di Michele Giorgio – Il Manifesto
La presunta volontà di
innovazione e trasformazione, sociale ed economica, di re Salman
dell’Arabia Saudita e, soprattutto, di suo figlio e (neo) principe
ereditario Mohammed, è il filo conduttore di un reportage, dal titolo
“Il Regno svelato”, apparso a inizio luglio su Repubblica.it.
Un lungo racconto che apre finestre interessanti su diversi aspetti di un Paese per vocazione inchiodato al passato e che si traveste di
modernità indossando un abito fatto di costruzioni avveniristiche,
automobili costose e ostentazione di ricchezza. Racconto che
diventa “fiction” quando lascia intendere al lettore che il giovane
Mohammed, di fatto già al comando, grazie al suo piano “Vision 2030” ha
tutte le carte in regola per «traghettare» l’Arabia Saudita verso un
futuro di progresso. Per fortuna sono proprio i sauditi intervistati, anzi le saudite, a riportare il lettore alla realtà.
Mohammed bin Salman risulterà simpatico a Repubblica.it ma
non è il “cambiamento” auspicato. Il rampollo è l’incarnazione del
sistema saudita, è la perpetuazione di un Regno creato dal colonialismo
occidentale e che si è assegnato un ruolo: imporre la sua supremazia
nella regione, combattere lo Sciismo e imporre a tutti i musulmani il
Wahhabismo, cugino stretto del salafismo radicale dell’Isis e di al
Qaeda, grazie anche all’impiego delle ingenti fortune economiche e
finanziarie prodotte dall’esportazione del greggio.
E fino a quando i Saud guideranno il Paese, in stretta alleanza con
il clero Wahhabita, l’Arabia Saudita non potrà cambiare all’interno
perché solo così può garantire il dominio dell’establishment
politico-religioso, con il consenso di una larga parte della sua
popolazione come dimostra il sostegno che ha ricevuto l’arresto della
ragazza che qualche giorno fa su Snapchat aveva osato mostrarsi in
minigonna e non con il tradizionale abaya nero.
Il modello wahhabita, nella visione dei Saud, è quello al
quale dovranno adattarsi e piegarsi i musulmani, ovunque. È la forza che
dovrà spazzare via l’Islam popolare e variegato, figlio delle culture
dei suoi tanti popoli. E’ la spada che dovrà schiacciare il
revival sciita incarnato dall’Iran. Il giovane principe Mohammed ha già
mostrato di essere in linea con questo modello strategico, militare,
economico, religioso e sociale.
Solo una lettura ingenua può vedere in “Vision 2030” un cambiamento reale, anche nella società. Nella migliore delle ipotesi è, come nel Gattopardo, un cambiamento che non cambia nulla. Parla
l’ardore con il quale Mohammed bin Salman ha promosso l’intervento
militare dell’Arabia Saudita in Yemen, per ribadire la storica egemonia
del Paese nel più povero degli Stati della regione e fermare
«l’espansionismo iraniano» alleato dei ribelli sciiti Houthi.
Una guerra sporca, sanguinosa, di cui non si parla e si scrive, nel
rispetto della regola che vuole che non si riferisca dei crimini
commessi dagli alleati dell’Occidente, come l’Arabia Saudita.
Due giorni fa l’ennesima mattanza di civili: 20 yemeniti sono stati
uccisi in un raid aereo a guida saudita su un campo profughi nella
provincia di Taiz.
La notizia data dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati
(Unhcr) ha trovato ben poco spazio sui media italiani, a differenza
della guerra civile in Siria, un altro scenario in cui Riyadh è
largamente coinvolta con effetti devastanti, attraverso il finanziamento
di gruppi salafiti responsabili di attentati e di governare con
brutalità i territori sotto il loro controllo. Lo stesso era avvenuto in
Afghanistan con i finanziamenti prima ai mujaheddin anticomunisti e poi
ai Taliban.
Ma l’Occidente finge di non vedere. L’attenzione ora
è rivolta ai «crimini del regime di Bashar Assad». Fanno gola le decine
di miliardi di dollari che l’Arabia Saudita investe ogni anno
nell’acquisto di armi occidentali. Ne sa qualcosa Donald Trump
che due mesi fa, durante la sua visita a Riyadh, ha firmato accordi per
forniture belliche ai sauditi per (almeno) 110 miliardi di dollari.
Viaggio che ha aperto la strada alla decisione di re Salman di
nominare principe ereditario il figlio Mohammed, gradito alla
Amministrazione Usa. E che ha anche dato il via libera all’offensiva dei
Saud contro il Qatar, petromonarchia filo-Usa come quella saudita ma
incostante nell’azione anti-Iran che pretende Riyadh.
Non sono tutte vittorie quelle che ha raccolto il giovane
falco Mohammed. Anzi, proprio Washington ha frenato i suoi impulsi
“eccessivi” che rischiavano di compromettere la stabilità del Golfo a
danno degli interessi statunitensi. Le 13 condizioni che i
Saud, e i loro alleati, avevano posto a Doha per mettere fine alla
crisi, ora sono diventate sei “principi” per un compromesso. Una battuta
d’arresto che non fermerà il principe saudita che ha in mente un solo
futuro per il suo Paese: egemonia regionale e conservazione sociale.
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