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16/02/2023

[Contributo al dibattito] - La guerra capitalista. Alcune note di lettura

di Raffaele Sciortino

Nell’attuale temperie politica e culturale in cui, anche e forse soprattutto a «sinistra», per discutere di guerra è d’obbligo prima genuflettersi un consono numero di volte alla vulgata atlantista sull’«aggressione russa», su «Putin criminale al servizio degli oligarchi», sulla «difesa della democrazia ucraina» e via sproloquiando in volgare american-english – un libro come quello di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli (BGL), La guerra capitalista, offre una boccata d’aria pura oltre a far tornare coi piedi sulla terra[1]. E non è forse un caso che la riflessione lì contenuta sulle radici profonde del conflitto in corso non provenga da ambienti di radical left, intrisa di neo-progressivismo woke di importazione anglo-sassone e oramai distantissima da ogni riferimento classista. Ma proviene da studiosi seri (sì, studiosi) che mostrano di saper ricercare e ragionare in gruppo, capacità oggi pressoché scomparse, senza paura di nuotare, oggi, contro la corrente.

L’analisi di BGL, supportata da evidenze empiriche e da una adeguata metodologia quantitativa, mette al centro dei processi in corso la «legge di tendenza» marxiana verso la centralizzazione – da distinguersi dalla «normale» concentrazione – di capitali in oligopoli la cui rete si estende a scala mondiale, e discute dei nessi tra questo processo, da un lato, e la crisi delle democrazia (più precisamente: dell’«ordine liberal-democratico occidentale», p.35) e la tendenza alla guerra inter-capitalistica, dall’altro [2]. La lettura è tutto fuorché neutrale, si fa immediatamente critica dello stato di cose esistenti: «nel conclamato processo di centralizzazione del capitale e di oligarchizzazione delle istituzioni politiche occidentali, assegnare all’imperialismo degli Stati Uniti e dei loro alleati il ruolo di baluardo delle libertà civili e politiche sta diventando semplicemente grottesco» (p. 13). E lo fa a partire da una chiara collocazione antagonistica rispetto al «nostro» campo: «combattere contro l’imperialismo del proprio paese» (p. 14).

Quanto segue è solo un invito alla lettura con alcune osservazioni, di apprezzamento e di problematizzazione in vista di un ulteriore approfondimento possibilmente collettivo. Vado per punti sintetici chiedendo venia in anticipo per la schematicità di un’articolazione in questa forma.

Anzitutto alcune importanti e preziose messe a fuoco e implicazioni:

- Ripresa del concetto marxiano di centralizzazione strettamente relazionata agli assetti produttivi delle imprese in questione, al contrario dell’uso spesso fumoso e vago del concetto di finanziarizzazione invalso negli ultimi decenni a cornice del cosiddetto neoliberismo.

- Nesso inequivocabile tra centralizzazione capitalistica e imperialismo nell’accezione marxista «scientifica» del termine – imperialismo non (solo) come politica ma in prima istanza come processo oggettivo che contrassegna una «fase storica» dell’accumulazione capitalistica – con una ripresa del dibattito (non esclusivamente) marxista sul tema e una ricca bibliografia che rimanda non solo ai «classici» ma anche agli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta, snodi fondamentali del «nuovo» imperialismo. È l’invito a una ri-tematizzazione, fondamentale e oramai inaggirabile per qualsivoglia strategia politica di lotta al capitalismo.

- Individuazione del nesso centralizzazione-guerra – anche dietro la guerra ucraina – che BGL articolano nel senso di uno scontro inter-capitalistico emergente tra paesi creditori/debitori a scala storica mondiale che radicalizza (à la Lenin?) la concorrenza dal piano economico a quello geopolitico e militare.

- A un livello di analisi di un grado più giù, ma ben ancorato dentro il quadro della riproduzione sistemica (qui letta sul versante delle condizioni di solvibilità degli attori capitalistici istituzionali), il nodo importantissimo del ruolo delle banche centrali come meccanismo di regolazione e dunque di lotta inter-capitalistica tra debitori/creditori, interna e esterna ai singoli paesi, dentro il quadro dei processi di centralizzazione acuiti dalla crisi dell’accumulazione (v. tutto il cap. 7 della prima parte). Riconoscendone dunque la funzione inevitabilmente politica, al di fuori degli schemi neoclassici dell’equilibrio e dell’efficienza di impresa riduttivamente intesa, ma altresì senza concessioni a qualsivoglia versione dell’autonomia del politico, propria delle letture soggettivistiche (il «piano» del capitale) in voga nell’estrema sinistra degli anni Settanta (pp. 94-5). Nodo cruciale alla luce delle sempre rinnovantesi «guerre delle valute» (ricordo qui quella dollaro/euro di inizio anni Dieci, pudicamente ribattezzata come crisi dei debiti sovrani europei, ma si potrebbe risalire fino alla crisi asiatica del 1997-98) e, su questo punto torno qui sotto, alla luce del ruolo globale del dollaro e delle politiche della Federal Reserve statunitense. Utile anche per iniziare a districarsi nell’intricato groviglio economico attuale tra inflazione e manovre al rialzo sui tassi di interesse e, più in generale, sul possibile sblocco della situazione di «congelamento» [3] della crisi debitoria latente e dei (bassi) tassi di fallimento di imprese in Occidente che ha caratterizzato il decennio del Quantitative Easing.

- Non ultimo, impossibilità del riformismo come risposta gradualista al decorso catastrofico del capitale.

Di seguito alcuni punti (per me) problematici, di fondamentale interesse in vista di un possibile approfondimento:

- BGL parlano di due blocchi imperialisti (p.es., p.11), uno dei paesi debitori a guida statunitense, con l’Europa al traino, l’altro emergente dei paesi creditori a guida cinese in ascesa sì, ma resa instabile dall’acuirsi dello scontro con l’egemone Usa. Se intendo bene, saremmo quindi non solo a un blocco a guida cinese già formato, ma anche già ad una sfida nei fatti egemonica – strattono qui un poco gli autori, che paiono cauti al riguardo – di Pechino nei confronti di Washington. Comunque sia, il punto è che intorno alla Cina non si vede (ancora?) un vero e proprio blocco geopolitico fatto di alleanze (non è propriamente tale nemmeno il riallineamento sino-russo), anche se è vero che Pechino grazie alla sua ascesa economica fa sempre più da sponda per tutto un insieme di paesi, al di fuori del cerchio occidentale, visibilmente insoddisfatti di un’egemonia Usa sempre più predatoria, dai ritorni sempre meno win-win. Ciò non è dovuto solo al timore, giustificatissimo, di una scontata reazione rabbiosa degli yankee, alla luce del loro ineguagliato primato nell’hard e soft power geopolitico. Ma, di fondo, è in relazione al ruolo di perno del circuito internazionale dei capitali svolto ancora da Usa e dollaro, senza possibili sostituti in vista sul breve-medio periodo. L’unico sistema di alleanze effettivo – in realtà, di gerarchie vassallatico-tributarie – è al momento ancora solo quello statunitense (al di là di scricchiolii vari e, sperabilmente, in crescita).

- Ciò rimanda a un nodo essenziale: l’asimmetria persistente tra Usa (e mondo occidentale) da un lato e Cina e altri paesi emergenti dall’altro. Un’asimmetria monetaria e finanziaria – ampiamente documentabile, basti pensare alle riserve in dollari e in titoli del tesoro statunitensi che i paesi in surplus commerciale sono costretti a detenere elargendo così prestiti a costi minimi, e con ogni probabilità a fondo perduto, emessi nella moneta fluttuante del debitore – che rimanda altresì in ultima istanza alla divisione internazionale del lavoro. Ora, è vero che Pechino sta cercando di centralizzare i propri capitali (qui il ruolo imprescindibile del partito-stato, che non a caso i «liberalizzatori» di ogni sorta vorrebbero vedere minato) ma, appunto, è ancora in mezzo al guado e gli ostacoli sono tanto ingenti quanto la spinta a superarli [4]. Detto altrimenti: il sistema mondiale è quello dell’imperialismo (come «stadio di sviluppo») ma non tutti i paesi sono (già) imperialisti pur cercando alcuni di essi, sulla spinta del proprio sviluppo capitalistico interno e delle dinamiche del conflitto di classe, di risalire la gerarchia capitalistica mondiale, in primis le catene del valore cui il mercato mondiale li ha avvinti. Non tutte le centralizzazioni sono qualitativamente uguali e, ancor più, garanzia di accesso al club dominante.

- Quanto sopra si collega allo schema paesi creditori/debitori. Restiamo alla Cina e tralasciamo la difficile collocazione di Germania e Giappone in questo schema. La vera novità dell’imperialismo post anni Settanta – potremmo dire, a partire dallo sganciamento dollaro-oro del ’71, ma già innescata dall’affermazione dell’impresa multinazionale – è una nuova modalità e configurazione via via divenuta strutturale sulla base della quale, per dirla in estrema sintesi, gli Usa dominano non nonostante ma attraverso il deficit della propria bilancia dei pagamenti, crocevia essenziale del complesso intreccio di esportazione e importazione di capitali. L’indebitamento dovuto al doppio deficit, della bilancia dei pagamenti e statale, non sono dunque, in ultima istanza, elementi di debolezza ma di forza, nel senso del funzionamento sistematico e ordinativo del meccanismo di prelievo egemonico (ovviamente assai articolato) e altresì di lubrificazione dei circuiti internazionali dei capitali, cui tutti gli attori sono stati finora costretti ad attingere. Di qui il ruolo internazionale incontrastato, a tutt’oggi, del dollaro non bilanciato né bilanciabile a breve-medio termine se deve essere preservata la riproduzione capitalistica mondiale. Tale elemento di forza (strutturale e quindi strategico per Washington) oggi sempre più si rivela problematico, in quanto vieppiù espropriativo, e innesca reazioni come quella cinese. Ciò non implica però, a mio avviso, alcuna teoria «declinista» sugli Usa, bensì l’incepparsi, per salti, del meccanismo fondamentale della globalizzazione asimmetrica (e qui si tratterebbe di andare alla crisi dell’accumulazione mondiale, e non solo all’ascesa cinese, fattore ovviamente importante). Quella cinese non è dunque una sfida egemonica ma di sopravvivenza (analogamente, ma su un piano più generale, alla mossa militare russa in Ucraina). La strategia Usa del decoupling selettivo non è già una strategia di de-globalizzazione (intenzionale, al di là dell’eterogenesi dei fini che si darà) e di ritiro in un’area circoscritta (che, tutto sommato, starebbe bene a più di un avversario di Washington, a condizione che si formassero circuiti monetari alternativi, pur non antagonistici, e che la UE vi potesse partecipare senza essere scompaginata dagli Usa: ipotesi realistica?) ma di riaffermazione dell’egemonia globale nelle nuove condizioni (esito che considero comunque problematico per ragioni che sarebbe qui lungo argomentare).

- Sul nesso tra centralizzazione e accumulazione: forse si può avanzare l’ipotesi che i due processi, che giustamente il lavoro di BGL differenzia, procedono sinergicamente allorché l’accumulazione funziona (e funge altresì da controtendenza parziale ad una centralizzazione eccessivamente squilibrante), ma con l’incepparsi di questa la centralizzazione finisce col prevaricare e surrogare, per così dire, l’accumulazione? Quindi confermando il nesso tra centralizzazione e crisi capitalistica e, di qui, con la guerra inter-capitalistica. Se è così, si ripropone allora con più cogenza di quanto gli autori lasciano pensare l’intreccio, piuttosto che lo sganciamento, delle leggi generali di tendenza del capitale tra di loro.

- Infine, il nesso centralizzazione-democrazia: tema spinoso, a partire dalla definizione stessa di ciò che si intende per democrazia. Comunque sia, non sarei così sicuro che la «carta democratica» – benché di un esercizio sempre più formale, a coprire la sostanziale oligarchizzazione della sfera politica – abbia cessato o cesserà di essere giocata dall’Occidente, sia al proprio interno sia come richiamo verso i ceti medi e la gioventù extra-occidentale (come avvenuto in Ucraina nel 2014), come marchio di fabbrica della propria superiorità. È il retaggio di un secolo e passa di imperialismo, e non si supererà facilmente.

Resta per noi – che non siamo neutrali osservatori, pur oggi costretti ad osservare più che a contribuire all’azione collettiva – la questione ineludibile di come tutto ciò si articoli alla lotta di classe, sempre data ancorché resa invisibile o opaca ai suoi stessi agenti, e al suo possibile percorso verso una lotta accompagnata da coscienza di classe, questa non sempre data, anzi oggi apparentemente lontanissima. Comunque sia, i nodi oggettivi individuati da La guerra capitalista ci accompagneranno per un bel pezzo.

Note

[1] Uno sguardo critico sul nesso guerra-imperialismo sta a poco a poco emergendo da un insieme di lavori tra i quali Maurizio Lazzarato, Guerra o rivoluzione.

[2] Rimando alla recensione di Andrea Fumagalli per più precisi ragguagli.

[3] V. B. Astarian, R. Ferro, Accouchement difficile.

[4] Qui rimando, e mi scuso, alla terza parte del mio libro Stati Uniti e Cina allo scontro globale, da poco pubblicato presso Asterios.

Fonte

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