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16/10/2023

Le «case green» slittano a dicembre: è la contraddizione del Green Deal della UE

Due giorni fa, in piena notte, la riunione fiume di quasi 10 ore del «trilogo» dell’Unione Europea (Commissione, Consiglio e Parlamento) si è conclusa senza un accordo finale sulla direttiva sull’efficientamento energetico degli edifici. È stata dunque rimandata a dicembre la parola fine su questo dossier.

Nel testo concordato il 14 ottobre non c’è più il percorso a tappe forzate per le classi energetiche minime da raggiungere per le strutture esistenti. Invece, è apparsa una riduzione percentuale dei consumi energetici sull’intero parco edilizio residenziale da qui al 2050, ma senza armonizzazione europea delle certificazioni.

Rimangono ancora da discutere molti nodi di non secondaria importanza. Il primo è sicuramente quello dei meccanismi dei mutui green per finanziare le ristrutturazioni, ma c’è anche il tema dell’installazione dei pannelli solari sugli edifici pubblici, delle colonnine di ricarica per auto e l’uso delle pompe di calore e lo stop alle caldaie a gas.

Da tutti i punti ancora senza intesa, e dall’intesa stessa, è chiara la grande flessibilità che verrà data ai vari governi nazionali. Si tratta di ampie libertà rispetto alla severità dell’iniziale proposta della Commissione, le quali sono state richieste a gran voce da vari paesi, con l’Italia in prima linea.

La leghista Isabella Tovaglieri, relatrice ombra della direttiva per il gruppo Identità e Democrazia del parlamento di Strasburgo, ha rivendicato questo risultato come una vittoria del governo italiano. A suo avviso, alle famiglie del Bel Paese si è così evitato di “pagare un’eco-patrimoniale”, con la stessa Confedilizia che si è detta sollevata.

Sempre la Tovaglieri ha detto che “il fronte dell’ambientalismo ideologico si è incrinato proprio sulle battaglie di bandiera della legislatura”. Questa trattativa è stata infatti subito ed esplicitamente associata alle prospettive delle elezioni europee del 2024, sulle quali si stanno muovendo in tanti per assicurare una maggioranza di destra alla guida della UE.

Con altre parole l’europarlamentare leghista ha esposto più chiaramente la contraddizione di fondo dei piani inizialmente stilati a Bruxelles: “non può esserci sostenibilità ambientale senza quella economica e sociale”. Una formula su cui potremmo essere d’accordo, se si intendesse che la necessaria transizione ecologica non può essere fatta pagare ai settori popolari.

Ovviamente, il senso è diverso. La maggioranza Ursula così come la destra che si dice sovranista sono d’accordo che la maggiore autonomia energetica e la riorganizzazione industriale del continente dovranno essere i lavoratori, i pensionati, i giovani a pagarla.

Il cortocircuito è però di fondo, nel modello sociale incompatibile con gli obiettivi climatici prefissati. Il disaccoppiamento tra crescita economica e riduzione delle emissioni, secondo un recente studio dell’università di Leeds e dalla London School of Economics, procede troppo lento per stare entro i limiti posti dall’Accordo di Parigi.

Ma il problema è in un sistema fondato sulla tutela a tutti i costi dei profitti, fatti attraverso lo sfruttamento di persone e risorse. L’ambiente non può essere protetto se danneggia i dividendi, e ricompare di nuovo con forza la contraddizione tra capitale e natura.

Se ci si aggiunge l’incapacità della classe dirigente a far fronte alla crisi e all’inflazione, se non con massacranti e inutili aumenti dei tassi di interesse, ci si rende facilmente conto di come serva un’alternativa sistemica. Serve che non sia il privato e la valorizzazione senza fine in un mondo finito a indirizzare gli investimenti.

Devono essere le esigenze della collettività a guidare lo sviluppo del mondo, almeno sempre che vogliamo davvero mantenere la nostra casa abitabile.

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