La questione della “forza” si pone non solo come caratteristica diretta dell’organizzazione politica ma forza in quanto capacità di organizzare e, dunque, di rappresentare una classe, un blocco sociale. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista” se non è radicata nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro comunista se non si fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse” concretamente esistenti. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su un interlocutore di massa reale o è sbagliato o è “detto” in modo incomprensibile.
Alla disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto di classe; pensare di farlo partendo solo dalla “politica”, magari intesa nella sua dimensione più autonoma e astratta, significa continuare a seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è invece un compito cui nessuno si può sottrarre. Noi per primi, ovviamente. E’ partendo da questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione da contestualizzare nel quadro complessivo che abbiamo cercato di tracciare.
Se la questione posta nel capitolo precedente sul partito di quadri è fondamentale, altrettanto importante è la “funzione di massa” che questo deve saper svolgere, in quanto, seppure è evidente la difficoltà dei comunisti di riprodurre nella società attuale l’egemonia dei decenni passati, sia per responsabilità soggettive che per condizioni oggettive, vanno comunque individuati e ricostruiti gli snodi del rapporto con la più ampia parte della società così come è oggi, diversa da quella che è stata nei precedenti periodi del conflitto di classe. Lavorare per ridare una rappresentanza politica alle classi subalterne, distrutta dai processi di riorganizzazione capitalistica, supportare ed organizzare il conflitto sociale e sindacale nelle molteplici e disgregate forme che oggi manifesta, ridare un ruolo ai giovani in una società che li vuole senza futuro, questi ed altri sono i terreni di ricostruzione che devono affrontare le organizzazioni comuniste; terreni propedeutici anche a produrre una diversa visione del mondo e delle possibilità di superamento della profonda crisi attuale.
“Funzione di massa” intesa non come semplice orientamento politico da fornire a chi oggi è immerso nelle contraddizioni, orientamento reso impossibile dagli “apparati ideologici dello Stato”, dalla scuola ai mass media, ma come intervento diretto di organizzazione del conflitto di classe con le forme adeguate a tutti i suoi articolati livelli di espressione. La politica così come l’abbiamo intesa nei decenni passati non esiste più, il conflitto rivendicativo permane ma i rapporti di forza tra le classi sono troppo sfavorevoli ai lavoratori. Si riconferma pertanto l’indispensabilità della progettualità in funzione e per la costruzione diretta e non formale dell’organizzazione di classe, in sostanza per dare corpo a quell’accumulazione delle forze che è l’unica possibilità di modificare i rapporti sociali.
1) I “tre fronti” del conflitto di classe e la ricomposizione.
Se parliamo di partito e organizzazione politica, il dato da cogliere è quello della sintesi degli elementi strategici, ma se parliamo di rapporto di massa prevale la complessità delle figure sociali esistenti e la necessità di individuare le attuali modalità organizzate del rapporto politico e sociale. Anche su questo piano ci sembra che ci siano state delle discontinuità che vogliamo proporre e discutere. Non ci sembra, infatti, adeguata una continuità automatica sul ruolo del partito e sulla sua azione rispetto a quella che era stata la fase precedente fino al 1991, protrattasi anche negli anni successivi. Fase che aveva visto nel partito di massa il punto più avanzato di sintesi dei progetti di trasformazione sociale. Sintesi che riguardava la stessa prospettiva della trasformazione, mantenuta come orizzonte anche dal PCI, la rappresentanza politica e parlamentare e la rappresentanza sindacale in cui la CGIL aveva un ruolo centrale. Questa funzione di sintesi dell’organizzazione politica di massa era valida sia per il PCI che per le diverse organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, emerse dopo il ciclo di lotte del ‘68/’69, nonostante il durissimo scontro sulle linee politiche. Quella fase di profonda trasformazione della società italiana fu attraversata da un conflitto di classe generalizzato ma anche da una ricca elaborazione teorica e culturale che in quel contesto definì con chiarezza profili e strategie politiche.
Il punto di fondo che segna la differenza è che la sconfitta storica avuta ha portato allo scompaginamento di quei tre fronti che per tutto il ‘900 avevano trovato una sintesi politica ed una capacità di azione e trasformazione nel partito. Si tratta del piano teorico-strategico relativo ai comunisti, quello politico e istituzionale e quello sindacale-sociale; se vogliamo possiamo dire che lo scompaginamento prodotto è stato paragonabile ad una sconfitta militare che ha obbligato l’esercito in rotta ad una ritirata strategica e ad una riorganizzazione che non poteva presupporre di nuovo e in tempi rapidi battaglie campali.
Riproporre invece il partito di massa così come era stato precedentemente costruito, non fare i conti con gli effetti ideologici sulla classe degli eventi di quegli anni, oltre che con le caratteristiche delle modifiche strutturali; concepire il rapporto di massa dell’organizzazione politica come semplice “cinghia di trasmissione” o, peggio ancora, come rapporto elettoralmente strumentale, significava essere fuori dalla nuova realtà maturata in quegli anni di crisi e inconsapevoli degli effetti reali delle brutali dinamiche che avrebbero agito a livello internazionale. Non a caso non aver preso atto della profonda modifica del contesto ed aver pensato di poter procedere per “coazione a ripetere” ha portato alla sconfitta nelle battaglie campali che di volta in volta sono state tentate, da quelle elettorali al movimentismo sindacale e sociale fino alla disgregazione attuale.
In questo senso ci sentiamo di proporre all’attenzione e alla discussione, e anche alla critica, la convinzione cui siamo arrivati in quegli anni, ovvero che la sconfitta, che ancora permane, richiede un processo di ricomposizione della classe che non può essere direttamente “politico” così come è stato concepito fino alla crisi politica della sinistra italiana nel 2008. Ciò richiede, invece, nel nostro paese e, ci sembra, anche nel resto dell’Europa un’articolazione organizzata sulla base dei tre fronti del conflitto di classe sopra richiamato. In un tale processo di ricomposizione pensiamo che il “fronte” politico, che abbiamo definito anche come Rappresentanza Politica del blocco sociale, e quello sindacale-sociale debbano avere una loro specifica progettualità; in relazione ovviamente con un progetto di trasformazione rivoluzionaria della società. Progettualità che abbia anche una sua autonomia e capacità di organizzazione e rappresentazione che oggi non può essere, nel cuore dell’imperialismo europeo, direttamente rappresentata dall’identità comunista dati i rapporti di forza e la storia recente di questa parte del mondo. Il ruolo dei comunisti in questo assetto politico e sociale non può che essere quello di dimostrare la propria capacità di essere direzione sostanziale dei processi di ricomposizione ovvero di “accettare la sfida”; non ci sono risposte formali sul ruolo dei comunisti, o questi sono capaci di essere elemento progressivo per una prospettiva di classe oppure oggi non basta definirsi comunisti per aver riposta la fiducia delle “masse”.
L’eventualità che le crisi non generino eventi rivoluzionari non giustifica l’abbandono del piano alto della trasformazione radicale e delle potenzialità per la costruzione di una fase di transizione verso il socialismo. Al contrario oggi più che in passato si pone con maggiore forza la necessità di “volare alto” ma con i piedi saldamente piantati a terra, nella materialità delle cittadelle imperialiste in cui viviamo. Proprio la prassi gramsciana ci ha insegnato che i tre fronti in cui si articola il processo rivoluzionario non possono essere slegati dalle condizioni in cui si trovano a convivere ed entro le quali agiscono le forze che si battono per il superamento del capitalismo.
Va detto anche che questo quadro, che per noi ha valenza da diverso tempo, sta subendo delle evoluzioni in base all’incedere della crisi che, divenendo ancora più brutale ed eliminando i terreni di mediazione possibili, tende a politicizzare sempre più i conflitti e le contraddizioni obiettive. Questo è un passaggio che allo stato attuale, in base a nostre valutazioni, non modifica ancora l’idea dell’articolazione organizzata dei tre fronti ma certamente ci spinge ad indagare verso una possibile ricomposizione, che per ora è sul piano della politica ma è importante perché crea le condizioni per un processo di unificazione del conflitto e dunque della prospettiva.
In concreto la costruzione dell’Unione Europea sta producendo i terreni di unificazione potenziali visto che una sintesi effettiva è possibile solo con una soggettività, per noi comunista, che abbia coscienza dei processi complessivi. Tale processo, infatti, ha difficoltà a maturare spontaneamente, direttamente dal conflitto sia politico (vedi il malessere generale che spinge ampi settori sociali anche di classe verso la destra populista) sia sociale/sindacale (che spesso tende a ripiegarsi nello specifico vertenziale che non può che portare all’impotenza o alla sconfitta).
2) Organizzazione e coscienza di classe.
Il termine Organizzazione in questi ultimi decenni è stato vissuto come questione organizzativa, nei migliori dei casi come strumento per fare politica nelle campagne elettorali. Si è perso il significato profondo di organizzazione di classe, che è un processo indipendente interno alla classe, è infatti la costruzione di quel tessuto connettivo che poi è in grado di agire nel conflitto e che ha determinato i processi storici. La riduzione, avvenuta anche tra i comunisti, del concetto di organizzazione a puro significato strumentale non può essere rimosso da una riflessione critica sul rapporto tra comunisti e classe e per questo vogliamo tentare un passaggio teorico complesso che cerchiamo di rendere più sintetico possibile per non appesantire troppo il presente documento.
Il rapporto tra organizzazione e coscienza di classe è una relazione fondamentale per affrontare la questione della soggettività. La coscienza di classe, nell’attuale perdita generale dei riferimenti teorici, è vissuta nella migliore delle ipotesi come elemento valoriale, di concezione generale mentre in realtà per poter sopravvivere ed affermarsi deve radicarsi nel corpo della classe, come elemento concretamente esistente ed operante nel continuo conflitto con l’egemonia borghese. La coscienza non è solo un dato sovrastrutturale ed identitario, essa va compresa nel profondo legame che ha con le contraddizioni della società capitalista. Ci interessa mettere a fuoco la percezione soggettiva della classe, cioè di come le classi subalterne vivono le relazioni sociali in questa realtà, se questa condizione porta ad una presa di coscienza collettiva, oppure se, al contrario, ciò non avviene. Analizzare questo aspetto è un passaggio fondamentale per capire poi come l’organizzazione politica, il partito, debba svolgere concretamente la sua funzione.
Nell’affrontare l’aspetto della soggettività del proletariato dentro questo processo storico, bisogna definire innanzitutto, con una certa precisione, cosa si intende per coscienza collettiva ovvero per coscienza di classe. Una coscienza politica di classe presuppone che un individuo si riconosca non solo come tale ma anche come appartenente ad un raggruppamento sociale, che ha gli stessi interessi materiali, che svolga lo stesso ruolo sociale e che abbia un’idea generale e definita del mondo e del suo sviluppo. La manifestazione di una tale appartenenza non significa solo avere una visione del mondo specifica ma implica anche l’esistenza di una base unitaria la quale può, appunto, generare un orientamento unitario e dunque il nesso tra base e rappresentazione del mondo, e quindi coscienza, è ineludibile. Quando noi parliamo di indipendenza della classe, dobbiamo allora individuare qual’è la base indipendente che produce una coscienza indipendente.
Dobbiamo comprendere se nella produzione socializzata, sempre più socializzata, il proletariato può trovare una sua base materiale indipendente; per questo c’è bisogno di individuare il percorso teorico da seguire. Il primo dato è che il Mercato, soprattutto nella fase di autonomizzazione del capitale finanziario, assume oggi un valore generale, oggettivo di riferimento; il secondo è che il proletariato è parte interna, integrata del sistema di produzione e riproduzione, e non ha spazi di esistenza indipendenti nella produzione capitalistica generale. Inoltre questa “parte interna” della produzione è una parte penalizzata dallo sviluppo capitalista e sottoposta a pressioni di ogni tipo. Possiamo dire che questo genera contraddizioni concrete, anche fortissime in alcuni momenti storici, però non fornisce quella base indipendente che possa essere il punto di partenza per una propria visione indipendente del mondo. Il proletariato è tutto interno al sistema di produzione capitalistico sia sul piano sociale che su quello tecnico. La “sussunzione”, cioè la subordinazione, del lavoro al capitale diviene da formale a reale dentro il processo storico. Per un approfondimento su questo punto rinviamo al nostro testo pubblicato nel 2011 titolato “Coscienza di classe e Organizzazione”.
L’operaio professionale della fine dell’800, che ha un ruolo determinante nella produzione e che “usa” le macchine, viene soppiantato dall’operaio di linea che è meno qualificato e che viene “usato” dalle macchine. Anche quello che ora viene definito lavoro autonomo, nelle sue varie forme, è sempre più subordinato sul piano produttivo e finanziario al capitale nella sua fase di “autonomizzazione”. Dunque non solo il proletariato non ha basi materiali indipendenti ma anche coloro che sembravano averne sono sempre più sottoposti alla pressa del capitale finanziario.
D’altra parte l’accelerazione dello sviluppo scientifico e tecnologico, quale tendenza irreversibile, presuppone una sempre più completa integrazione del lavoro in genere, sia esso operaio, qualificato o intellettuale, nella complessa divisione sociale della produzione. Questa condizione materiale porta alla conclusione che se è vero che le contraddizioni dello sviluppo capitalistico possono spingere la classe ad un conflitto sociale non è affatto scontato che queste stesse contraddizioni generino direttamente una coscienza di classe, cioè una concezione generale alternativa.
Questa valutazione non nega affatto la funzione delle contraddizioni e del conflitto sociale spontaneo che ne scaturisce, anzi senza questo nessun processo di trasformazione sarebbe possibile né alcuna soggettività potrebbe mettere in moto tali processi. Inoltre più queste contraddizioni sono evidenti ed insopportabili e più un processo rivoluzionario può essere innestato. Quello che invece ci sembra sia chiaro è che dalle sole contraddizioni materiali non può uscire un’alternativa complessiva e, dunque, un progetto razionale conseguente. Ciò che intendiamo dire forse può essere più chiaro se facciamo rapidamente riferimento allo sviluppo storico della borghesia e della sua affermazione. La borghesia non nasce come un prodotto interno al modo di produzione schiavistico/medioevale ma nasce come raccordo “esterno” tra le società medioevali; la posizione del primo borghese, cioè del mercante, non era interna alla produzione, come quella del contadino sfruttato che produceva, ma ricopriva una funzione esterna di collegamento tra varie società chiuse su se stesse, cioè era una borghesia mercantile, di scambio, legata solo alla circolazione della merce.
Questa “rendita” di posizione ha permesso l’accumulazione storica del capitale che è passato attraverso varie fasi; dapprima ancora come esterno alle società ma con una funzione sociale e politica sempre più forte. Basti pensare al ruolo dei banchieri presso le monarchie nazionali tra il Cinquecento ed il Settecento. Successivamente il capitale, con lo sviluppo delle forze produttive e dunque dell’aumentata divisione sociale del lavoro, è penetrato all’interno di quelle società e le ha rivoluzionate fino a condurle al definitivo superamento del vecchio modo di produzione. La Borghesia come classe ha avuto il “vantaggio” storico di avere una sua base materiale indipendente sulla quale ha costruito non solo il potere reale ma anche una concezione del mondo. In conclusione se la Borghesia ha sviluppato la propria indipendenza in base ad una condizione storica e materiale ben definita per il proletariato questo non è affatto dato, una sua crescita indipendente deve seguire necessariamente percorsi diversi e più complessi in quanto la propria funzione produttiva non vede ambiti autonomi di esistenza.
Fin qui abbiamo sviluppato una riflessione teorica, certamente insufficiente, che per essere spiegata in modo più chiaro deve essere, per un momento, tradotta in termini politici. D’altra parte i processi complessivi dell’ultimo quarto del ‘900 sono stati così radicali e veloci che ci forniscono l’occasione di verificare sul piano politico e concreto alcune affermazioni teoriche, sia per quanto riguarda i processi interni al capitale sia per quelli che definiscono il rapporto tra contraddizioni e coscienza della classe.
Nel presente livello di sviluppo capitalista qual’è la reazione delle classi subalterne sottoposte alle contraddizioni materiali che tale evoluzione produce? Nel dare una risposta a questa domanda va tenuto ben presente che parlare di classe non significa parlare solo del proletariato dei paesi sviluppati ma fare riferimento ad una classe ormai dislocata a livello internazionale; una classe che comprende anche quei popoli che, fino a ieri, erano considerati coloniali e del terzo mondo e dunque di fatto in gran parte esterni alla produzione capitalistica. Questa nuova condizione materiale, organica e internazionale, della classe esprime oggi contraddizioni molto più forti e violente di ieri; infatti paesi interi vengono devastati socialmente e militarmente, gli ex paesi socialisti hanno visto un arretramento generale ed anche il proletariato dei centri imperialisti vede peggiorare le proprie condizioni di vita.
Oltre a ciò possiamo constatare come ormai decine di paesi siano oggetto degli interventi militari degli stati imperialisti; con quale livello di coscienza reagisce questa classe internazionale? E ancora, perché di fronte ad un attacco sistematico al reddito diretto ed indiretto nei paesi sviluppati non si crea una reazione non diciamo rivoluzionaria ma almeno decisamente democratica e radicale a proposito dei diritti sociali? Ed infine, perché nei paesi ex socialisti dove si assiste a derive di carattere fascista e dove quasi dappertutto è ormai chiaro che il peggior socialismo è più umano del miglior capitalismo da loro attuabile, non si genera una qualche risposta politica di massa? Potremmo continuare a lungo con le domande e gli esempi ma il dato che emerge è che nella fase di sviluppo finanziario del capitalismo la classe reale, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, non crea opposizione politica generale ma si esprime su conflitti specifici, rivendicativi e corporativi, che spesso vengono utilizzati dai movimenti della destra populista o, a livello internazionale, dall’imperialismo sotto forma di conflitti etnici o religiosi.
Questa arretratezza così profonda, improvvisa ed inaspettata va però spiegata in modo più convincente. Non siamo solo di fronte ad uno “sbandamento” dovuto ad una sconfitta ma il crollo della coscienza di classe, soprattutto nell’occidente capitalistico, è legato alla disgregazione di tutta l’organizzazione sociale articolata e capillare che una lunga fase rivoluzionaria aveva sedimentato nel corpo del proletariato. La perdita di coscienza collettiva, nonostante l’aumento delle contraddizioni a tutti i livelli, è stata determinata dalla distruzione organizzativa nel tessuto del proletariato causato anche dal disarmo politico delle forze che avrebbero dovuto quantomeno garantire la resistenza alla reazione. Affermare con chiarezza questa impostazione significa riconoscere il nesso diretto tra coscienza ed organizzazione sociale e politica stabile nella classe, che è l’unica concreta base materiale unitaria che il proletariato non può trovare nello specifico della produzione capitalista; ma significa anche capire che un processo di ricostruzione non può che essere un lavoro di lunga lena in cui i comunisti ritrovano il loro spirito militante. In questo ragionamento si chiarisce anche l’affermazione leninista, spesso letta in modo ideologico o strumentale, che la coscienza viene dall’esterno; esplicitata nel "Che Fare?" l'affermazione intendeva sostenere che la conoscenza viene dall’esterno della sola dimensione economica del lavoratore e non dall’esterno della classe.
Nell’affrontare la questione delle classi dal punto di vista della coscienza, determinante ai fini della politica, la situazione è ancora più complessa, infatti nella nostra società può accadere, e accade, che ad una condizione proletaria corrisponda una percezione di se stessa del tutto opposta. Questo è possibile perché chi appartiene alle classi dominanti è libero quanto vuole, mentre chi appartiene alle classi subordinate è libero quanto può, cioè quanto gli permette la società anche sul piano ideologico, ovviamente non in modo meccanicistico. Infatti il controllo dei mezzi di informazione e di formazione non è altro che una forma di lotta di classe “dall’alto” finalizzata a perpetuare la “falsa” coscienza delle classi subalterne.
La coscienza di classe è perciò anzitutto la rottura di questa “gabbia d’acciaio” che abbandona la dimensione individuale per ricollocarsi dentro una prospettiva collettiva in cui l’organizzazione politica della classe in lotta e la pratica della solidarietà sono la condizione fondante. Questo è un principio importante in quanto se nella realtà materiale e “naturale” l’unico livello di coscienza dato è quello corporativo, per acquisire la coscienza collettiva non basta un enunciato politico giusto, una visione etica della realtà o un’ iniziativa di lotta o una serie di iniziative ma è necessaria un'organizzazione stabile della classe, interna alla classe reale che esiste in un dato paese, che sappia far crescere, con la pratica e la solidarietà, la coscienza. Questo dato assume ancora più rilievo se si analizza l’aumentata complessità e frammentazione della classe nelle attuali società avanzate dove il vecchio blocco sociale, operai e contadini, è stato sostituito da una molteplicità di figure sociali e lavorative che pure non perdono la loro caratteristica di fondo dipendente e subalterna.
Ad una maggiore differenziazione sociale deve corrispondere una maggiore capacità di astrazione per trovare i nessi unitari nella frammentazione sociale, ed una maggiore, più forte capacità di organizzazione soggettiva per fornire la base materiale indipendente per la crescita della coscienza di classe. Non possiamo dare per scontato nessun “orizzonte” comunista e nessuna evoluzione “naturale” se non si dà il giusto peso al ruolo dell’organizzazione, e dunque del partito, nella ricostruzione di una coscienza politica della classe “qui ed ora”; così come oggi materialmente si manifesta in relazione al livello di sviluppo generale, alle “nuove” contraddizioni ed alla dimensione nazionale e sovranazionale.
3) Classe, Blocco sociale e la necessità dell’Inchiesta.
Il confronto che stiamo proponendo, ovviamente, non ha solo un obiettivo teorico; se infatti parliamo di “funzione di massa”, di organizzazione della rappresentanza politica ma anche di quella sindacale/sociale, dobbiamo anche individuare i settori di classe e quelli più genericamente sociali a cui è possibile fare riferimento per tali progetti. Non si tratta di fare l’elenco ma di analizzare le condizioni generali di questi settori e poi cominciare a capire come operare verso l’organizzazione di questi ambiti partendo, per quanto ci riguarda, dall’approccio definito nella parte precedente nel rapporto tra organizzazione e coscienza.
Nel porci questi obiettivi dobbiamo partire da alcune condizioni che oggi condizionano l’insieme dei nostri “interlocutori”, il primo è indubbiamente la complessità dei centri imperialisti in cui viviamo ed in cui i processi di riorganizzazione sono a tutti i livelli incessanti. Questa complessità non è un fatto nuovo ma procede da decenni, dati processi produttivi e sociali sempre più complessi. Dall’alleanza operai-contadini, così come è stata concepita fino agli anni ’60, si è giunti alla internazionalizzazione della produzione ed alla terziarizzazione dell’apparato produttivo. Questa complessità delle società capitaliste entra dentro le relazioni sociali e di lavoro e le rende sempre più frammentate, precarie e subalterne e dunque il problema si pone proprio a partire dai posti di lavoro. L’altra condizione di cui tenere conto è che tale frammentazione porta alla subalternità che non ha solo un aspetto materiale, di ricatto, ma anche ideologico in quanto l’assetto di potere attuale usa in modo scientifico gli strumenti di informazione e formazione a propria disposizione per condizionare non solo gli atti ma anche il pensiero dei propri potenziali antagonisti.
In questo senso non è sufficiente fare “l’elenco” di massima dei settori di riferimento ma è necessario un lavoro di indagine e di analisi per cogliere condizioni concrete, contraddizioni e visioni del mondo, per capire poi come procedere nell’organizzazione concreta dei settori e del blocco sociale. Comunque è necessario definire gli ambiti a cui ci rivolgiamo e su questi fare un confronto su come sia possibile avvicinarli a ipotesi politiche ed organizzative alternative all’ideologia dominante.
La cornice dentro cui svolgere questa funzione, intesa soprattutto come costruzione di movimento politico che mira a rappresentare una parte della società, è la lotta contro l’Unione Europea nei termini in cui la stiamo conducendo assieme ad altre strutture e militanti con la Piattaforma Sociale Eurostop; essa ha ora la forma del fronte politico-sociale che probabilmente è la più realistica per condurre in questa fase una battaglia dove il discrimine della rottura dell’Unione Europea produce a sua volta una rottura, salutare, in una sinistra abituata a viaggiare nelle ambiguità.
Ma sono fondanti per una simile prospettiva i processi di organizzazione dei settori sociali che vengono penalizzati dallo sviluppo attuale impresso dalla UE. Rimane al centro il mondo del lavoro nelle sue molteplici sfaccettature, dal lavoro stabile a quello precarizzato in mille modi. Le fabbriche del nostro paese nelle loro diverse dimensioni, sebbene non abbiano la funzione politica dei decenni passati, sono un riferimento importante in quanto l’Italia è ancora il secondo paese manifatturiero in Europa. Come sempre più peso assume la forza lavoro nella logistica, nella circolazione e nella commercializzazione delle merci in quanto è questo il settore su cui il capitale nei paesi imperialisti può realizzare i profitti. Come pure la comunicazione ha i suoi “operai fordisti” nei call center messi in produzione spesso in condizioni di schiavismo. Né possiamo dimenticare l’esercito industriale di riserva che riguarda i giovani, il sud ed infine gli immigrati i quali svolgono un ruolo produttivo e ideologico che è oggi un vero e proprio campo di battaglia strategico tra due contrastanti interessi di classe e tra due diverse concezioni delle relazioni sociali.
In questo accentuato sfruttamento del lavoro troviamo appieno non solo il lavoro manuale ma anche quello intellettuale, anch’esso oggi sussunto alle necessità del profitto; le qualifiche superiori vengono anch’esse rese subalterne e senza una vera professionalità che viene assunta invece dal sistema produttivo nel suo complesso. La ricerca scientifica, ad esempio, viene parcellizzata e ridotta agli interessi privati, gestiti dalle grandi società, spesso multinazionali, penalizzando professionalità che invece ci dicono tutti i giorni essere fondamentali per il sistema Italia. In questo tritacarne lavorativo rientra in pieno la questione dei giovani e delle loro prospettive sempre più scarse; non è un caso che venga sottaciuto dai mezzi di comunicazione di massa che l’emigrazione, soprattutto giovanile, nel nostro paese ha raggiunto ormai i 5 milioni di persone.
La sempre maggiore importanza che il fattore “conoscenza” assume a partire dagli anni ’80 porta a un’espansione globale senza precedenti che attraversa cultura, geografia e classi, estendendo il dominio sociale oltre la sfera della produzione. Di fronte a simili sconvolgimenti, tutte le teorie economiche, da quelle classiche, alle neoclassiche, alle keynesiane non si adattano alle dinamiche dello sviluppo nella produzione delle conoscenze.
Ragionando da una prospettiva marxiana, il lavoro è sempre lavoro astratto, determinante del valore della merce, ma sempre indistinto e indifferenziato. Da questo punto di vista la conoscenza è classificabile come lavoro complesso o, nelle parole di Marx, come lavoro semplice potenziato che si include al processo di produzione con un elevato grado di produttività e dunque di competitività.
È vero, c’è il rischio che perfino nella sinistra di classe si cominci a parlare di post-capitalismo, sostanzialmente rinunciando al ruolo di forza rivoluzionaria credendo che la società della conoscenza e della comunicazione deviante – allo stesso modo di ciò che alcuni sostenevano con la società del Welfare State – sia di per sé stessa già una forma di superamento del capitalismo e della logica del profitto. Dobbiamo pertanto ribadire che la terza rivoluzione industriale si mantiene e anzi è interna e necessaria al modo di produzione capitalistico; la società neoliberista della conoscenza è, in poche parole, una società peculiarmente capitalistica che si caratterizza per aver sottomesso l’attività spirituale dell’uomo alla relazione mercantile. La produzione di conoscenza risulta così essere nient’altro che produzione di merce; la conoscenza diventa valore-lavoro al pari dell’applicazione di energia umana fisica.
Nei tempi della fallace teorizzazione della “società liquida”, particolarmente importante diventa studiare la reale composizione e articolazione della classe e della massa che deve porsi il ruolo storico di prendere il potere. La domanda è con quali classi e frazioni di classi intendiamo costruire il blocco sociale antagonista. E’ impossibile negare che l’epoca della seconda rivoluzione industriale è finita e bisogna rivedere la concezione di produzione; detto ciò, la fase post-fordista non elimina certamente il conflitto capitale-lavoro, ma anzi lo riconfigura in una forma inedita che, pur non modificandone la natura, impone alla forze anticapitaliste internazionali di ripensare le modalità e le forme di intervento nella nuova classe.
Da tempo come Rete dei Comunisti stiamo sviluppando anche un’analisi delle aree metropolitane, che sono destinate sempre più a svolgere una funzione economica importante sia come riserva di caccia delle privatizzazioni e dei tagli sociali a sostegno delle politiche europee di bilancio, sia come “magazzino di forza lavoro” messa a disposizione del capitale privato nazionale e multinazionale. Le aree metropolitane del paese sono sempre più i punti dove quantità e qualità delle contraddizioni, dal lavoro alla questioni dei servizi sociali fino a quelle ambientali, si sommano e spingono verso il conflitto sociale. Questa condizione strutturale ora si sta manifestando anche sul piano politico istituzionale e non è certo un caso che le due aree metropolitane maggiori nel paese e con le maggiori contraddizioni, Roma e Napoli, si stiano orientando per le prossime elezioni comunali a dare rappresentanza a forze, quali De Magistris e M5S, che sono fuori e contro il PD, forza politica che, abbandonata ormai la “veste” democratica, si sta rapidamente evolvendo verso una funzione sempre più reazionaria.
Potremmo continuare delineando in modo più specifico i caratteri dei diversi settori sociali che potenzialmente possono esprimere interessi ed ideologie antagoniste, ma questo lavoro sarebbe comunque insufficiente in quanto è necessario indagare statisticamente sulla condizione oggettiva della classe nel suo complesso e dei suoi potenziali alleati ma anche sulla percezione soggettiva che questa ha di se stessa, della propria condizione collettiva o dei propri interessi specifici, individuali o corporativi.
Questo lavoro non può che essere un lavoro collettivo di inchiesta di classe, che non è un fatto sociologico ma, nella misura in cui si indaga anche sui cambiamenti d’identità ed ideologia, permette di avere una visione più esatta del contesto in cui si deve operare. Per questo la Rete dei Comunisti è oggi disponibile ed intende partecipare alla costruzione di un movimento politico per l’inchiesta che serva da orientamento nel lavoro per tutte quelle forze che vogliono resistere al disarmo e rilanciare il conflitto politico e sociale in modo organizzato nei termini fin qui detti.
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