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10/04/2025

Chi di dazi colpisce...

Fuori dal caos delle dichiarazioni e dell’ottovolante delle Borse, qualcosa di stabile si può trovare. Ma non somiglia troppo a quel che commentatori esausti, o a corto di fantasia, pretendono di rilevare.

Sarà un caso, ma mai come adesso fioriscono lunghe articolesse camuffate da “libri” in cui si tenta di spiegare “cosa c’è nella mente” di questo o quel leader (Putin, Trump, Xi Jinping, ecc.), come se davvero un normale propagandista assunto con contratto giornalistico avesse un accesso privilegiato alla testa di gente che vede soltanto in tv. Come noi, insomma...

Badiamo perciò ai fatti bruti. Trump ha sospeso a tutto il mondo, per 90 giorni, l’applicazione dei dazi decisi solo una settimana fa; ma in realtà li ha solo ridotti al 10% per tutti tranne che alla Cina, unico paese a rispondere immediatamente con controdazi, prima al 34% (misura identica a quella imposta dagli Usa alle proprie merci) e poi all’84% in seguito al “rilancio” trumpiano. Che ha insistito subito dopo portandoli al 125%.

Il tycoon gioca a poker, evidentemente (“buio”, “controbuio”, “rilancio”, “chip”, “passo”, “vedo”, ecc.), ma è difficile credere che l’economia mondiale possa essere davvero affrontata allo stesso modo.

Di fatto, per il momento, c’è una guerra commerciale soprattutto contro Pechino e una pistola sul tavolo, puntata contro tutti gli altri, dopo aver comunque sparato un 25% su alluminio e acciaio e, come detto, un 10% universale su tutto il resto.

La rapidità con cui Trump ha fatto marcia indietro rispetto a una settimana fa ha sorpreso – dicono – anche il suo staff governativo, che comunque premeva in tal senso, spaventato dalla reazione delle borse (tre giorni di perdite colossali) e dalle telefonate intimidatorie dei vertici di multinazionali, gruppi finanziari, banche, ecc.

Ma gli alert più convincenti erano arrivati dai titoli del Tesoro e dalla quotazione del dollaro. In rapido deprezzamento i primi e in drastico calo il secondo, con conseguenze di lungo periodo probabilmente drammatiche.

Come dovrebbe esser noto, se cala il prezzo dei titoli di stato aumenta simmetricamente il loro “rendimento”, ossia la cifra degli interessi che dovranno esser pagati. E per un paese come gli Usa, con un debito pubblico di 36.000 miliardi di dollari, obbligato a spendere quasi 1.500 miliardi l’anno solo per gli interessi, non è una bella notizia. Anche perché i treasury sono da sempre il titolo “più liquido” del mondo, grazie proprio alla stabilità del loro valore nel tempo.

La contemporanea caduta del dollaro confermava la tendenza degli investitori “di peso” a liberarsi di una valuta governata un po’ troppo arbitrariamente per essere affidabile.

Due colpi in uno contro il ruolo degli Usa sui mercati, perché da sempre – nei momenti di grande tensione – treasury e dollaro diventano “beni rifugio” dove parcheggiare la liquidità in attesa che torni il bel tempo. Stavolta è successo esattamente l’opposto.

E qui le dinamiche di mercato incrociano la geopolitica. Qualcuno ha visto nell’improvvisa vendita di titoli di stato Usa la “manina” di Pechino, che ancora detiene una importante percentuale di quei titoli. Ma per quanto suggestiva – sarebbe la prova che la Cina può reagire ai dazi anche con altri strumenti – questa lettura esagera i dati.

Perché, banalmente, sono anni che il Dragone si va liberando dei treasury, non rinnovando gli acquisti quando arrivano a scadenza e quindi senza provocarne la caduta di prezzo (ci rimetterebbe...). Attualmente la sua quota è ridotta al 2% (poco più di 700 miliardi, comunque).

Dunque in quel terremoto che ha preoccupato prima gli specialisti, poi anche Trump, ci sono molte altre mani, sia “pubbliche” (Stati) che private (fondi di investimento), che scuotono l’albero per far sentire che così non va.

Per ora, dunque, l’America “Maga” dichiara guerra solo alla Cina e prova a riconciliarsi col resto del mondo, brutalizzato dai dazi e vilipeso fino all’insulto da osteria (“mi stanno telefonando da tutte le parti per venirmi a baciare il culo e chiedere di trattare”), contro cui resta però una barriera inferiore (10%), a ricordare che ci sono solo tre mesi di tempo per arrivare a Washington e obbedire ai diktat, in modalità Zelenskij.

La Cina può prenderla con più calma, anche se certo non sorride. Ha molte altre carte in mano. La svalutazione dello yuan, per esempio, deciso nella notte, che ha gli stessi effetti dei dazi ma al contrario (rende più competitive le merci di Pechino, smorzando l’effetto tariffe).

Il blocco delle esportazioni di sette “terre rare”, di cui le tecnologie avanzate hanno estremo bisogno. L’implementazione del sistema di pagamenti cinese ai partner più vicini, nell’estremo oriente. La tessitura di migliori accordi commerciali con interlocutori sempre più spaventati dall’imprevedibilità statunitense e soprattutto dall’esplicita indifferenza per gli interessi dei partner. Si tratta decisamente meglio con uno “con la testa sulle spalle” invece che con un bandito che ti prende a schiaffi in pubblico...

Per non dire, infine, del prevedibile impatto negativo sui consumi popolari, negli States, provocato dai dazi sulle merci a basso costo che costituiscono ormai la “dieta quotidiana” dei redditi più bassi. Le grandi manifestazioni che cominciano a verificarsi negli Stati Uniti hanno molte cause (tagli di spesa e di posti di lavoro pubblici, cancellazione di programmi sociali, abolizione del dipartimento federale dell’istruzione, ecc.), e l’improvvisa riduzione dei consumi aggiungerebbe benzina al fuoco del malcontento.

In definitiva, il dato “stabile” nel caos è il declino dell’egemonia statunitense.

E come ha provato a spiegare l’economista Emiliano Brancaccio ad uno stupefatto Bruno Vespa, “dovremmo prenderci l’incarico di spiegare amabilmente agli amici americani un fatto un po’ doloroso, per loro: che il tempo di quello che Giscard d’Estaing definiva ‘l’esorbitante privilegio del dollaro’ probabilmente sta volgendo al tramonto. E quel tramonto bisognerebbe gestirlo tutti insieme appassionatamente: americani, europei e cinesi. Altrimenti rischiamo di risolverla à la Hobbes, à la ‘homo omini lupus’, come purtroppo già è accaduto nella storia”.

Scegliendo il trumpismo gli Usa stanno provando una soluzione unilaterale e traumatica, nella convinzione che saranno gli altri – tutti gli altri – a farsi più male, lasciando poi a Washington il compito e il potere di disegnare le nuove regole. Ma i calcoli sono molto complessi da fare, e non sembra che la realtà sia così malleabile da adattarsi agli “ordini esecutivi” firmati nella Casa Bianca.

Siamo passati da un “ordine mondiale imperiale basato sulle regole” a un disordine basato sulla volontà di potenza e l’arbitrio, come agli albori del colonialismo europeo. Ma nessun impero può essere governato a lungo in questo modo. Il rischio del fallimento è molto più alto delle possibilità di successo.

Anche perché, dall’altra parte, non ci sono più i “buoni selvaggi” ignoranti e disarmati...

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