Intervista a Stefano Petrella, biologo, naturalista dell’Associazione Casale Podere Rosa.
Roma è la capitale più verde d’Europa eppure questo fattore non viene affatto sottolineato né valorizzato. Sottovalutazione, sciatteria o convinzione che in una società fondata sul modello competitivo il “verde” non ha valore?
Si, Roma ha un patrimonio verde veramente imponente. I dati forniti da Roma Capitale indicano in 4.500 ettari il verde urbano (comprese le ville storiche, i parchi cittadini, l’arredo urbano, ecc.) e in ben 95.800 ettari le aree naturali protette e i parchi agricoli. Nel complesso oltre 100 mila ettari di verde che corrispondono a quasi 350 metri quadrati a persona! Sono numeri a cui si stenta a credere, avendo davanti agli occhi l’immagine della città a cui siamo abituati, con le strade invase dall’immondizia, il traffico cittadino congestionato, i quartieri dormitorio. Eppure basta pensare a grandi polmoni verdi come Villa Ada, Villa Borghese, Villa Pamphili, o a Castel Fusano, o alle grandi aree naturali protette come Marcigliana, Decima Malafede o l’Appia Antica-Caffarella per farsene un’idea. Numerosi studi hanno anche evidenziato la funzione di “corridoi ecologici” che queste aree verdi possono svolgere, mettendo in collegamento la città con le aree rurali o con i boschi circostanti. Il fatto che questo grande patrimonio verde non venga valorizzato adeguatamente dipende da molteplici fattori. Sicuramente le scelte politiche che hanno caratterizzato tutte le recenti amministrazioni capitoline hanno quasi annullato la capacità di gestione del verde urbano (si veda la condizione in cui oggi versa il Servizio Giardini del Comune di Roma). Ciò comporta che gli interventi siano ormai ridotti alle sole emergenze in occasione di eventi atmosferici più o meno intensi e comunque privi di qualsiasi strategia pianificata. C’è poi da dire che la città si espande e gran parte di ciò che oggi è periferia o estrema periferia fino a pochi decenni fa era ancora area agricola. Il grande business dell’edilizia è largamente prevalente sui valori ambientali. Da ultimo, è evidente come sia mancata finora una visione ecologica delle città e si sia relegato il verde a semplice fattore estetico. Le “foreste urbane” in realtà svolgono ben altre funzioni nell’ambito di quelli che oggi vengono definiti nel loro complesso “servizi ecosistemici”. La capacità degli alberi di abbattere gli inquinanti atmosferici e il particolato, produrre ossigeno, catturare la CO2, ridurre il dilavamento superficiale delle acque meteoriche, mitigare l’effetto “isola di calore”, ecc., assumerà un ruolo decisivo da qui ai prossimi anni, a fronte di cambiamenti climatici sempre più manifesti.
Recentemente è uscita una classifica di Legambiente secondo cui tra le aree metropolitane, Milano è più ecologica di Roma. E’ verosimile? Visti gli errori nell’ultima classifica sulla qualità della vita nelle città, non ci troviamo di fronte ad una forzatura in funzione della campagna Milano unica città globale - Roma città da abbandonare al declino?
In realtà il rapporto di Legambiente prende in esame una serie di parametri per valutare la qualità della vita nelle città italiane. Tra questi, i trasporti pubblici, la sicurezza stradale, la mobilità urbana, il consumo di suolo, la questione abitativa, la gestione dei rifiuti... e, da ultimo, anche il verde urbano. Forse per quanto riguarda Roma alcuni di questi parametri sono giunti talmente a fondo scala da annullare totalmente gli aspetti virtuosi del verde urbano!
Insomma non bastano solo gli spazi verdi o la qualità dell’aria a fare una città verde, il problema sono anche trasporti, gestione dei rifiuti, energia, qualità dell’acqua? Quali sono i parametri decisivi?
Io penso che la sfida che ci attende, anche nelle metropoli, si chiami “resilienza”. I grandi cambiamenti globali, primo tra tutti il cambiamento del clima, avranno effetti massicci anche sulle comunità umane. Prima o poi dovremo capire che occorre rendere meno rigide e più reattive le nostre società, non solo in termini infrastrutturali ma anche in termini di solidarietà e coesione sociale. Dovremo imparare a ritrovare nuovi equilibri e nuovi assetti in un’epoca in cui molti equilibri sistemici intorno a noi diverranno instabili.
Purtroppo nell’immaginario collettivo questi scenari si percepiscono ancora come piuttosto remoti e ciò autorizza i nostri governanti a giocare sui termini e a immaginare la strada della sostenibilità ambientale lastricata di nuove e mirabolanti tecnologie, green economy, smart cities, ecc. Insomma, utilizzare la grande crisi ambientale nella quale l’umanità è già entrata come un volàno per rilanciare un nuovo ciclo economico globale dominato dalla tecnologia avanzata. Ma questo, come stiamo già constatando, rende i sistemi globali più instabili e i popoli più affamati. Quando si parla di città si parla dei luoghi dove nei prossimi decenni si concentrerà la maggior parte del genere umano. Quindi pensare e progettare le città come degli ecosistemi in equilibrio dinamico con il proprio ambiente è quello che le generazioni future dovranno necessariamente imparare a fare.
Tornando alla tua domanda: certo, non bastano i soli spazi verdi per fare di una città una “città resiliente”. Ma se avessimo anche trasporti pubblici efficienti, su rotaia e magari anche gratuiti, come già avviene in alcune città europee, se avessimo il 100% di raccolta differenziata e il 100% di compostaggio della frazione organica dei RSU, se riducessimo l’impermeabilizzazione del suolo urbano, se le città diventassero luoghi di accoglienza e solidarietà sociale, se riducessimo la nostra impronta ecologica e aumentassimo la superficie delle foreste urbane... Certo, oggi fare il gioco dei “se” fa ridere, ma i nostri figli e nipoti dovranno affrontare tutti questi “se” in maniera terribilmente seria!
Secondo te perché Roma non riesce a decollare e farsi valere come “green city” sulla base dell’enorme patrimonio verde che ha a disposizione?
Perché si mobilitano grandi capitali in settori con un ritorno economico rapido e sicuro e Roma – se non vogliamo fare analisi troppo approfondite – è la capitale del terziario, edilizia, turismo e centri commerciali, è fortemente energivora ed ha un forte impatto in termini di consumo di suolo. Investire nella direzione di “metropoli come ecosistema”, invece, richiede una visione di più lungo respiro, richiede la condivisione di gran parte delle cose che abbiamo detto prima. Il grande patrimonio verde della nostra città, privo di una pianificazione e di un sistema di regole che lo indirizzi verso il miglioramento degli standard di qualità ambientale, si trasforma rapidamente da risorsa in problema, da beneficio in costo. Invece si potrebbe fare ben altro...
Quali possibilità di lavoro, sviluppo, coesione sociale potrebbe mettere in campo una green city?
Investire nelle foreste urbane conviene già oggi e converrà sempre di più in futuro, come peraltro indicato nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. La nostra associazione ha recentemente condotto uno studio all’interno del Parco Regionale Urbano di Aguzzano in un quadrante della città particolarmente congestionato tra le vie Nomentana e Tiburtina. Studiando i servizi ecosistemici dell’area e applicando appositi modelli di calcolo, abbiamo stimato in circa 175.000 euro il valore dei servizi prodotti ogni anno da questo piccolo parco di soli 60 ettari. Questo vuol dire che la comunità cittadina, se non ci fosse il parco, dovrebbe spendere la stessa cifra per filtrare gli inquinanti atmosferici, produrre ossigeno e sequestrare anidride carbonica nella stessa misura di quello che fanno gratuitamente gli alberi di Aguzzano. O, in alternativa, ignorare tutto ciò e pagare un prezzo ancora più alto in termini di affezioni cardio-respiratorie, tumori e morti premature. Oltre a questi servizi ecosistemici poi ne esistono altri più evidenti, in grado di generare direttamente posti di lavoro e reddito. Si pensi alla progettazione delle aree verdi, alla loro realizzazione e manutenzione, ma anche alla ricerca scientifica e alla didattica ambientale o allo sfruttamento di alcune risorse quali ad esempio il legno o i pinoli. Se poi estendiamo il discorso agli orti urbani, l’utilità in termini di sostegno al reddito familiare, filiera alimentare ultracorta e di qualità e – non ultimo – solidarietà, socialità, coesione e cura del territorio, balza agli occhi!
Una questione da prendere con le molle perché ci sono forti margini di ambiguità. Il “verde come risorsa”. E’ possibile declinarlo in modo che non diventi solo business e appropriazione privata di un bene pubblico? Nel rapporto sul parco urbano di Aguzzano al quale hai collaborato è scritto in premessa che: “I parchi non avranno più al centro dei loro compiti la inderogabile protezione del patrimonio naturale, la conservazione degli equilibri ecologici e la tutela del paesaggio, bensì la valorizzazione e la “messa a reddito” del territorio, anche di quel territorio che fino a ieri ritenevamo al sicuro dagli scempi edilizi, dalle mire degli speculatori, dagli abusi, dalle discariche e dalle trivellazioni alla ricerca di gas o petrolio”. Mi sembra un segnale di allarme bello chiaro. Magari il verde gestito da privati diventa a pagamento, dovremo pagare con un ticket anche l’aria buona da respirare. O no?
Il brano che citi si riferisce a un progetto di modifica peggiorativa della 394 (la Legge Quadro sulle Aree Protette) tentato nella precedente legislatura ma fortunatamente non andato in porto. Tuttavia la tentazione di “mettere a reddito” il patrimonio verde è un vizio antico che i nostri governanti non sembrano intenzionati a mollare. Mi riferisco ad esempio ad un emendamento alla legge sulla semplificazione e lo sviluppo regionale approvato lo scorso settembre dalla Regione Lazio, che ha introdotto pesanti modifiche alla 29/97 (la Legge Regionale sulle Aree Protette). Con questo emendamento viene regalato alla lobby dei cacciatori la possibilità di entrare e sparare nelle aree protette regionali. Ma non solo: introducendo il criterio del “silenzio-assenso” si consente di realizzare Piani di Utilizzazione Ambientale (PUA), cioè agricoltura anche intensiva, edificazione di stalle, fienili, opifici per la trasformazione dei prodotti agricoli e strutture per l’agriturismo, in deroga ai piani di assetto e alla tutela della biodiversità che – in teoria – il parco dovrebbe prioritariamente tutelare. Ecco, è questa progressiva erosione del capitale naturale inteso come bene comune che dobbiamo contrastare, se vogliamo costruire città resilienti.
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