di Chiara Cruciati
Una stretta di mano,
stavolta a favore di telecamere, e un documento congiunto di
dieci punti: è il risultato dell’intervento a gamba tesa della Francia
sulla crisi libica. Il neo presidente Macron riesce dove l’Italia – che ha “snobbato” Tobruk – ha fallito:
ha fatto incontrare il primo ministro del governo di unità nazionale di
Tripoli al-Sarraj e il generale Haftar, capo dell’esercito della
Cirenaica.
I due, ieri a Parigi, hanno firmato un’intesa che ha al centro il
cessate il fuoco e le elezioni nazionali entro la prossima primavera. Che
un simile accordo regga resta da vedere visti i precedenti fallimenti,
dovuti sia alle precondizioni delle due parti che all’effettiva
incapacità di controllare l’intero territorio libico, diviso in una
miriade di autorità diverse, clan, tribù e città-Stato.
Ma l’impatto simbolico del punto segnato da Parigi è significativo:
la Francia, finora considerata – a ragione – ostacolo alla
pacificazione si presenta come mediatore della crisi. “Oggi la causa
della pace in Libia ha fatto un grande progresso”, ha detto Macron a
margine di un incontro a cui Roma non è stata invitata, né tanto meno
informata per tempo.
Il presidente francese ha abbozzato ringraziando in pubblico il premier italiano Gentiloni per il lavoro fin qui svolto. Ma
resta lo smacco per un paese investito da Ue, Usa e Onu della gestione
della crisi libica e scavalcata ora dalle stesse Nazioni Unite del nuovo
inviato Salame. Lui, nel castello di La Celle-Saint Cloud alle porte
della capitale francese, era presente.
Secondo dei dieci punti della dichiarazione congiunta di Tripoli e
Tobruk è la tregua, l’impegno a “evitare il ricorso alla forza armata
per qualsiasi motivo che non sia di anti terrorismo”. Primo punto,
invece, è un’affermazione politica: “La soluzione della crisi libica non
può essere che politica e passare per un processo di riconciliazione
nazionale che unisca tutti i libici, compresi tutti gli attori
istituzionali, della sicurezza e militari pronti a prendervi parte
pacificamente e che includa il ritorno in sicurezza di tutti gli
sfollati e i rifugiati”.
Al terzo punto le due parti si impegnano alla costruzione “di uno
Stato di diritto in Libia, che sia sovrano, civile e democratico”. Il
quarto punto fa riferimento all’accordo politico di dicembre 2015,
siglato in Marocco sotto l’egida Onu, con cui è stato creato il governo
di unità, ufficialmente mai riconosciuto dal parlamento ribelle di
Tobruk. Nessun riferimento all’articolo 8, attaccato da Haftar e
alla base dei precedenti fallimenti perché riconosce autorità sulle
forze armate al potere civile, ovvero al premier.
Ora la parola passa ai fatti, alla riconciliazione effettiva che
dovrà coinvolgere anche le milizie alleate di una o dell’altra parte e
in molti casi tra loro ostili. Come le Brigate di Misurata,
riferimento a singhiozzo di Tripoli, sotto il quale si sono poste per
convenienza in alcune operazioni (come quella anti-Isis di Sirte), ma
presto tornate all’autogoverno. Ci sono poi gli uomini legati all’islamista Ghwell, ex premier tripolino, oggi capace di controllare parte della capitale e spiana nel fianco di al-Sarraj. E infine le tribù e i clan che operano nel Fezzan, di cui non tutte riconoscono un’autorità esterna alla propria.
Ad emergere dall’incontro di Parigi, dunque, non è tanto
l’accordo in sé quanto il protagonismo francese. Che ha degli obiettivi
precisi (lotta ai flussi migratori e energia) e che passa per l’uomo più
forte del complesso scacchiere libico, quel generale Haftar
che l’Italia non ha saputo o voluto avvicinare ma che è chiaramente
fondamentale ago della bilancia. Molto di più del debolissimo al-Sarraj.
Proprio su questo ha giocato Parigi, sui timori strutturali di
Tripoli che gode oggi solo dell’endorsement internazionale ma non
controlla quasi nulla sul campo e sulla figura di Haftar, già ampiamente
sostenuto dietro le quinte con unità speciali francesi.
E se già si parla di progetti francesi di corridoi militarizzati nel
deserto, al confine sud della Libia con Niger e Ciad, per bloccare a
monte i migranti, di certo Macron ha gli occhi puntati sulle ricchezze
del paese, le stesse che mossero – insieme alle iniziative pan-africane
di Gheddafi, troppo lontane per l’Occidente dalle mire coloniali
classiche – l’allora presidente Sarkozy e la missione Nato del 2011.
Ovvero il petrolio libico, con la Total alla porta che punta
allo strapotere dell’Eni, e la ricostruzione di un paese devastato da
sei anni di conflitti.
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