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08/04/2025

Lavorare si, ma per salari da fame

Qualche giorno fa, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha pubblicato il consueto report sui salari. Si tratta di uno studio che si occupa di tracciare le traiettorie dei salari reali e della disuguaglianza su un arco di tempo medio-lungo nei vari paesi del mondo. In Italia la pubblicazione ha destato commenti sorpresi e fintamente scandalizzati da parte della stampa e della politica (compreso il Partito Democratico, artefice di buona parte delle riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia). In realtà i contenuti del rapporto erano tristemente noti e attesi.

Il report è molto chiaro: l’Italia, tra i paesi del G20, è quello in cui i salari reali medi (cioè la quantità di beni che concretamente possiamo acquistare con i nostri stipendi) sono caduti di più rispetto al 2008. Sì tratta di una riduzione clamorosa, pari all’8,7% in 16 anni, quasi -0,6% all’anno. Il leggero rimbalzo avvenuto nel 2024 (+2,3%), inoltre, non è stato in grado di far recuperare nemmeno i livelli del 2019, ultimo anno precedente alla pandemia e all’esplosione dell’inflazione, ed è stato comunque inferiore alle media europea (dunque non si capisce di cosa possa vantarsi il governo Meloni).

Se il dato aggregato è impressionante di per sé, uno sguardo a ciò che è accaduto alle retribuzioni di fatto (che considerano non solo i dati tabellari, ma tutte gli emolumenti che a qualsiasi titolo concorrono alla retribuzione) dei lavoratori e delle lavoratrici può aiutarci a capire meglio dove si annida il problema che – lungi dall’essere una questione legata a particolari categorie di lavoratori – ha tutte le caratteristiche di una questione generale.

Per farlo, utilizzeremo i dati riportati nel rapporto INPS del 2024. A fronte di un’inflazione cumulata tra il 2019 e il 2024 prossima al 17%, secondo l’INPS, nel settore privato le retribuzioni dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato sono cresciute solo dell’8,3%. Poco meglio hanno fatto i contratti a tempo indeterminato del settore pubblico (9,2%). La perdita di potere d’acquisto, in ogni caso, appare evidente e significativa in tutti i settori.

Questo quadro, di cui già conoscevamo le tinte fosche e a cui non fanno altro che aggiungersi ulteriori sfumature di nero, merita tuttavia di essere letto insieme ai dati sull’occupazione, per cui il Governo tutto si è sperticato in espressioni di giubilo. Come di consueto, il primo aprile l’ISTAT ha diffuso gli ultimi dati sul mercato del lavoro, riferiti a Febbraio 2025. Da essi emerge che l’Italia è in piena espansione occupazionale con il numero dei disoccupati che cade e il numero di occupati che cresce. Una crescita che riguarda i contratti a tempo indeterminato più che i contratti a tempo determinato. La tendenza è confermata anche se si guarda il tasso di occupazione, arrivato ormai al 63% e il tasso di disoccupazione, pari al 5,9%. Sembrerebbero quindi periodi di vacche grasse per il mondo del lavoro. Tuttavia, questi dati, se guardati con occhio critico e facendo riferimento a quanto detto nelle righe precedenti in riferimento agli andamenti salariali, non fanno altro che certificare una notizia se vogliamo assai più preoccupante.

In Italia non solo si sta creando occupazione povera, ma si sta creando un’occupazione non più in grado di esigere e ottenere aumenti salariali. Visto dall’altro lato, le imprese possono comunque raggiungere profitti soddisfacenti senza ricorrere al potere disciplinante di tassi di disoccupazione elevati, visto che il potere contrattuale dei lavoratori è stato ridotto al lumicino da anni di austerità e riforme del lavoro contro di essi. Gli esiti delle contrattazioni salariali negli anni dell’inflazione avevano già preannunciato questa conclusione, ma ora possiamo purtroppo affermarlo con maggiore consapevolezza. I proclami di Governatori della Banca d’Italia, politici e sindacalisti di varia razza per non spingere sulla leva dei salari al fine di evitare pericolosi (per chi?) rincorse prezzi-salari non erano altro che l’ultimo afflato di una strategia di lunga data. I decenni di precarizzazione e di riforme del lavoro, le progressive riduzioni delle tutele, l’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione di un contratto a tempo indeterminato farlocco come il contratto a tutele crescenti, i decreti Poletti, gli interventi di questo governo contro il reddito di cittadinanza e le minime migliorie del decreto dignità hanno definitivamente svolto il loro compito affievolendo anche l’atavica paura dei padroni per la piena occupazione (legata alla circostanza per cui normalmente al decrescere del numero di disoccupati, decresce quell’esercito industriale di riserva pronto a lavorare con retribuzioni più basse di quelle medie pur di lavorare calmierando così, tramite una lotta tra poveri, il livello generale dei salari). La flebile ripresa post-covid ha portato con sé una crescita dei posti di lavoro cui si è accompagnata, di converso, una caduta drammatica dei salari reali.

Del resto quando si parla di mercato del lavoro e di distribuzione del reddito, nulla è meccanico, nulla è automatico, nulla è dato per scontato. Oltre 30 anni di controriforme del lavoro e dei diritti sociali e di acquiescenza sindacale hanno depotenziato drammaticamente la forza contrattuale dei lavoratori.

Per poterla recuperare occorre che una rinvigorita forza unitaria riaccenda il conflitto sui luoghi di lavoro, nelle vertenze e nell’arena politica generale. La battaglia per immediati aumenti salariali deve infatti accompagnarsi necessariamente ad una battaglia politica per il ripristino di tutte quelle condizioni normative e di contesto che contribuiscono a determinare la forza contrattuale della classe lavoratrice: in primo luogo la tutela contro i licenziamenti disintegrata con il jobs act, in secondo luogo la protezione contro la costante minaccia di delocalizzazione determinata dalla libera circolazione di capitali a livello europeo e internazionale; in terzo luogo i vincoli di bilancio legati al patto di stabilità europeo che impongono tagli alla spesa sociale che si riflettono enormemente sul valore dei salari reali e sulle condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro.

Lotta sindacale e lotta politica si intrecciano indissolubilmente e non possono che camminare sugli stessi binari verso gli stessi obiettivi di cambiamento di paradigma ed emancipazione sociale.

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