Neanche il tempo di prendere fiato, e ricrolla giù tutto. Le borse stanno lì per quello, per “anticipare” movimenti e processi che arriveranno settimane o mesi dopo. Ora tutto avviene nel giro di ore, ed anche quel “termometro” del valore (azionario) sembra battere colpi in testa.
Ieri, per esempio, per le piazze mondiali era stata una giornata di recupero, dopo tre sedute da incubo. Ma è bastata ancora una volta un firma di Trump per mandare tutto nuovamente a ramengo. Del resto quella firma rendeva realtà la minaccia – rivolta alla Cina – di raddoppiare i dazi se Pechino avesse reagito alla mossa unilaterale degli Usa, sancita una settimana fa.
Un 50% supplementare sulle merci cinesi, visto che Xi Jinping non aveva obbedito al “diktat” secondo cui aveva tempo fino “alle ore 12” di ieri per annullare i contro-dazi del 34% messi sulle merci Usa per bilanciare quelli subiti.
Inevitabilmente, da quel minuto, le borse europee hanno preso a scendere, chiudendo ancora positive ma con recuperi assai meno eclatanti rispetto alle quotazioni della mattina, mentre quelle Usa – per questioni di orario – potevano scendere ampiamente, guidando il tracollo notturno delle piazze asiatiche e anticipando perciò quello europeo di oggi.
Al fondo c’è chiaramente anche un clamoroso errore di valutazione, oppure una dichiarazione di guerra. E sembra molto più probabile la seconda...
Era infatti impossibile pensare seriamene che la prima potenza manifatturiera del mondo “obbedisse” al comando degli Stati Uniti come una Estonia qualsiasi (il paese di Kaja Kallas, improbabile “ministro degli esteri” della UE, con una popolazione equivalente a tre o quattro quartieri di Roma). E dunque l’intimazione andava presa come un insulto che pretendeva una risposta negativa.
Ora i dazi Usa sulle merci cinesi sono arrivati al 104%. Una misura che ha un solo significato concreto: noi non vogliamo più importare le vostre merci. Cui si può rispondere solo con una “grazie, altrettanto”, se sei un paese che si regge sulle proprie gambe, oppure con un “maestà, ci perdoni, apriamo un negoziato!” se non ce la puoi fare.
Una breve analisi delle merci scambiate tra i due paesi rivela subito che il problema insolubile ce l’hanno gli Stati Uniti. Le merci cinesi di basso livello, infatti, hanno fin qui permesso la sopravvivenza degli americani più poveri, grazie al basso costo. Mentre quelle di alto livello tecnologico sono in genere merci di società statunitensi che producono in Cina. Ne sa qualcosa Apple, crollata in borsa più di tutti, davanti ai dazi trumpiani del 34% che portavano il costo medio degli iPhone intorno ai 2.300 dollari (a quasi 3.000, ora, con il raddoppio di ieri sera).
Dall’altra parte le esportazioni Usa verso Pechino sembrano il menu di un paese povero (soia, carne bovina e di maiale, ecc.), sostituibili appunto con i prodotti equivalenti di altri paesi poveri, magari anche a un prezzo più conveniente...
Questo squilibrio “fisico” spiega molto dell’azzardo statunitense, che mette fine ad un “ordine mondiale” costruito in base ai propri interessi ma che, nel corso dei decenni, gli altri paesi hanno imparato a leggere ed aggirare, come normalmente avviene sempre nel business.
Quell’ordine era per Washington ormai un fardello insostenibile, con squilibri commerciali crescenti (quantificati ora in circa 26.000 miliardi, cumulati nei decenni scorsi), un debito pubblico pantaguelico, una desertificazione industriale imposta dalle stesse imprese Usa quando hanno avviato la “de-localizzazione” della produzione verso i paradisi del baso costo del lavoro, e moltitudini di poveri accampati nelle strade tra un grattacielo e l’altro (guardate le foto di Skid Row, a Los Angeles, per farvi un’idea...).
Il debito pubblico, in genere, è un problema solo relativo. Il Giappone – e ovviamente l’Italia – ne hanno di più alti (in percentuale sul PIL) rispetto a quello Usa, ma con una differenza fondamentale. I titoli di stato (titoli di debito) sono qui e a Tokyo posseduti soprattutto da investitori nazionali, e dunque questi paesi sono indebitati soprattutto con se stessi. Con un po’ di accortezza, insomma, si può gestire la situazione...
Il debito Usa è prevalentemente con investitori stranieri, in primo luogo con Stati (Cina, Arabia Saudita, altre petromonarchie del Golfo, ecc.), che trovavano nel dollaro una moneta di riserva “sicura”.
Mettere fine a quell’ordine significa metter fine a qualsiasi ordine. In effetti era un ordine infame, totalmente ingiusto, fatto su misura per la speculazione finanziaria e l’affamamento dei popoli. Impossibile esserne nostalgici. Ma era un ordine, ossia un sistema di regole e contrappesi che costituiva l’ambiente in cui tutti gli operatori economici – rilevanti o trascurabili – si muovevano, garantendo prevedibilità, per lo meno sui tempi medi.
Chiudere quella fase senza avere un ordine sostitutivo – l’arbitrio imprevedibile con cui agisce l’attuale amministrazione Usa tutto è meno che una “garanzia” – è semplicemente devastante.
I critici “democratici” della svolta trumpiana provano a ciurlare nel manico dicendo che questa rottura prefigura “un mondo in cui il più forte ha ragione, in cui le grandi potenze concludono accordi e intimidiscono quelle piccole”. È una presa in giro, naturalmente. Il mondo capitalistico è quello in cui “il più forte ha sempre ragione”, qualunque sia il sistema di regole vigente. E proprio gli Stati Uniti ne sono la dimostrazione vivente, visto che non hanno mai passato un anno senza essere in guerra contro paesi molto più deboli da quando sono diventati “egemoni” nel mondo.
La differenza che caratterizza il “mondo secondo Trump” è una sola: oggi è esplicito, senza giri di parole, senza melassa “diritto-umanista” o “preoccupazioni ecologiste”. Senza ipocrisia, insomma. “Ci serve la Groenlandia e ce la prenderemo, in un modo o nell’altro”.
Difficile contrastare questa aggressività neocoloniale e fascistoide con il ricorso alla “sacralità delle regole”. Quando ti sparano addosso metti mano alla pistola, se ce l’hai, non cerchi un buon avvocato. Anche negli affari...
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento