vitto da porci immangiabile, i secondini che trovavano gusto a istigare e oltraggiare fino a quando uno non scoppiava. Veniva quindi portato al palazzo di vetro, così era chiamato il padiglione in cui erano le celle di punizione e i letti di forza. In questo posto le botte erano all’ordine del giorno...
Di questo passo si arrivò al luglio 1968 mese in cui pieni di rabbia ci si rivoltò incendiando e rompendo tutto ciò che ci si parava davanti”.4
Con l’avvento della stagione delle rivolte, la violenza dell’istituzione carceraria non dovette più misurarsi con un insieme atomizzato di individui, con le loro ribellioni individuali intrise di disperazione, ma con una forza collettiva capace di organizzarsi, rispondere contrattaccare. Le rappresaglie sui rivoltosi furono durissime:
“A sera quando cessammo ogni resistenza fummo incolonnati, ci fu impedito di prendere qualsiasi vestito od oggetto personale, dovemmo passare attraverso un cordone formato da celerini e guardie carcerarie, i quali cominciarono a percuoterci selvaggiamente con manganellate, pugni, calci, cinghiate, ed alcuni secondini con catene munite di lucchetto all’estremità… Il pestaggio era cieco e indiscriminato, il livore, la rabbia sadica, la vendetta si abbatteva contro tutti senza alcuna distinzione tra giovani e vecchi e malati ricoverati all’infermeria”.5
“Mentre eravamo massacrati, gli sbirri ridevano e canticchiavano per deriderci. Davanti alle celle mi fecero spogliare completamente, mi ordinarono di piegarmi a novanta gradi ed io compresi la loro intenzione, in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le mani, ma mi ordinarono di non assumere tale atteggiamento, e non appena tolsi le mani una guardia pugliese mi sferrò una scarpata, e svenni...
Nelle celle di punizione... tre giorni alla settimana il vitto consisteva in 200 grammi di pane e acqua... per sfregio ci rapavano i capelli a zero”.6
Ma il tentativo di sedare le sommosse attraverso un intensificazione della violenza non ebbe che l’esito di farle esplodere ancora di più, con un crescendo rivendicativo che partiva dalle richieste parziali (su ora d’aria, colloqui, vitto, isolamento, punizioni...), per estendersi a quelle generali (riforma carceraria, amnistia), fino a riprendersi la libertà con le evasioni7.
Lo Stato decise di condurre lo scontro sociale all’interno delle galere secondo logiche di differenziazione, riservando il pugno di ferro alle avanguardie, e allo stesso tempo avviando un processo di apertura per disinnescare la polveriera delle carceri.
Il 9 maggio del ’74, Carlo Alberto dalla Chiesa guidò l’assalto di polizia e carabinieri per sedare una rivolta nel carcere di Alessandria, lasciando in terra sette morti fra detenuti e ostaggi. Era il segnale di un cambio di fase: le ribellioni non sarebbero più state tollerate.
Contemporaneamente lo Stato portava a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario che sostituiva il vecchio codice fascista, riconoscendo (almeno sulla carta) i detenuti come soggetto di diritto e mitigando (sempre sulla carta) alcuni aspetti della brutalità del carcere.
Veniva inaugurato un modello detentivo di tipo trattamentale che prevedeva un percorso a tappe per il reinserimento del detenuto nella società, una volta depurato dal suo carattere sovversivo, tramite permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, ecc.
Misure che nel medio periodo funzionarono effettivamente per depotenziare le agitazioni nelle carceri ordinarie, fornendo a buona parte dei prigionieri una via di uscita da quelle mura attraverso una gradualità premiale da conquistare con la buona condotta e la propensione al ravvedimento.
La violenza quotidiana nei penitenziari del circuito ordinario acquisì in questo modo nuove possibilità ricattatorie, visto che ogni reazione a un sopruso di un carceriere poteva inibire al detenuto l’accesso ai permessi, o interrompere il percorso verso la semilibertà.
Innovazioni: la violenza nelle carceri speciali
Il modello trattamentale era riservata solo ai prigionieri del circuito ordinario.
L’articolo 90 della Legge di riforma prevedeva infatti la possibilità di sospendere le ordinarie regole di trattamento, quando ‘ricorressero gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza’.
Le misure per l’attuazione pratica di tale previsione di legge vennero affidate direttamente ai carabinieri, in virtù degli ‘ottimi risultati’ ottenuti ad Alessandria.
Dalla Chiesa dispose la creazione di un circuito speciale di prigionia formato dalle carceri più invivibili, preferibilmente nelle isole,8, dove vennero trasferiti i prigionieri ribelli, i militanti della lotta armata e della sovversione sociale di quegli anni, assieme ai detenuti comuni ritenuti più pericolosi.
In pratica dalla Chiesa mutuò, riattualizzandolo, il vecchio modello delle ‘carceri di rigore’ del regolamento del ’31. L’ordinamento penitenziario fascista che sembrava fosse uscito dalla porta, rientrava così dalla finestra.
Il rigore era attentamente garantito.
All’Asinara “il cibo era insufficiente, disgustoso, indigesto. L’acqua corrente non risultava potabile e aveva gli odori e il colore dei liquami da fogna. Le celle erano umide e prive di riscaldamento. Le docce si facevano ogni 15 giorni e le lenzuola venivano cambiate una volta al mese, se andava bene. Questa disciplina rigidissima era imposta a colpi di manganello. Bastava scambiare una parola con i detenuti delle altre celle per essere selvaggiamente aggrediti dalla squadretta di turno“.9
L’assistenza sanitaria era inesistente: “Fabrizio Pelli, delle BR, contrasse la leucemia a Fornelli, ma il medico del carcere si guardò bene dal diagnosticarlo, condannandolo scientemente a una morte terribile“.10
La sicurezza esterna era affidata ai carabinieri sotto il comando di dalla Chiesa, che potevano intervenire anche all’interno della prigione con ampia autonomia, sedando eventuali rivolte tramite il GIS (Gruppo di Intervento Speciale), corpo speciale nato per l’occasione. Ma la gestione ordinaria della violenza all’interno dello speciale era affidata ancora ai secondini.
“Di notte le guardie si impegnavano per non farci dormire. Tenevano le radio accese a tutto volume. Sbattevano i manganelli contro le porte blindate delle celle e facevano scorrere le canne dei mitra sulle sbarre delle finestre. Di giorno le grida, gli insulti e le minacce si sprecavano, conditi talvolta da qualche colpo di arma da fuoco sparato in aria a scopo intimidatorio. Le perquisizioni corporali erano continue, venivano ripetute più volte al giorno e sempre con il rito dello spogliarello integrale e delle flessioni sulle ginocchia. Le ispezioni nelle celle erano occasione per fare scempio dei pochi effetti personali consentiti ai detenuti, e spesso si concludevano con dei pestaggi somministrati per un nonnulla“.11
Anche ai familiari in visita negli speciali erano destinate particolari vessazioni:
“La guardia di custodia voleva perquisirmi con la mano incorporata all’interno, con la mano nella natura. Allora gli dissi “Prima di farmi questa visita dammi il regolamento carcerario, per vedere se è ammesso dalla legge”. “Noi facciamo quello che vogliamo, se no i colloqui non li fai”. Mentre mi ribellavo arrivarono il brigadiere, il vice brigadiere, e tutte queste guardie di alto grado che cominciarono a spintonarmi fuori“.12
“...ricordo che faceva un freddo terribile, mi fecero entrare in una stanza gelida e mi fecero spogliare e accoccolare per vedere se usciva qualcosa dalla vagina, ebbi una perquisizione corporale, cioè una visita ginecologica. Erano metodi studiati per spaventarti e intimidirti”.13
Eppure i secondini sapevano che a questo tipo di violenza sessuale sarebbe seguita l’ulteriore violenza dei vetri divisori nei colloqui, che impedivano ogni possibilità di passarsi qualcosa. Oltre ad ogni legame corporeo, ad ogni contatto affettivo.
Ancora una volta, comunque, nulla veniva lasciato al caso.
La violenza dei guardiani era funzionale alla creazione di pentiti, o in subordine, in mancanza di ‘pentimento’, all’annientamento del nemico.
Se nel vecchio carcere ‘sabaudo’ l’obiettivo era l’annullamento dell’identità personale del prigioniero, ora si lavorava per sconfiggerne l’identità politica.(Continua)
Note:
1) Il 9 luglio del 1983 veniva indetta a Voghera, sede di un supercarcere femminile, una manifestazione per la chiusura delle carceri speciali. La maggior parte dei manifestanti in arrivo venne bloccata al casello dell’autostrada. Al corteo venne vietato di partire e intorno alle 16 la celere ebbe l’ordine di caricare preventivamente . Questa la situazione nel racconto della madre di un detenuto politico: “La polizia era una mare. Caricò duecento persone. Arrivarono i lacrimogeni. Scorreva sangue. Cercavo di aiutare le donne cadute a terra. Davanti al comando della polizia mi presero a bastonate per allontanarmi… Chi fuggiva veniva arrestato, chi restava prendeva solo manganellate. Abbiamo salvato gente da terra con il sangue che scorreva. Presi in braccio due-tre persone e le misi nella macchina di mio marito, con il sangue che scendeva”. In: P. Gallinari, L. Santilli,Dall’altra parte. L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, 1995, p. 84.
2) Lettera di M.Z. in: Irene Invernizzi,Il carcere come scuola di rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, pp. 107/108.
3) P. Abatangelo,Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni ’70, Edizioni DEA, 2017, p. 57.
4) Lettera di C.R. in: Irene Invernizzi, op.cit, pp. 120/121
5) San Vittore, dopo la rivolta dell’aprile 1969. In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 274.
6) Trasferimento degli insorti di San Vittore alla colonia penale di Mamone (NU). In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 279.
7) Nel 1974 evasero 221 detenuti dalle carceri italiane, nel ‘75 furono 300, nel ‘76 443.
8) Inizialmente vennero scelte le carceri di Pianosa, Asinara, Favignana, Termini Imerese, Badu ‘e Carros.
9) P. Abatangelo, op. cit., p. 176
10) Idem.
11) Idem.
12) P. Gallinari, L. Santilli, Op cit., p. 77.
13) Ibidem, p. 90
Fonte
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